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CAPO XX.

Altre iniquità di Giustiniano. Computo di vent’un milioni d’uomini per lui periti. Desolazione dell’Africa, e perchè richiamatone Belisario. Maggiori ruine in Italia. Spopolazione di tutti gli altri paesi dell’Imperio sì in Europa, che in Asia. Giustiniano vero e solo autore delle guerre insorte. A lui pure si debbono le stragi seguite nella capitale, e nelle altre città dell’interno. Aggiungansi gli ammazzamenti di Samaritani, di Eretici, di Veneti e di Prasini. La natura stessa, alterando in varie parti dell’Imperio il suo corso, contribuisce sotto il regno di Giustiniano alla distruzione degli uomini.

Del rimanente ritornando a Giustiniano, che non un uomo, ma una furia sotto sembianza d’uomo egli fosse, possono esserne prova i grandi mali ch’egli fece agli [p. 137 modifica]uomini, perciocchè dall’atrocità de’ fatti si rende palese la natura immane di colui che li opera. E certamente il vero numero delle genti ruinate da Giustiniano, niuno, fuor di Dio, può saperlo; chè più facil cosa sarebbe il contare i grani della sabbia. Io per me, riguardando col pensiero tutte le contrade ch’egli di abitatori desolò, dico che fece perire ventun milione d’uomini. E in ciò dire mi fondo su questo, ch’egli devastò quanto è lunga e larga l’Africa, a segno che è difficile, anzi è miracolo dire come ivi camminato che s’abbia molti giorni non s’incontra più anima vivente. Ivi di Vandali, atti alle armi, dianzi erano cento sessanta mila; e chi direbbe poi quanti fossero le donne, i ragazzi, e i servi? Chi direbbe il numero degli antichi Africani indigeni, i quali abitavano nelle città, coltivavano le campagne, od esercitavano navigando la mercatura? Di tutti questi stato io colà lungo tempo avea veduta moltitudine infinita. E di questi più numerosi di gran lunga erano i Mauritani, i quali tutti colle mogli e co’ figli a masse a masse perirono. Ivi pure perì una gran parte dell’esercito romano, e degli stranieri che ne seguivano le bandiere. Laonde io non so, se conti giusto chi dica in Africa essere periti cinque milioni di persone. E ciò poi, che debellati i Vandali Giustiniano meno curò, fu di stabilire, come pur dovea, in quelle contrade il governo, e raffermarlo procacciandosi la benevolenza de’ sudditi. Ma invece egli immantinenti ne richiamò Belisario, accusato di volersi colà fare usurpatore: cosa che rispetto a quell’uomo era fuori d’ogni proposito. Ma il vero motivo, che n’ebbe, fu di potere da que’ [p. 138 modifica]paesi trarre a sè più liberamente ogni cosa, e tutta l’Africa colle spoglie condottene via ingoiare. La sua cura fu mandare nelle provincie estimatori, ordinare nuovi e gravissimi titoli d’imposte, occupare le campagne migliori, vietare l’esercizio del culto agli Ariani, prolungare la spedizione de’ militari aiuti, vessare i soldati, onde poi per ultimo flagello si suscitassero sedizioni. Così a turbare e a minar tutto era nato costui, incapace di ogni fermo disegno.

L’Italia, quantunque l’Africa d’essa sia tre volte maggiore, di una assai più grande quantità d’uomini fu spogliata: onde può argomentarsi il numero, che per le stragi ivi seguite ne perì. Della origine della guerra italica parlai già. E le inique misure usate nell’Africa Giustiniano usò in Italia. Colà eziandio mandò gli estimatori, chiamati logoteti; e ad un tratto scosse e corruppe tutto. Prima della guerra italica il regno de’ Goti dalle contrade de’ Galli protraevasi sino ai confini della Dacia, ove è la città di Sirmio. Quando l’esercito de’ Romani era in Italia, i Germani occupavano una gran parte de’ paesi de’ Galli e de’ Venetici. Il Sirmio, e la contrada vicina eran tenuti dai Gepidi. Tutto questo tratto di terre fu nudo affatto di abitatori, estinti parte per la guerra, parte per le malattie e pestilenze che alla guerra sogliono succedere. L’Illirio, la Tracia intera, la Grecia, il Chersoneso, e tutte le regioni che dalle fauci del Mar Ionio stendonsi sino ai luoghi suburbani di Costantinopoli, e quanti popoli ivi sono, dopo che Giustiniano incominciò a regnare, dalle incursioni degli Unni, degli Schiavoni, degli Anti, quasi ogni anno furono devastati, [p. 139 modifica]e manomessi. Io crederei, che in ognuna di tali irruzioni dugento mila Romani rimanessero, quali sconfitti, quali condotti schiavi; e chiunque può vedere quelle provincie fatte scitiche solitudini. Così fu dell’Africa, e della Europa in quelle guerre.

Ma in tutto questo tempo nell’Oriente i Saraceni per quanta v’ha terra dall’Egitto sino ai confini persiani, inondando le città de’ Romani, sì costantemente travagliarono i popoli, che ivi scarsissimi sono rimasti gli uomini, e de’ morti come numerare la moltitudine?

Vennero poi per la terza volta i Persiani e Cosroe a spingersi sul rimanente territorio romano; e dovunque penetrarono, rovesciate le città, in ogni luogo uccisi o condotti in ischiavitù i popoli, i paesi di abitatori desolarono. E dacchè essi Persiani, e i Romani, e i Lazii, a vicenda entrarono nella Colchide, tutti gli uni dietro gli altri soffrirono altre stragi. Nè abbiamo a dire che i Persiani, o i Saraceni, o gli Unni, o gli Schiavoni, e gli altri Barbari dal territorio del romano Imperio riconducessero interi ne’ loro paesi gli eserciti coi quali v’eran venuti. Nelle irruzioni fatte, e molto più negli assedii e nelle battaglie, assai gente perdettero anch’essi, così che non i soli Romani, ma i Barbari ancora furono vittime del furor sanguinario di Giustiniano. Vero è, come a suo luogo dissi, che Cosroe era uomo di mala indole e perversa; ma Giustiniano fu quegli che di continuo eccitò l’incendio della guerra, non avendo mai voluto nelle cose consultare l’opportunità del tempo, e tutto anzi intraprendendo fuor di proposito. In seno della pace, e in mezzo alle tregue, [p. 140 modifica]con mala arte cercar sempre contro i confinanti pretesti di guerra; a guerra dichiarata imprudentemente arrestarsi e per avarizia non provvedere l’occorrente che tardi; in vece perdersi dietro a vani studii, e scrutare con dannata curiosità la natura di Dio: intanto per crudeltà e tirannide non volere abbandonare le armi, nè debellare il nemico, sordidamente risparmiando quanto a tal’uopo dovea aver pronto: ecco la sua condotta. Perciò regnante lui per l’universo mondo scorse a fiumi, e a laghi il sangue de’ Romani, e di tutti i Barbari.

Questo è ciò, che per tutto l’Imperio in quel tempo recò la guerra. Ma nei lari domestici, non minori di quelle della guerra, furono le stragi, se vogliamo annoverare i disordini dei partiti eccitati e in Costantinopoli, e nelle altre città. E nascevano i disordini da questo, che non egualmente punendosi i colpevoli, perchè quelli di un partito godevano il favore imperiale, nè l’uno, nè l’altro stavansi quieti. Gli uni adunque privi di quello, gli altri fidati essendo in esso, tutti insieme agitavansi e ruinavansi, chi spinti da somma disperazione, chi da pazza tracotanza. Per la qual cosa vedeansi, o in grossi corpi venire tra loro come a battaglia, o a drappelli azzuffarsi, od attaccarsi a due a due, ovvero, presentandosene l’occasione, proditoriamente assalirsi ed assassinarsi. Per trentadue interi anni senza intermissione così gli uni e gli altri a vicenda incrudelirono. Il prefetto della città spessissimo ne mandava molti alla morte; ma per lo più non si punivano che i Prasini.

Ma non fu meno il romano Imperio inondato del sangue de’ Samaritani e degli Eretici, a pena capitale [p. 141 modifica]dannati. Tutte queste cose or compendiosamente, e poco prima diffusamente narrate, avvennero regnante costui, uomo, o demonio che fosse, e di tanta calamità degli uomini verissimo autore. Quelle però che sono per aggiungere, avvennero per opera di non so quale forza di furia a noi ignota. E alcuni le attribuirono ad un genio a lui compagno, e alla violenza di quello; altri dissero essere Iddio adirato cogli uomini, odiare l’Imperio romano, ed avere data a perniciose furie la podestà di fare tutti que’ grandi e diversi mali, onde regnante Giustiniano le generazioni a lui soggette furono sì ampiamente percosse. Presso la città di Edessa lo Scirto con gravissimo danno degli abitanti tutto allagò il paese all’intorno. In Egitto il Nilo, solito ad inaffiar quelle terre, al tempo debito si ristette, e fu cagione ai coloni dei disastri che già narrai. Il Cidno ingrossatosi oltre misura per molti giorni fece uno stagno di quasi tutta la città di Tarso, nè quel fiume calò se non dopo averla ruinata orribilmente. Antiochia, principale in Oriente, e la vicina Seleucia, e l’inclita Anazarbo in Cilicia, furono da tremuoti rovesciate. E chi sa dire le ruine in esse fatte, e le miserie de’ loro abitanti? Nè furono queste le sole: chè oltre esse Ibera, Amasia, città nobilissime del Ponto, e Poliboto di Frigia, e quella che dai popoli di Pisidia è chiamata Filomida, e Licnido in Epiro, e Corinto, tutte sino da antichissimi tempi piene di popolo, in questo tempo quasi interamente insieme co’ loro cittadini rimasero distrutte. A questi disastri succedette la peste, di cui ho fatta già parola, per la quale quasi la metà di quelli ch’erano rimasti, si vide perire. [p. 142 modifica]questa tanta strage della umana generazione seguì e mentre Giustiniano preso avea da prima il governo della repubblica romana, e mentre era dipoi Imperadore.