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In extremis 333

A un dato momento salì sul cassero il genovese, fregandosi le mani, e mi disse passando: — Il barometro s’abbassa. Pur di scuotere la noia mortale che gli tarlava l’anima, egli desiderava perfin la tempesta. Ma non doveva avere il fatto suo l’uccellaccio del cattivo augurio. Altre volte aveva dato giù a un tratto il barometro, ma il mare non s’era rabbuffato. È del mare quello che si dice del popolo: che quando si vede in calma, non si capisce in che modo ne possa uscire, come non par possibile che s’abbia mai a racquetare, quando si vede in furia. Il velo dell’orizzonte, peraltro, s’andava facendo più alto e più fitto: era ora una grande fascia di vapori grigiastri, che stava per coprire il sole; e il mare, di color plumbeo, s’increspava. Ero però tanto lontano, io, dal prevedere il cattivo tempo, che mi divertivo a osservare l’avvocato, il quale, rizzatosi sul busto, girava sul grande nemico uno sguardo lento, in cui si vedeva crescere l’inquietudine, poi guardava verso il camerino del comandante, e più lontano, verso il palco di comando. Un gridio stridulo d’uccelli mi fece levar gli occhi in su: erano gabbiani che roteavano intorno agli alberi. Quello veramente era un cattivo segno. Ma ciò che fece senso più che altro fu