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448 | libro sesto |
quello della moglie, che si trovavano pronti uomini e donne a riscaldar il letto del morto, non ancor ben raffreddato, con manifesto loro pericolo.4
Mentre Torino era piena di moribondi e di morti, al travaglio della peste s’aggiunse quel della fame; imperocché i nemici Francesi, e gli Spagnuoli, nostri alleati, saccheggiavano con bestiai furore le campagne, e agli stessi appestati, vicini a render l’anima, toglievano spieiatamente i materassi e le eoltri, che poi servivano di stromenti a spargere l’infezione.
Ma Vittorio Amedeo i, succeduto in que’ giorni al padre, soccorse la città di grani: e soprattutto si dimostrò, come dice il Fiocchetto, magnanima e magnifica la civica amministrazione di Torino, la quale assicurò tutte le provvisioni pei cittadini, e pe’ lazzaretti, attese a far nettar la città dai cadaveri e dalle immondezze che la contaminavano, e spese non meno di quattordicimila scudi il mese.
Addì 28 del mese di luglio 1650, nella maggior furia del male, la città si votò al glorioso S. Giuseppe. Il 19 di marzo susseguente, dedicato al nome del Santo, si pose in quarantena netta. A S. Giuseppe eresse poi la città nella chiesa del Corpus Domini una sontuosa cappella.
Nè meno micidiale, che in Torino, fu colai pestilenza nelle vicine contrade. In Alessandria in quattro mesi levò di vita quattordicimila persone; in