tini. Di faccia, sentii la voce del tenore, un tentativo di gorgheggio, interrotto bruscamente da un colpo sordo, che mi parve d’una capata. Poi per un pezzo non sentii più voci umane. Lo strepito del bastimento e del mare era ancora assordante, e il rullìo tale da stramazzare un quadrupede. Ma si poteva tentare una sortita. Aggrappandomi qua e là, e premeditando bene ogni passo, riuscii a trascinarmi tino al crocicchio dei corridoi. Che spettacolo! Per le porte delle cabine che s’aprivano e si chiudevano di continuo, si vedeva dentro un indescrivibile arruffio di valigie, di cuscini, di panni, teste ciondolanti sulle catinelle, corpi allungati come cadaveri, gambe di signore scoperte fino al ginocchio, vesti spettorate, visi bianchi, fazzoletti e boccette sparse sul tavolato. Incoraggito dallo scemare del movimento, svoltai nel corridoio principale, e mi trovai faccia a faccia col genovese, che veniva avanti a sbalzi lungo la parete, con la testa fasciata, bestemmiando. — Cos’è stato? — domandai. Rispose attaccando un moccolo. Poi spiegò: morto di fame, s’era arrampicato fin su alla dispensa, per pigliar due fette di prosciutto, un rostin, una cosa da nulla, insomma, e nel meglio un salto del piroscafo l’aveva gettato con la fronte contro uno