Storia di Torino (vol 1)/Libro IV/Capo II
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Capo Secondo
Vaud. La sete di dominare tutti li stimolava egualmente. Nella lunga infermità che travagliò gli ultimi anni della vita del conte Filippo, i nipoti ne patteggiavano la successione. Morto Filippo, Amedeo, quinto di quel nome, e primogenito dei due fratelli, occupò il trono. Ludovico dovette contentarsi del paese di Vaud. De’ pupilli niuno per allora si diè pensiero. Anzi Guia di Borgogna diè per sue lettere commissione ad Amedeo v di governare quella parte del Piemonte, che ai medesimi apparteneva, e Ludovico rinunziò allo stesso principe ogni ragione che potesse avere al di qua delle Alpi. Le lettere di Guia e di Ludovico furono lette nel generailparlamento de’ nobili, de’ castellani e de’ comuni di tutta la terra di Piemonte, di vai di Susa, di Torino e di Moncalieri (così era scritto), congregato sulle rive del Sangone ne’ contini di Giaveno. In nomo della città di Torino intervennero Rodolfo Sariod, cavaliere, che ne era vicario, Ruffino Borgese e Pietro Baracco.
Dopo siffatta notificazione, dieci anni tenne Amedeo v il freno di queste contrade, non in nome dei minori, com’era dovere, ma in proprio nome; facendosi dal vicario di Torino giurar fedeltà non come ad amministratore, ma come a padrone, con promessa di non rendere il castello fuorché a lui, od a persona da lui discendente e sua erede:1 dalle quali espressioni già traluceva il pensiero, e d’usurpare ai nipoti anche lo Stato di Piemonte, e d’introdurre nella propria successione quell’ordine di rappresentazione all’infinito che non s’era osservato, nè quando Filippo succedette a Pietro, nè quando Amedeo v a Filippo.
Ma Tommaso iii avea lasciato dopo di sè amici potenti; e siccome non erano allora tra’ principi titoli politicamente vani i legami del sangue, mostravansi molto risoluti di voler sostenere le ragioni dei nipoti i conti di Borgogna.
Dalle loro rimostranze indotto, o dalla coscienza consigliato, Amedeo v, appena il primogenito di Tommaso fu fuor di tutela, rimise al giudizio d’arbitri la definizione di ogni quistione insorta o da insorgere con lui e co’ suoi fratelli. Arbitri furono Ludovico, di Savoia, sire di Vaud, Umberto di Luirieux e Pietro Simondi giurisperito. Sentenziarono essi il 10 dicembre 1294, nella chiesa di Sant’Antonio di Ciamberì: al principe Filippo appartenesse, in ragion di feudo movente dalla corona di Savoia, il paese al di qua dall’Alpi da Rivoli in giù, insieme con ogni ragione che potesse competere al conte di Savoia su Chieri e sul Canavese, sul castello di Montosolo occupato dai Cheriesi, e sulla terra di Sommariva del Bosco, tenuta dal marchese di Monferrato; eccettuati gli omaggi de’ marchesi di Saluzzo e di Monferrato. Accettato dalle parti tale arbitramento, approvato dai prelati e dai baroni, rinunziò Filippo in nome proprio e de’ fratelli ad ogni ragione che potesse avere sulla corona di Savoia; egli poi s’acconciò coi fratelli a termini del testamento paterno, ed assegnò ai medesimi rendite in danaro, sufficienti a mante nere lo splendore del loro stato.
Amedeo v notificò, per sue lettere scritte nel gennaio seguente, il seguito accordo alla città di Torino, affinchè riconoscesse il principe Filippo per suo signore. Venne Filippo ai primi di febbraio; Ugo de la Rochette ed il vicario di Piemonte glie ne diedero il possesso. Vi dimorò qualche giorno con allegrezza del popolo, a cui sempre torna grato un giovane principe, cui fu maestra la sventura; se non che questa maestra nel render cauto il suo alunno, lo fa talvolta dissimulato e di sottil fede. Andò a Pinerolo, dove intendeva di fissare, come in luogo più centrale, la propria residenza, e quindi, seguitando il giro per tutto il suo dominio, raccolse quetamente gli omaggi de’ vassalli e de’ comuni. Erano intorno a diciotto le grosse terre che a lui obbedivano, e sedici all’incirca le casate d’illustri vassalli che gli doveano fedeltà ed omaggio; fra i quali i Romagnano, i Piossaschi, i Lucerna. Nell’anno 1200, famoso pel giubileo che aprì papa Bonifacio viii, ed a cui concorse mezza la cristianità, si recò pure a Roma Filippo, e vi sposò Isabella di Villehardouin, che gli portò in dote il principato d’Acaia. Ma di quel principato ebbe poco più che il titolo. Vi navigò egli invero di quell’anno medesimo ed ottenne il possesso di qualche terra. Ma in quell’impero, di cui due pretendenti, un greco ed un latino, si contrastavano la signoria, tutto era sossopra. La fede de’ popoli, incerta. I baroni s’accostavano a chi proferiva maggiori vantaggi. Onde dopo inutili tentativi, il principe di Acaia tornò nel 1302 in Piemonte, dove avean tenuto il governo, durante la sua assenza, con titoli di vicarii generali e gerenti cinque savi, parte giurisconsulti, parte gentiluomini.2
Tornò a tempo opportuno; i Guelfi d’Asti, che cacciati nel 1303 dai Ghibellini, erano rientrati in patria coll’aiuto de’ Cheriesi, e ne aveano alla lor volta cacciata la parte contraria, molto onorarono il principe d’Acaia, e lo chiamarono capitano del popolo per tre anni. Poco dopo, cioè nel 1305, mancò in Giovanni, marchese di Monferrato, l’ultimo maschio di quella stirpe, designando a succedergli la propria sorella Violante, moglie d’Andronico il Vecchio, imperador de’ Greci. Già da molti anni era scaduta la gloria e la fortuna di quella casa, poiché Guglielmo vii nella guerra che gli mossero varie città lombarde, fra cui Milano, Brescia ed Asti, ed alla quale s’accostò Amedeo v, conte di Savoia, fu per improvviso tradimento degli Alessandrini, comprati coll’oro degli Astigiani, preso e messo in gabbia nelle carceri del comune, dove, dopo un lungo patire, morì nel 1291. Giovanni, suo figliuolo, non avea operato cosa di riguardo, e morendo senza prole, apriva l’adito alla ambizione ed alla cupidità. Diffatto l’ambizion di Filippo si sollevò all’ardita speranza di farsi signore d’Asti e di Chieri, e d’occupar per lo meno la metà del Monferrato, ed a questo fine fe’ lega prima con Carlo ii, re di Sicilia, che possedeva oltre al contado di Provenza, molte città del Piemonte meridionale; poi con Amedeo v; poi di nuovo con Carlo. Ma tutti gli sforzi dell’astuta sua politica non gli giovarono. Asti noi volle per signore, e dopo molto ondeggiare si diede nel 1314 al re Roberto, figliuolo di Carlo ii. A Monferrato occupò bensì lutto il paese che possedeva appiè del Mombasso, ed inoltre Balangero, Barbania, Ciriè (1305) e Gassino (1306); ma non potè spinger piò innanzi le sue conquiste, perchè il re noi soccorse, e giunto era frattanto il novello marchese Teodoro Paleologo, figliuolo secondogenito dell’imperatrice Violante, il quale avveduto, e provato in arme, sapeva anch’egli negoziare e combattere.
Qualche anno dopo, nuova esca alla sua ambizione somministrò la venuta d’Arrigo vii imperatore, cognato d’Amedeo v, conte di Savoia, il quale, benché fosse il capo naturale de’ Ghibellini, pure venne col santo pensiero di metter pace fra quelle arrabbiate fazioni, governandosi come giusto giudice e padre comune. Il principe d’Acaia fu da lui deputato vicario di Vercelli, Novara e Pavia. Ma Vercelli e Pavia si ribellarono non molto dopo all’imperatore, rimanendo in mano de’ Guelfi, e siccome il principe era in voce di Guelfo, così s’oscurò sempre più nella pubblica opinione la giù dubbia sua fede; sia ch’egli véramente fosse consenziente ai ribelli, sia che noi fosse.
Amedeo v, cognato e fido consigliere d’Arrigo vii, fu rimuneralo con molte prove della imperiale liberalità. N’ebbe cioè dono della contea d’Asti, d’Ivrea e del Canavese. Vano riusciva il dono d’Asti, che si diè, come abbiam detto, al re Roberto. Non così quello d’Ivrea e del Canavese, del quale il conte di Savoia entrò in possesso, associandovi in ottobre del 1313, per amor di pace, il principe d’Acaia, con dichiarazione che Caselle, Ciriè e Lanzo apparterrebbero per intiero al conte: Balangero, Fiano, Rocca, Baratonia, Viù, Rivarossa, Settimo, Borgaro e Barbania per intiero al principe. Il resto fosse comune.
Cresceva in tal modo la potenza del principe di Acaia, le cui armi aveano dall’opposta parte occupalo Sommariva del Bosco, Riva, Cavallermaggiore, Sommariva di Perno con altre terre, e qualche anno dopo occuparono ancor Savigliano, Bra, Villanova, Castelnovo con altri luoghi.
Durante il periodo che abbiam brevemente accennato, poco si sa di Torino, se non che nel 1285 contendevano Torino e Moncalieri per la distinzion dei confini, là dove il Sangone mette nel Po: pe’ beni che i Torinesi possedeano nel territorio di Moncalieri e viceversa; per le mercanzie che andando in Francia, si facean passare nel territorio di Torino e di Moncalieri, fuór del luogo murato. Furon arbitri a terminar le quistioni Iblone di Challant, vicario del Piemonte, due Torinesi e due Moncalieresi. Definirono costoro, che l’alveo del Sangone separasse i due territorii. I Torinesi, de’ beni posseduti in territorio di Moncalieri, rispondessero taglia e fodero a Torino, e non a Moncalieri. E così facessero quei di Moncalieri pe’ beni posseduti sul territorio Torinese. Infine le mercanzie potesser passare liberamente fuor del luogo murato, pagando i soliti pedaggi.3
Nel 1287, Torino avea discordia co’ signori di Beinasco, sia rispetto ai confini, ed alla giurisdizione di Drosio, sia rispetto al debito di vassallaggio che negavano alla città non più libera. Qualche provvisione fe’ in proposito Guglielmo di S. Germano, giudice generale del Piemonte. L’anno seguente, essendo nella stessa carica Marenco di Neive, le parti contendenti fecero compromesso nel vescovo Gaufredo di Montanaro, e in quattro notabil i cittadini, un Pelizzono, un Borgese, un Silo ed un Baracco. Questi nel loro lodo giudicarono la giurisdizione di Drosio, e delle sue appartenenze al di qua e al di là del Sangone, e Stupinigi, Vinovo e Vicomanino appartenere alla giurisdizione di Torino, come poste nel territorio Torinese; circa a’suoi confini s’osservasse quanto avea stabilito il vescovo Uguccione nel 1236 (Ugo Gagnola). I signori di Beinasco riconoscessero quella terra dal comune, e gliene facessero omaggio, come di feudo gentile. Per virtù di questo giudicio d’arbitri, che violava l’accordo del 1285, pretesero poi nel 1340 i Torinesi che ingiustamente possedesse Moncalieri il territorio di Stupinigi, e n’ebbero gran quistione con quel comune, il quale dal suo lato volea occupare Borgoratto ed altre appartenenze di Drosio. Ma il voto dei giudici mantenne Moncalieri nel possesso di Stupinigi, e Torino nel possesso di Borgoratto e delle altre appartenenze di Drosio, anche al di là dei Sangone.4
Il 30 d’ottobre 1310, fu il giorno in cui fece la sua entrata in Torino Arrigo vii, con Margarita di Brabante sua moglie, Maria di Brabante, seconda moglie d’Amedeo v, sua cognata, con Amedeo v e col sire di Vaud. Copiosa squadra di genti germaniche e savoine l’accompagnavano. La regina e la contessa andavano in cocchio. Il re de’ Romani, il conte di Savoia, i baroni della corte a cavallo. Su sessanta pennoncelli di zendado, splendeva la croce bianca in campo vermiglio, arme novella de’ principi di Savoia. Ugo di Bressieu, Giovanni di Beauvoir, Giovanni Arthoud, cavalieri, erano i principali baroni che accompagnavano Amedeo v.5
Note
- ↑ [p. 281 modifica]Conto di Freilino Loyra Chiavario di Torino, 1291.
- ↑ [p. 281 modifica]Guglielmo Provana, giudice di Pinerolo; Facio Lardone, di Vigone; Ferrino, di Piossaseo; Zaberto, di Lucerna, e Jacopo di Scalenghe. Datta, Storia dei principi d’Acaia, ii, 30. Giacomo o Giacomino di Scalenghe, sopra memorato, ebbe in premio del suo buon servire da Filippo ed Isabella un assegnamento annuo di 300 imperiali sul comerchio, vale a dire sulla dogana di Chiarenza (Acaia) il 3 giugno del 1303.
- ↑ [p. 281 modifica]Chartar. tom. i et ii.
- ↑ [p. 281 modifica]Monum. hist. patriae, Chartar. i, 1586.
- ↑ [p. 281 modifica]Conto d’Andreveto di Monmeliano.