Sull'Oceano/In extremis
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IN EXTREMIS
La mattina dopo tutti si salutarono sul cassero con le stesse parole allegre: — Ancora tre giorni! — Siamo agli sgoccioli! — Dopodomani, dunque! — E, singolare! quella benevolenza insolita tra i passeggieri nasceva in gran parte dal pensiero di essere tra poco liberati per sempre gli uni dagli altri. Il tempo era buono, l’aria tepida. La prua pareva un villaggio in festa. Andandovi, incontrai il marinaio gobbo, meditabondo, che teneva a mano un paio di stivali. Si soffermò e mi disse piano: — E donne, l’è brutto quando cianzan, ma l’è pezo quando rian. — E mi spiegò il suo giudizio, che era fondato sull’esperienza. Quando lungo il giorno passava sul piroscafo una grande allegrezza, come quella del dì innanzi, seguiva quasi sempre che la sera e la notte fossero una disperazione; per lui, s’intende, e per quella certa ragione. La notte scorsa, per esempio, gli sarebbe stata contata lasciù. — Grandi cose, dunque? — gli domandai. Alzò gli occhi al cielo. Poi disse bruscamente: — Son stüffo de fa o ruffian — E se n’andò, vedendo avvicinarsi l’agente. Il quale pure era pensieroso, tormentato da due misteri che non gli riusciva di penetrare: l’uno, già detto, chi fosse il sospiro segreto di quel crostino della pianista, di cui coglieva sempre a volo lo sguardo e mai il guardato, come se facesse all’amore con uno spirito; e l’altro, il non aver veduto nessun indizio, neppure leggerissimo, sul viso di nessuno, della scenata che il comandante aveva promesso di fare per la signora svizzera. Ed era comico il veder quell’uomo coi capelli bianchi preoccupato sul serio di quelle due bazzecole, come un ministro delle fila d’una congiura di stato. E dicono che l’oceano ingrandisce l’anima! Eppure il comandante egli lo conosceva: non era uomo da aver minacciato a vuoto, in un affare di quella natura: chi poteva aver scongiurato la tempesta? Oh! l’avrebbe scoperto, se avesse dovuto logorarsi il cervello e star appostato tre giorni e tre notti, come un cacciatore di tigri. La buona disposizione d’animo dei passeggieri favoriva i suoi studi. Poco dopo le nove, quasi tutti stavan sul cassero, e i gruppi e gli atteggiamenti loro mi rimasero stampati netti nella memoria come ci soglion rimanere quelli che presentava la nostra famiglia il momento prima dell’annunzio o dell’avvenimento d’una sventura domestica. Gli argentini formavano un cerchio vicino al timone a mano, col marsigliese, che si dondolava, motteggiando, davanti alla signora porteña; la quale lo stava a sentire con quel doppio sorriso finissimo delle donne, che sfuma la cortesia nella canzonatura. La famiglia brasiliana, seduta al posto solito, girava intorno silenziosamente i suoi dodici occhi neri, come se vedesse tutti i presenti polla prima volta; e ai piedi della signora era accucciata la negra, come un cane. Vicino all’albero stavano in piedi il ladro, l’impiccato e il direttore della società di spurgo inodoro, che da vari giorni erano sempre insieme, senza discorrer mai, come tre amici sordomuti. L’avvocato sonnecchiava sur una seggiola lunga, con un libro sul ventre. La signora bionda sedeva sopra un sofà, pigolando in mezzo al tenore e al peruviano, a cui copriva un ginocchio con la gonnella allargata; e pareva che il contatto di quella stoffa facesse balenare agli occhi gravi del quichua la visione delle mille e cinquecento sacerdotesse del Sole, ma di quelle del tempo della corruzione. E sull’ultimo sedile verso poppa c’era la signorina di Mestre, più pallida degli altri giorni, fuorché alle sommità delle guance, che le ardevano; la quale parlava con una specie di eccitazione di febbricitante, ma con un sorriso d’una dolcezza inesprimibile, al garibaldino, seduto accanto a lei, col capo poderoso e bello un po’ chino, nell’atto d’un uomo triste, intento a una musica che gli rammenti dei tempi felici, ma non gli ridesti più alcuna illusione. Gli altri passeggiavano, col passo vivo e irregolare della gente allegra.
L’orizzonte era velato da una nebbia leggera, e c’era una certa gravezza nell’aria, che faceva sentire tratto tratto il bisogno di tirare un lungo respiro. Ma la temperatura era gradevole in confronto dei giorni passati. Gli argentini dicevano di sentir già los aires della patria. Dovevamo trovarci presso a poco alla latitudine di Santa Caterina del Brasile. A un dato momento salì sul cassero il genovese, fregandosi le mani, e mi disse passando: — Il barometro s’abbassa. Pur di scuotere la noia mortale che gli tarlava l’anima, egli desiderava perfin la tempesta. Ma non doveva avere il fatto suo l’uccellaccio del cattivo augurio. Altre volte aveva dato giù a un tratto il barometro, ma il mare non s’era rabbuffato. È del mare quello che si dice del popolo: che quando si vede in calma, non si capisce in che modo ne possa uscire, come non par possibile che s’abbia mai a racquetare, quando si vede in furia. Il velo dell’orizzonte, peraltro, s’andava facendo più alto e più fitto: era ora una grande fascia di vapori grigiastri, che stava per coprire il sole; e il mare, di color plumbeo, s’increspava. Ero però tanto lontano, io, dal prevedere il cattivo tempo, che mi divertivo a osservare l’avvocato, il quale, rizzatosi sul busto, girava sul grande nemico uno sguardo lento, in cui si vedeva crescere l’inquietudine, poi guardava verso il camerino del comandante, e più lontano, verso il palco di comando. Un gridio stridulo d’uccelli mi fece levar gli occhi in su: erano gabbiani che roteavano intorno agli alberi. Quello veramente era un cattivo segno. Ma ciò che fece senso più che altro fu di vedere all’orizzonte, come sorto all’improvviso, un nuvolone di forma bizzarra, spesso e scuro, orlato di bianco dalla luce del sole impallidito, e che s’alzava rapidamente, gettando un’ombra tetra sul mare; il quale cominciava a ribollire. E facea quasi freddo.
Già i passeggieri s’erano avveduti tutti del cambiamento. I lettori avevano chiusi i libri; tutti s’erano alzati da sedere, e guardavano l’orizzonte con quello sguardo che si fissa in viso a uno sconosciuto, il quale ci si presenti per trattare d’un affare grave. Un lampo, e un brontolio di tuono lontano, a cui tenne dietro subito un movimento brusco di rullio, provocarono qualche esclamazione: — Ed ora? — Cos’è questo? — Si comincia male! — Le signore cercavano con gli occhi il comandante. L’avvocato era già scomparso. Alcuni altri se n’andarono pure, all’inglese. Questo bastò perchè vari dei rimasti mostrassero uno straordinario buon umore, e pigliassero in faccia all’oceano degli atteggiamenti di ammiragli spavaldi, guardando le signore con la coda dell’occhio. Il marsigliese girava di gruppo in gruppo, dicendo allegramente: — Ça se brouille, ça se brouille. Nous allons voir un joli spectacle. — Lo spettacolo, infatti, pareva che non si volesse far molto aspettare. Il nuvolone c’era già quasi sul capo, e altre nuvole accorrevano velocemente, alcune delle quali, lunghe e sottili, ci passavan sopra a volo cos{{{}}}ì basse, che pareva che toccassero l’alberata. Il vento, intanto, si faceva più forte, e il mare principiava a ondeggiare, e il piroscafo a ballare più che fino allora non avesse mai fatto, tanto che tutti dovettero afferrarsi ai parapetti e ai sedili. Qualcuno, però, non credeva ancora che ci sarebbe stata tempesta. — Non è che un piovasco, — dicevano. Ma quelli che avevano già fatti molti viaggi, scrollavano il capo, strizzando un occhio. Io mi ricordo bene che, osservando più che gli altri me stesso, stavo aspettando con una certa curiosità psicologica quando e come mi sarebbe entrato dentro quel sentimento che ci vergogniamo tanto di confessare; e m’illudevo di potere tener dietro al suo lento avvicinarsi, senza sospettare che mi dovesse balzar addosso tutt’a un tratto, nel punto in cui traboccando sulla bilancia dell’anima l’istinto della conservazione, il piattello della curiosità sarebbe andato per aria. Insomma, stando a terra, avevo pur desiderato molte volte di trovarmi a una tempesta di mare. Ecco dunque una buona fortuna per l’artista. Ma quando, voltatomi a guardare sulla piazzetta, vidi accorrere intorno al comandante, ufficiali, macchinisti, marinai, camerieri, e il comandante gesticolare come se desse ordini premurosi, e poi tutti sparpagliarsi di corsa da varie parti, e gittarsi ad assicurare le lance, a fermare le stie, a chiudere le boccaporte, con furia precipitosa, aprendo a spintoni la folla che fuggiva sotto i primi spruzzi del mare, allora, dico la verità, cercai in me l’artista e non ce lo trovai più. Mi parve anzi che fosse già scappato da un quarto d’ora.
I lampi spesseggiavano, il tuono brontolava più forte, i buoi muggivano. Guardai intorno a me: c’eran già dei visi pallidi. Ma in alcuni la curiosità, in altri l’avversione ad andarsi a chiudere in camerino, prevaleva ancora. Le signore si stringevano al braccio dei mariti. Gli uomini si tastavano a quando a quando con un’occhiata, ciascuno pigliando animo e alterezza dalla faccia dell’altro, che gli pareva più brutta di quello che supponesse la sua. A un tratto passò sul cassero uno spruzzo violento, e s’intese un: Nom de Dieu! — e poi una risata forzata. Il marsigliese era stato scappellato e infradiciato da capo a piedi. Nello stesso punto salirono correndo quattro marinai a portar via i sofà e le seggiole. Poi arrivò il Commissario gridando: — Sotto, signori! Si chiude il salone, si spiccino. — Allora s’intese un grido dell’anima: — Oh Dio! Dio mio! — Era la sposa. Non si può immaginare l’eco intima che ha in tutti quel primo grido, quella prima irresistibile confessione del terrore della morte, da cui tutti sentono smascherato violentemente lo stato d’animo che dissimulano agli altri e a sè stessi. E allora fu una fuga disordinata e precipitosa a traverso al polvischio degli spruzzi che già saltavano per tutta la larghezza della coperta, in mezzo a una confusione di voci concitate e discordanti: — Oh Pablos! Pablos! — Presto, signori, presto. — Santa Maria benedetta. — Siamo serviti. — Dio mio! — Accidémpoli! — Coraggio, Nina. — Que relámpagos! — Sciü faççan presto, per dio santo! — Ebbi appena il tempo di vedere le punte degli alberi che descrivevan per aria dei grandi archi di cerchio, e un infernale rimescolio di gente alla porta del dormitorio di terza, e fui spinto nel salone. Una signora inciampò e cadde a traverso all’uscio. Per un momento m’apparì sulla piazzetta il Commissario, come ravvolto in una nuvola d’acqua, e sentii il nitrito lontano d’un cavallo. L’uscio fu chiuso. E nello stesso tempo uno scroscio formidabile e vicinissimo del fulmine e uno spaventoso movimento di fianco del piroscafo, che sbattè i passeggieri parte sul tavolato e parte contro le pareti, tolsero l’ultimo dubbio a chi ne poteva ancora avere: era una tempesta.
La maggior parte, afferrandosi ai tavolini e alle seggiole fisse della mensa, e barcollando come feriti al capo, si diressero verso i camerini. Altri si buttarono sui divani. Alcune signore piangevano. Lo strepito del bastimento e del mare copriva le voci. Pareva quasi notte. Mi sembravan mutati il luogo e le persone. In quel momento in cui tutte le affettazioni, tutti gli aspetti finti cadevano, e appariva di sotto nudo l’animale atterrito, dominato tutto dal suo furioso amor della vita, eran come facce nuove, voci sconosciute, mosse e sguardi che rivelavano lati dell’anima non prima indovinati. Nella mezza oscurità dei corridoi, dove tutti cercavano brancoloni il proprio camerino, urtandosi malamente gli uni cogli altri, intravvidi dei visi decomposti di condannati a morte, che a primo aspetto non capivo di chi fossero. Quando arrivai al mio covo, sonavan già qua e là i primi rantoli del mal di mare, delle voci di pianto chiamavan le cameriere, gli usci sbacchiavano con fracasso, le valigie e le cassette danzanti urtavano contro i tramezzi: era il disordine e il vocìo strano e lugubre che si sente entrando in un manicomio, dove tutte le consuetudini della vita sono sconvolte. Un movimento subitaneo di beccheggio mi gettò nel camerino come un sacco; l’uscio si chiuse da sè; un lampo m’abbagliò. E un pensiero improvviso m’agghiacciò il sangue: — Se non uscissi più di qua dentro? — E mi sentii in una solitudine immensa, come se mi fossi chiuso da me nella tomba.
Sì, è la verità, e la dico tutta. Questo è il pensiero che mi si confisse nel cervello, acuminato, freddo, immobile, come un punteruolo d’acciaio, e tutti gli altri pensieri e immagini che susseguirono nella mia mente per varie ore non fecero che girare intorno a quello vertiginosamente. Una immaginazione cento volte scacciata si ripresentava cento volte: quella del rumore che avrebbe fatto l’acqua irrompendo dentro, in quanti secondi sarebbe giunta all’uscio, il buio repentino, la prima ondata nella gola, e quel dubbio orribile, se avrei sofferto per lungo tempo. Confusamente cercavo di ricordarmi di notizie lette e intese a quel proposito, che mi confermassero nella speranza di un’agonia breve. E mi ricordo che il pensiero d’avere una volta desiderato per curiosità una tempesta, mi pareva una cosa insensata, mostruosa, incredibile, fuori della natura umana. Ecco dunque la realtà che desideravi, stupido pazzo! Ma questi pensieri eran come spezzati dagli sforzi vigorosi che dovevo fare per tenermi afferrato all’orlo sporgente della cuccetta, in ginocchioni sul tavolato; che era l'unica maniera di non essere sbatacchiato là dentro come un topo nella topaiola; e scompigliati anche dai fragori assordanti che si succedevano sopra nel salone, dove le vetrate degli armadi, sbattute, andavano in pezzi, e torri di piatti precipitavano frantumandosi, e il pianoforte, staccatosi dalla parete, andava di qua e di là cozzando nelle colonnine e nelle tavole. Ma assai peggio di quel frastuono di palazzo messo a sacco, peggio dei gemiti umani e del muggito del mare, era il rumore che faceva la membratura del piroscafo, uno scricchiolìo sinistro di edificio dislogato dalle fondamenta, una musica di scrosci, di schianti, di lamenti acuti, come se il corpo vivente del colosso soffrisse e gridasse, e corressero dei fremiti di terrore per le sue ossa lunghe e sottili, vicine a spezzarsi. Avevo un bel tentare di farmi animo con la statistica dei naufragi, uno ogni tante migliaia di viaggi, o che so io, e con l’idea della solidità grande di quei piroscafi enormi, che l’onda non può spezzare: quella musica smentiva ogni statistica e scherniva ogni consolazione. Frattanto il mare ingrossava sempre, la pioggia cadeva a torrenti, i lampi raffittivano, il tuono rumoreggiava quasi continuo, il piroscafo faceva degli sbalzi tali che, a occhi chiusi, mi pareva di esser sopra una gigantesca altalena a corda, che descrivesse archi di mezzo miglio, e ad ogni volata perdevo il fiato, per non ripigliarlo che nei pochi momenti di quiete che passavano tra l'una l’altra. E quell’essere in assoluta balìa d’una forza prodigiosa che non mi lasciava più libero nè il movimento nè il pensiero, mi dava un senso d’avvilimento fisico inesprimibile, come d’una bestia legata e mulinata nel vuoto da una grua colossale, e l’idea che quel supplizio potesse durare dieci ore, un giorno, tre giorni, mi sgomentava l’anima come il concetto dell’infinito. Pure fino a un certo punto serbai la mente lucida, tanto da ricordarmi ora presso a poco quello che in quel frattempo pensavo. Ma dopo una o due
ore, credo, crescendo fuor di misura la furia della tempesta, mi si fece un gran torbido nel capo, e di quello che pensassi allora saprei più dir poco. Ricordo la voce immensa del mare, più strana e più formidabile d’ogni più spaventosa immaginazione, una voce come di tutta l'umanità affollata e forsennata che urlasse, mescolata ai ruggiti e ai bramiti di tutte le belve della terra, a fragori di città crollanti, a urrà d’eserciti innumerevoli, a scoppi di risa beffarde di popoli interi; e dentro a quella voce, il fischio acutissimo del vento nei cordami, un turbinio di note lunghe, sonore e discordanti, come se ogni corda fosse uno strumento suonato da un demonio, grida di disperazione e di delirio che pareano uscire dai prigionieri d’una carcere in fiamme, e sibili che facevano fremere come se attorno alle antenne si attorcigliassero migliaia di serpenti furiosi. A un terribile movimento di beccheggio s’univa un rullio violentissimo, da parere che il bastimento si volesse coricare ora sur un lato ora sull’altro, e ad ogni colpo dell’onda nel fianco, tutto, dalla coperta alla carena, tremava, come per l’urto d’uno scoglio o per il cozzo d’un altro piroscafo, e gli assiti intorno davano uno schianto da far rabbrividire da capo a piedi come il fischio d’una palla o d’una lama di scure che ci rada le tempie. Si sentiva ad ogni ondata come la botta d’un artiglio gigante che piombasse sul bastimento e ne strappasse via un pezzo; s’udiva il tonfo tremendo di centinaia di tonnellate d’acqua cadenti sul tavolato, come se un torrente vi si rovesciasse da una grande altezza, e poi il rumore di cento torrentelli correnti in tutte le direzioni, con la furia d’un’orda di pirati che fossero saliti all’arrembaggio. Dei movimenti del piroscafo non capivo più nulla, non ne prevedevo più alcuno: era come preso a calci e a schiaffi, sollevato, buttato via, palleggiato e rigirato dalle mani d’un titano. La macchina aveva degli arresti e dei silenzi improvvisi, come colpita da paralisi, l’asse dell’elice dava degli scossoni di terremoto, l’elice dei colpi interrotti e pazzi, e si sentiva a momenti girar furiosa fuori dell’acqua, e poi tuffarvisi di nuovo, con un terribile colpo. E negli intervalli fra i rumori più grandi, s’udivano sopra passi precipitati, sonerie elettriche, grida lontane d’una risonanza strana, come gli echi delle valli piene di neve, e dai camerini dei lamenti strozzati come di gente scannata, che vomitasse le viscere. A un certo punto vi fu una scossa di sotto in su così violenta, che la bottiglia dell’acqua saltò fuori del suo sostegno, e s’andò a spezzare contro il soffitto. E quello fu il principio d’un nuovo e più matto scatenìo degli elementi, e di una successione di volate così fatte del piroscafo, che credevo di balzare dalla cima d’un monte sulla cima di un altro monte, sorvolando un abisso smisurato, e ad ogni nuova discesa pensavo che fosse l’ultima, e dicevo tra me: — Ora è finita. — E avevo delle illusioni vivissime: ecco, il tavolato si spezza, le coste s’infrangono a decine, i bagli si schiantano, la chiglia s’è rotta, tutti i legamenti si schiodano, tutto lo scafo si sfascia. Non ancora? A quest’altra dunque. E un caos di pensieri, un succedersi rapidissimo di ricordi della vita recenti e remoti, una fuga turbinosa di facce e di luoghi, rischiarati ciascuno da un lampo di luce livida, confusi e sformati come per una congestione cerebrale, accompagnati da un incalzarsi egualmente rapido e disordinato di rimpianti, di tenerezze, di rimorsi, di preghiere senza parola, e tutto fuggiva e tornava, come rigirato dal vento stesso della tempesta. Seguivano quando a quando dei brevi intervalli d’istupidimento, e come il sollievo che dà l’azione incipiente del cloroformio; ma poi di nuovo il sentimento della realtà, più tremendo di prima, e improvviso, come se due braccia gagliarde mi sedessero per le spalle, e una voce brutale mi urlasse sul viso: — Ma sei tu, tu che sei qui, e che devi morire! — Oh! quanto mi pareva assurda quell’idea dei tempi ordinari che sia lo stesso morire in un modo o nell’altro!... Oh morire d’una palla nel petto! Morire in un letto, con le persone care d’attorno, — esser sepolti — avere un pezzo di terra dove i figliuoli e gli amici possano andar qualche volta e dire: — È qui! — Alle volte tutti quei pensieri cadevano, e mi pareva di sentire per qualche momento che la tempesta cominciasse a rimettere un poco della sua furia; ma una nuova formidabile ondata, un nuovo roteamento vertiginoso dell’elice sollevata, come se la poppa saltasse per aria, mi strappava l’illusione. E mi rammento d’una ripugnanza invincibile a guardar il mare, d’un senso di ribrezzo profondo, come della vittima per l’assassino, quasi che in quei momenti avessi davvero coscienza d’una sorta di animalità dell’oceano, e dell’odio suo contro gli uomini, e che, affacciandomi al finestrino, dovessi incontrare mille sguardi orribili fissi nei miei. Guardavo qualche volta, ma ritorcevo gli occhi immediatamente, intravvisti appena i contorni mostruosi delle montagne nere che s’avanzavano e i profili delle muraglie ciclopiche che rovinavano d’un colpo, e tra l’una e l’altra saetta che rigavan di fuoco l'ammasso spaventevole delle nubi caliginose, una luce non mai vista al mondo, da non saper dire se fosse notte o giorno, la luce indeterminata dei paesaggi dei sogni, in cui pare che non splenda il nostro sole. E così mi s’era turbata pure l’idea del tempo, che non avrei saputo dire in alcun modo da quante ore la tempesta durasse. E mi sembrava che avesse a durare un tempo incalcolabile, non sapendo immaginare una cagione abbastanza potente per cui quell’enorme commovimento dovesse aver fine. Mi sembrava incredibile che non tutto l’oceano e il mondo intero fossero a soqquadro come quel mare, che ci fossero poco lontano e poco al di sotto di noi delle acque tranquille, e della gente sulla terra che attendeva in pace alle proprie faccende. Ma mentre mi passavano questi pensieri, che erano come un breve respiro dell’anima, ecco un’altra ondata di fianco, come un colpo di cannone da costa, un altro sussulto del piroscafo, come di balena ferita al cuore, e un altro schianto di travi, d’assiti, di tavoloni scricchiolanti e gementi, il senso dell’imminenza del disastro, la morte sull’uscio, un addio a tutto, l’angoscia d’un anno in un minuto. Dio eterno! Quanto durerà quest’agonia?
Durò molte ore. N’eran passato sette od otto, suppongo, quando l’illusione, continuamente perduta e rinascente, che la burrasca sfuriasse, mi parve che durasse più delle altre volte, poi si cangiò in una speranza, a cui la mente si rifiutava di credere ancora, ma che tutti i sensi andavano a poco a poco raffermando. I movimenti del piroscafo erano ancora impetuosissimi; ma quell’odioso fischio e miagolio arrabbiato dei cordami pareva quetato un poco, e l’urto dell’onda, se non scemato di forza, meno frequente. Considerai come un buon segno il risentire tutto il corpo indolenzito dagli atteggiamenti acrobatici a cui ero stato costretto per tanto tempo, mentre fino allora non ci avevo badato, e il riprovare curiosità di sapere che cosa fosse accaduto e accadesse dintorno a me. Tra gli schianti degli assiti e i mugghi del mare, sentii il pianto del bambino brasiliano, e altri piagnucolii, pure infantili, ma che dovevan essere di signore. Delle voci affannose chiamavano da varie parti i camerieri, i campanelli tintinnavano, i bauli viaggiavano ancora pei corridoi come se vi saltassero dentro tante bestie rabbiose. Cogliendo bene il momento per non ammaccarmi il cranio contro una parete, spiccai un salto e m’afferrai agli spigoli dell’uscio, per guardar fuori, e vidi due o tre corpi umani moversi, tenendosi di qua e di là, a passi e a tracolloni di briachi, coi vestiti scomposti e i capelli arruffati: fra i quali il marsigliese, i cui connotati accusavano una maledetta paura, già passata in gran parte, ma che non voleva finir di passare. Ogni tanto, infatti, una volata del piroscafo e uno scoppio istantaneo come dello spezzarsi di dieci travi, mi faceva dare indietro e ricercar la cuccetta a due mani, col terrore che ricominciasse il ballo più indiavolato di prima. Tra l’una e l’altra recrudescenza, tesi l’orecchio verso il camerino accanto, curioso di sentire se l’angoscia del pericolo comune avesse rallentato un poco fra i miei vicini la corda tesa dell’odio; e rimasi un momento sbalordito, udendo una respirazione rotta e dei gemiti fitti che potevano far sospettare una riconciliazione più che amichevole; ma subito mi disingannò una voce scellerata che fischiò queste parole: — Speravi che tutto fosse finito, non è vero? — Ma non intesi risposta. La prima nota incoraggiante che udii fu una risata di varie voci, che venne dalla parte degli argentini. Di faccia, sentii la voce del tenore, un tentativo di gorgheggio, interrotto bruscamente da un colpo sordo, che mi parve d’una capata. Poi per un pezzo non sentii più voci umane. Lo strepito del bastimento e del mare era ancora assordante, e il rullìo tale da stramazzare un quadrupede. Ma si poteva tentare una sortita. Aggrappandomi qua e là, e premeditando bene ogni passo, riuscii a trascinarmi tino al crocicchio dei corridoi. Che spettacolo! Per le porte delle cabine che s’aprivano e si chiudevano di continuo, si vedeva dentro un indescrivibile arruffio di valigie, di cuscini, di panni, teste ciondolanti sulle catinelle, corpi allungati come cadaveri, gambe di signore scoperte fino al ginocchio, vesti spettorate, visi bianchi, fazzoletti e boccette sparse sul tavolato. Incoraggito dallo scemare del movimento, svoltai nel corridoio principale, e mi trovai faccia a faccia col genovese, che veniva avanti a sbalzi lungo la parete, con la testa fasciata, bestemmiando. — Cos’è stato? — domandai. Rispose attaccando un moccolo. Poi spiegò: morto di fame, s’era arrampicato fin su alla dispensa, per pigliar due fette di prosciutto, un rostin, una cosa da nulla, insomma, e nel meglio un salto del piroscafo l’aveva gettato con la fronte contro uno spigolo della credenza, e s’ora fatto uno spacco. In quel punto uscì una voce chiara dai camerini degli argentini:
Hijo audaz de la llanura |
Quei tristi inneggiavano al vento pampero, a cui dovevano quelle otto ore di morte. Ma il vento pareva che fosse caduto quasi del tutto, benché il mare durasse agitatissimo. Dello facce immelensite si sporgevano fuori degli usci, in aria interrogativa, e poi rientravano in fretta. Una voce che mi parve quella del Secondo, gridò dall’alto della scala: — È passata, signori! — e gli risposero varie esclamazioni dei camerini: — Oh buon Dio! — Ma è vero proprio? — Laudate Dominum! — Che il diavolo ti porti! — Ah! son mezz’andato! — Ma un fremito di vita ricorreva da tutte le parti, come in un cimitero sotterraneo, dove i morti cominciassero a fregarsi gli occhi e a stirare le braccia. Mi sentii toccare la spalla: era l’agente, in veste da camera, con un livido a traverso il mento, ma allegro. — Ah! che scena! — disse — ho sentito tutto. — Parlava degli sposi: nel momento del pericolo s’eran messi a pregare, e poi s’erano scambiati gli addii. singhiozzando; lui le aveva chiesto perdono d’averla indotta a quel viaggio; s'erano dato il bacio supremo, anzi molti baci supremi. — Ah! Nina, mia! — Ah! mœ poveo Gmo! — E... niente spagnuolo, oh no davvero. Detto questo, scomparve, ma tornò un minuto dopo, a zig zag, facendomi cenno d’accorrere presto, che c’era una grande cosa da vedere. Lo seguitai alla meglio: si fermò davanti al camerino dell’avvocato, ch’era aperto, e mi disse di guardare, dando in una risata. Oh mostro non mai veduto! Io non riconobbi subito una creatura umana in quella informe cosa che vidi distesa a traverso al tavolato, e da cui usciva il guaito che fa Ernesto Rossi sotto le spoglie di Luigi undecimo atterrato da Nemours. L’avvocato, bocconi, insaccato in non so quale vestimento di salvataggio inglese o americano, imbottito di sughero, aveva una gobba sul petto e una sul dorso, ricoperte da una specie di corazza di cotone forte, e una corona di vesciche gonfiate intorno al busto, che gli davan l’aspetto d’un bizzarro animale mammelluto, cascato a terra senza sensi, vinto dai dolori d’un’esuberanza di latte. Quel carico enorme di ridicolo su quel pover’uomo così disfatto e così infelice destava una compassione infinita. L’agente si chinò per richiamarlo in vita, ed io lo lasciai all’ufficio pietoso.
A stento salii nel salone dov’eran già molti passeggeri: il marsigliese, il mugnaio, il toscano, il commesso parigino, il prete lungo, ed altri. Nessuna signora. Balenavano ancora dei lampi; ma il tuono scoppiava più rado e più lontano; il mare sempre gonfio e nero, e nessuno poteva reggersi ritto. Mirabile natura umana! Dal modo d’atteggiarsi delle persone già si vedeva che anche quell’avvenimento della tempesta era convertito a soddisfazione d’amor proprio, come se il non essere andati a fondo fosse stato effetto del valor personale di ciascuno, e tutti pregustassero fin d’allora l’orgoglio con cui, molto tempo dopo, per tutta la vita, avrebbero raccontato d’aver fatto fronte a quel pericolo senza paura. Era stupefacente la disinvoltura con cui più d’uno, che avevo visto pallido come un moribondo, si metteva la maschera dei coraggio in faccia a coloro stessi a cui sapeva d’aver mostrato poco innanzi i segni visibilissimi del terrore. Alcuni mutavan qualche passo da un tavolino all’altro, facendo ostentazione di piede marino, e ridevano a tutti i propositi con le labbra ancora senza sangue. Il marsigliese diceva: Je me suis énormément amusé. E il mugnaio fingeva di legger l’album di bordo! I camerieri intanto riferivan le prime notizie. Il mare aveva portato via varie lance, strappato e travolto le stie dei tacchini, annegato due buoi, sfondato uno sportello dell’opera morta di prua. Un marinaio, scaraventato contro l’albero di trinchetto, s’era ferito gravemente alla testa. L’osteria era stata mezzo sconquassata. Ma il poderoso corpo del Galileo non aveva patito altri danni, e non s’era arrestato un minuto; e a quella notizia rinasceva e si vedeva risplendere negli occhi di tutti il sentimento già umiliato dell’orgoglio umano, la fede ardita nell’opera dell’industria e della scienza dei propri simili; sulla quale quella immane forza dell’oceano ostile non aveva potuto far altro che minacce ed insulti, di cui appena c’eravamo accorti, e che già eran dimenticati. E non dimeno all’aprirsi della porta della sala, che equivaleva al permesso d’uscire, misero tutti un sospiro di soddisfazione, come se allora soltanto si fosse veramente certi che era tutto finito.
Ah! rieccolo dunque, il formidabile animale! Ci torniamo a guardar faccia a faccia. Ma com’era brutto ancora, e malauguroso! Grandi onde nere, biancheggianti di schiuma alle creste, tumultuavano, restringendo l’orizzonte da ogni parte, sotto una volta tenebrosa di nuvole, rotta qua e là da squarci grigi di luce crepuscolare, e come agitata da una nuvolaglia sottostante mobilissima e maligna, che volesse ricominciare la lotta. Il piroscafo era tutto bagnato come se in quelle sette od otto ore fosse stato sommerso da un capo all’altro. Per tutto correvan rigagnoli e s’allargavan chiazze d’acqua súdicia. I tetti, le pareti, gli alberi, le lance sgocciolavano come del sudore della battaglia. A poppa e a prua s’agitavano ancora i marinai, con grandi stivaloni, inzuppati da capo a piedi, coi capelli appiccicati alla fronte e al collo, rotti dalla fatica. Incontrammo nel passaggio coperto il comandante, tutto rosso, sudato e sbuffante, che ci passò accanto senza vederci. E picchiando spallate e fiancate dalle due parti del passaggio, sguazzando nella molletta color di carbone, urtati dalle persone affaccendate dell’equipaggio, arrivammo a prua.
Qui c’era già molta gente uscita dai dormitori, che si teneva con le mani ai guardacorpi, stati tesi a traverso alla coperta per uso dei marinai; e presentavano l’aspetto compassionevole d’una folla fuggita per quindici giorni dinanzi a un esercito invasore. Il Commissario, che era sceso più volte nei dormitori, ci fece delle descrizioni da stringere il cuore e da vincer lo stomaco. Aveva visto là sotto delle masse intricate di corpi umani, gli uni sopra e di traverso agli altri, con le schiene sui petti, coi piedi contro i visi, e le sottane all’aria; viluppi di gambe, di braccia, di teste coi capelli sciolti, striscianti, rotolanti sul tavolato immondo, in un’aria ammorbata, in cui d’ogni parte suonavano pianti, guaiti, invocazioni di santi e grida di disperazione. Delle donne inginocchiate in gruppi, con le teste prone, dicevano il rosario, picchiandosi il petto; alcune facevano ad alta voce il voto di andare scalze a certi santuari, appena fossero ritornate in patria; altre volevano ad ogni costo confessarsi, e pregavano piangendo il Commissario che mandasse a chiamare il frate; il quale intanto stava confessando parecchi nel dormitorio degli uomini. Varie donne avevan domandato supplicando che le lasciassero andare a salutare l’ultima volta i loro mariti prima di morire, e altre di poter salire un momento in coperta, un momento solo, per gettare in mare un’immagine di santo o una crocetta che avrebbero calmate le onde. Ce n’era pure che lo scongiuravano in nome del cielo che facesse voltare il bastimento, per tornare indietro. Una delle più atterrite era stata quella falsa leonessa della bolognese, che singhiozzava e s’arruffava i capelli apostrofando il destino, come un’attrice di circo. E raccontava anche degli esempi di paura ingenua. Una povera vecchia l’aveva chiamato dalla sua cuccetta, e, con la voce strozzata dal pianto, mettendogli in mano settanta lire in argento, l’aveva pregato, già che era destino che s’andasse a fondo, che gli facesse la carità di far pervenire quella somma a suo fratello, a Parana; come se, qualunque disastro avvenisse, fosse legge di natura che gli ufficiali di un piroscafo dovessero giungere salvi a destinazione. Una povera contadina, cadendo da una cuccetta del secondo piano, aveva abortito. Altre dallo spavento avevan perso la parola, e non facevano più che voci inarticolate e gesti di deliranti. In quel momento ancora ce n’erano molte che non volevano credere che fosse cessato il pericolo, e stavano sempre afferrate convulsamente alla loro cuccetta, respingendo ogni parola di consolazione. Povere donne! Esse mettevano anche più compassione perchè non nascondevano per orgoglio l’animo loro. Quelle già risalite sopra coperta, alcune con la testa fasciata, molte con dei gonfi sul viso, tutte spossate e come inebetite, che guardavano il mare con quell’occhio che si dice proprio dei groenlandesi, quasi pietrificato dalla visione abituale d’un influito lugubre, davano una dolorosa immagine dello stato in cui dovevan essere ridotte quelle di sotto. La vivacità loquace che suol succedere ai pericoli scampati non era nata ancora. Tutti erano ancora agitati per modo che ad ogni ondata più grossa, ad ogni sbalzo forte del piroscafo, davano indietro dai parapetti, rimescolandosi, pronti a ricadere nel terrore di prima, e volgevan gli occhi dilatati verso il palco di comando, per consultare il viso degli ufficiali. Non cominciarono a rasserenarsi che quando videro uscire dalla macchina, coi torsi nudi e coi visi infiammati e sudanti, superbi della loro vittoria, i fuochisti di ricambio, che andavano a riposare delle loro fatiche straordinarie: perché, durante la tempesta, tutti erano stati chiamati, dovendo quelli che lavoravano ai fuochi esser tenuti ritti a braccia dai loro compagni, per non rompersi la nuca contro le caldaie o bruciarsi la faccia nelle fornaci.
Ma allo spuntare delle prime stelle rinacquero la spensieratezza e l’allegria, e sorse un tale cicaleccio da ogni parte che pareva che tutti i mille e settecento passeggieri parlassero insieme. Tutti descrivevano, tutti raccontavano, ed eran racconti concitati, interminabili e dieci volte ripetuti di mille piccoli incidenti di nulla, che la paura aveva ingigantiti nella immaginazione di ognuno, e che assumevano nell’esagerazione del discorso l’importanza di fatti degni di poema e di storia. Metà dei passeggieri dimenticando o negando la paura propria, dipingeva a colori comici, e fingeva di sprezzare, e forse disprezzava realmente la paura dell’altra metà. Dopo la cena, s’intese a prua un chiasso straordinario di canti e di grida di briachi. E anche alla nostra mensa ci fu festa. Tutti sgranocchiarono come lupi, contenti della vita, beffandosi dell’oceano. E il pranzo fini comicamente con un brindisi che fece il marsigliese all’ intrepidité froide del comandante, con l’accento e il sorriso consapevole di uno che se ne intende. Ma l’avvocato non c’era. E, con rammarico di tutti, mancava anche la signorina di Mestre, che da quelle otto ore di strapazzo era stata scossa profondamente, e aveva avuto un trabocco di sangue.