Storia di Torino (vol 1)/Libro VI/Capo II
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Capo Secondo
Ne’ cinquant’anni del suo regno continuò la sapiente opera del padre, riformando e ordinando lo Stato; spartì il paese di qua dai monti in dodici province, e in ciascuna stabilì uno special reggimento economico e giudiziale. Chiamavansi prefetti questi giudici provinciali, ad aveano la prima cognizione nelle cause tra i vassalli) e la prima appellazione nelle altre cause.1
Deputavansi nel capoluogo di ciascuna provincia altri giudici, per le cause demaniali, col titolo di referendarii. Statuivasi che i conti dei carichi, sì ordinarii, che straordinarii, si rendessero di sei in sei mesi nei capiluoghi d’esse province.
A questi uffici e tribunali andavano a riuscire nell’economico e nel giudiziario i principali affari de’ comuni. E così venivano a smarrirsi in quell’utile generale ordinamento quelle prerogative che individualizzavano i comuni, e di cui eransi in altri tempi mostrati tanto gelosi; prerogative che, facendo contrasto al bene universale, non poteano più venir conservate. Sempre più poi s’andarono dileguando quei privilegi, quando Vittorio Amedeo i ed i suoi successori poser la mano a riformare l’amministrazione degli stessi comuni, assoggettandoli a regole uniformi, ed alla sorveglianza de’ Magistrati economici.
Fu questo pertanto un merito grande di Carlo Emmanuele i, d’aver compiuta l’opera del padre, riunendo in una sola nazione i varii popoli situati al di qua dall’Alpi, creando interessi generali, in luogo d’interessi municipali. Ma fu un altro suo gran merito quello d’aver ridestato ne’ popoli quegli spiriti guerrieri che rendono questa nazione eminentemente militare.
Emmanuele Filiberto aveva instituita e organizzata con gran sapienza una forza annata permanente; ma, schivando la guerra, di cui vedeva ancora le vestigio fumanti, poche occasioni avea trovate d’assaggiarne il valore. Carlo Emmanuele cominciò dal conquistare il marchesato-di Saluzzo, ricacciando i Francesi di là dall’Alpi; e, piuttostochè renderlo ad Arrigo iv, si contentò di ceder la Bressa e il Bugey.
Poi trafitto dal superbo predominio, che esercitavano gli Spagnuoli in Italia, cercò riscuoterla da quel giogo; e forse avrebbe ottenuto effetti conformi al generoso intento, se non gli falliva a tempo debito il convenuto soccorso dei Veneziani. Ma l’Italia gli fu grata dell’alto concetto, e de’ nobili suoi tentativi, e le imagini di Carlo Emmanuele, considerato quale liberatore della gloriosa penisola, corsero dall’Alpi al mar di Sicilia.
Negli ultimi anni di sua vita ei s’impacciò in una guerra più grave. Estinta la linea primogenita dei Gonzaga, egli volea succederle nel dominio del Monferrato, su cui avea la Casa di Savoia fondate ragioni, non curate da chi avea maggior forza, ma non mai dismesse.
Sebbene ei si fosse riavvicinato alla Francia, dando in isposa al principe di Piemonte Cristiana, o Cristina, sorella del re, il cardinale di Richelieu, che governava quella monarchia, si risolveva di mantener i diritti di Carlo Gonzaga, duca di Nevers. Si ruppe la guerra, e il Piemonte era invaso da un esercito francese, a cui mal potean resistere le armi del duca, quando gli venne meno la vita in Savigliano addì 24 di luglio del 1630. E però Vittorio Amedeo i, suo figliuolo e successore, fu, per salvar lo Stato, costretto a segnare, nella pace di Cherasco del 1631, un articolo segreto per cui, acquistando Alba, e molte altre terre del Monferrato, dismetteva alla Francia Pinerolo e le sue valli; dimodoché non solo dava a quella minacciosa potenza novella sede in Italia, ma riduceva il suo Stato alla condizione di dover necessariamente servire di scorciatolo alla Francia, sia per mantenersi in comunicazione col Monferrato, sia per andar addosso agli Spagnuoli.
Intanto un flagello più grave (se pur ve n’ ha peggiore di quello, di veder alterata la propria indipendenza), un grave flagello, in quell’anno medesimo 1630, disertava il Piemonte, la pestilenza. Già nel 1599 n’era stato corrotto il paese, e Torino ancor piangeva le perdite allora fatte.2 Nel 1630 con maggior ferocia imperversò. Uscita la corte, qua e colà sparsi gli uffici e i magistrati, contaronsi in città undicimila persone. In capo a pochi mesi, ottomila eran morte. Mancati di vita, o fuggiti i soprastanti della sanità, tutte le cure del governo, del l’annona, della salute pubblica si ridussero nel sindaco della città Gian-Francesco Bellezia, nell’auditore di camera Gian-Antonio Beccaria, e nel protomedico Fiocchetto che narrò ai posteri la dolorosa storia di questo contagio.
E infermato una volta il Bellezia, e giacendo in una camera a pian terreno della sua casa, posta dietro il palazzo di città, convenivano nell’attiguo giardino Fiocchetto e Beccaria, e, dalla finestra divisando coll’infermo, convenivano sui provvedimenti da farsi per la pubblica salvezza. Quest’eroe di prudenza civile e di carità cristiana, ebbe poi dal suo principe degna rimunerazione, essendo stato creato senatore, e patrimoniale generale (procuratore generale del regio patrimonio): fu quindi ministro plenipotenziario a Munster; ed in ultimo primo presidente del senato, nella qual carica morì nel 1672.3
Tornando alla peste del 1630, era la medesima cotanto crudele, che molte persone, camminando e discorrendo, cadean morte come percosse dal fulmine. Altre avean tempo di domandare una sedia; sedevano e incontanente morivano. Altre sentivano uno stimolo di sete, e, accostato il vaso alle labbra, in quella positura morivano, e si manteneano dopo morte. Alcuni morivano senza niun segno esteriore del morbo. Altri gravati di carboni, di bubboni, di codiselle; o segnati di tacchi, petecchie, o verghe nere; o seminati di migliaia di pustole. Chi passava fra atroci tormenti, mandando continue grida e pie tosi lamenti; chi tra i deliramenti e le visioni spaventose: chi oppresso da stupore o da letargo. Ne furono veduti molli che, appoggiati alle mura, stavano come trasognati, senza parlare, nè mangiar, nè bere, due, tre e quattro giorni e notti in piedi, e poi, vinti dal male e dalla spossatezza, cadeano morti senza soccorso nè spirituale, nè temporale.
Moltissimi religiosi, che recavano i sagramenti agli appestati, furon presi dal male, e la massima parte morì. I curati di Torino, da due in fuori, morirono tutti, e i loro successori ebbero la medesima sorte, e fino in molte parrocchie i successori de’ successori.
Molti casi orrendi ed abbominevoli, molti pietosissimi narra il medico Fiocchetto; uno solo ne rammenterò, ed è di due fanciullini, uno di ire, l’altro di quattro anni, che, mancati i genitori, trovandosi soli soli, tocchi dal male, s’abbracciarono con fraterno affetto, e così morirono; ed abbracciatili trovarono i monatti alla porta della casa che sorge avanti alla chiesa della Trinità, e così avvinti li gittarono tra gli altri cadaveri, sotto al peso de’ quali scricchiolava il carro che conducevano.
E siccome la moltitudine e la prontezza di tali morti ha per effetto ordinario prima di spaventare, poi d’instupidire, e di indurar il cuore, massime alle persone volgari, così faceansi nel più atroce imperversar del contagio tanti matrimonii in questa città, che a me era (udiamo il protomedico) di gran stupore, atteso che in molte case, appena in questa il cadavere del marito era in istrada, e nell’altra quello della moglie, che si trovavano pronti uomini e donne a riscaldar il letto del morto, non ancor ben raffreddato, con manifesto loro pericolo.4
Mentre Torino era piena di moribondi e di morti, al travaglio della peste s’aggiunse quel della fame; imperocché i nemici Francesi, e gli Spagnuoli, nostri alleati, saccheggiavano con bestiai furore le campagne, e agli stessi appestati, vicini a render l’anima, toglievano spieiatamente i materassi e le eoltri, che poi servivano di stromenti a spargere l’infezione.
Ma Vittorio Amedeo i, succeduto in que’ giorni al padre, soccorse la città di grani: e soprattutto si dimostrò, come dice il Fiocchetto, magnanima e magnifica la civica amministrazione di Torino, la quale assicurò tutte le provvisioni pei cittadini, e pe’ lazzaretti, attese a far nettar la città dai cadaveri e dalle immondezze che la contaminavano, e spese non meno di quattordicimila scudi il mese.
Addì 28 del mese di luglio 1650, nella maggior furia del male, la città si votò al glorioso S. Giuseppe. Il 19 di marzo susseguente, dedicato al nome del Santo, si pose in quarantena netta. A S. Giuseppe eresse poi la città nella chiesa del Corpus Domini una sontuosa cappella.
Nè meno micidiale, che in Torino, fu colai pestilenza nelle vicine contrade. In Alessandria in quattro mesi levò di vita quattordicimila persone; in Aosta rimasero sole dieci o dodici case non tocche dal morbo.
A Beinasco, che contava cento e più capi di casa, otto soli ne rimasero. A Busca, scrive un autor contemporaneo, forse con qualche esagerazione, che restarono soli quattro uomini vivi.
Carmagnola, che nella pestilenza del 1522 era stata sì disertata, che dodici soli padri di famiglia sopravvissero, patì similmente molto strazio nella peste del 1630; imperocché a’28 di luglio eran già morte più di 1200 persone, fra cui tutti i barbieri, ed otto monatti; sul finir d’ottobre la metà degli abitanti era spenta (4500). A Cuorgnè morirono da 600 persone, e non vi sono restate più di quattro case salve, e morirono, fra gli altri, il prevosto con tutti i canonici, il guardiano dei minori conventuali con tutti i suoi frati. A Moncalvo furono spenti i due terzi degli abitanti. Nizza di mare, non tocca dal morbo nel 1650, ne fu colpita nell’anno seguente, e sì crudelmente, che ne’ primi due mesi ne trapassarono cinquemila. A Pancalieri rimasero più di quattro mesi senza messe e senza confessioni. A Pinerolo morirono i due terzi degli abitanti, e tutti i frati cappuccini del convento di S. Maurizio. A Racconigi, dal maggio al settembre, moriron di peste 260 persone nella sola parrocchia di S. Giovanni Battista. A Saluzzo mancarono più di due terzi del popolo, insieme colla maggior parte de’ preti, e degli altri religiosi; dieci domenicani, tutti i minori conventuali. In più di 130 case non rimase per sona. Nelle Valli di Lucerna, i Valdesi morti di contagio sommarono a diecimila, che fu, come nota il Rorengo, più della metà del popolo. A Villafranca perirono i quattro quinti.5
Note
- ↑ [p. 459 modifica]Editti del 28 febbraio e 12 d’agosto 1622, e del 18 febbraio 1624.
- ↑ [p. 459 modifica]Mancò allora di vita fra gli altri Cristoforo Pellagnino, lettore di ragion civile nell’università, il quale, riparatosi ad una vigna sui colli torinesi, fu tocco il 2 di settembre dalla peste, e nella notte seguente trapassò, sicché la mattina venendo i monatti a cercarlo per portarlo al lazzaretto, lo trovarono morto. Morì anche un altro lettore dell’università, il Ceva. Al Pellagnino indirizzò alcuni capitoli Bartolomeo Cristino, il quale era lettore e astrologo d’Emmanuele Filiberto. In tanta miseria costui rimasto in Torino poetava, ed anche un po’ licenziosamente. Sappiamo da lui che un Cacherano soprastava ai monatti, che i canonici e i preti quasi tutti erano ó morti, o ammalati. Il capitolo indirizzato al Pellagnino avea questa epigrafe:
Al signor Pórtacristo Pellagnino,
Già dottore e lettor grave ed arguto,
Or vignarol fuggito da Torino
Per tema d’affrettar suo passo a Pluto.Ecco la ricetta che Cristino dava per cansar la peste:
Di piacevoli versi o pur di prose
Liete godersi e di cibi migliori
Cibarsi, ber buon vin, fiutar di rose,
O d’altri fiori, o d’aroma ti odori.- V. Miscellanea poetica, ms., nella biblioteca della R. Università.
- ↑ [p. 459 modifica]V. le dotte Memorie ragguardanti alla storia civile del Piemonte nel secolo xvii, del conte Alessandro Pinelli.
- ↑ [p. 459 modifica]Fiocchetto, Trattato della peste di Torino, 123.
- ↑ [p. 459 modifica]Montù, Memorie storiche del gran contagio in Piemonte negli anni 1630 e 31.