Storia di Torino (vol 1)/Libro II/Capo IV
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Capo Quarto
Il fatto si è che fino alla metà del secolo x vediamo signoreggiare ampiamente ne’ paesi situati a sinistra del Po, Anscario, marchese, fratello del re Guido, ed i suoi discendenti, ed alla metà appunto del secolo, Berengario ii, uno di loro, salire al trono d’Italia.
Anscario, fratello di Guido, fu conte d’Ivrea, e portando titolo di marchese, ed essendo principe di gran potenza, possedette sicuramente altri comitati, e probabilmente quello di Torino, del quale nel 906 era senza alcun dubbio conte il marchese Adalberto suo figliuolo, che signoreggiava altresì i comitati di Ivrea e di Lumello.
A quei tempi i Mori di Spagna, annidatisi poco prima in Frassineto, sulla riviera di Nizza, spingevansi nelle loro corse depredatrici e sanguinose lungo i due lati della giogaia alpina.
I monaci della Novalesa erano allora molto ricchi e di possessioni temporali, e di preziosi metalli, e di codici, che, secondo il laudato costume de’ Benedittini, attendevano probabilmente a copiare, e di chiese dipendenti, e di servi e censuali. Sentendo approssimarsi quella tempesta de’ Saracini, l’abate Donniverto s’impaurì, e lasciata quell’alpestre residenza, venne co’ suoi monaci, col tesoro e con tutta la suppellettile del monastero a Torino, dove pigliò stanza presso alla chiesa de’santi Andrea e Clemente, situata innanzi al castello della porta Segusina. Due soli monaci, già ben avanti negli anni, rimasero a custodire il monastero della Novalesa; giunse la cru delissima schiatta pagana; maltrattò così spietatamente que’ vecchi, che ne morirono; e dopo d’aver fatto bottino di tutto ciò che poteano portar via, misero fuoco alla chiesa ed a tutte le case.
Frattanto i monaci venuti in Torino difettando di ogni cosa, e non sapendo ove riporre i libri e le suppellettili preziose, parte ne impegnarono per aver di che sostentarsi, parte ne deposero in casa di Ricolfo, preposto della cattedrale torinese, e loro amico. Se non che essendosi poscia i Mori spinti verso Torino, ed essendo perciò tutta la città in gran turba mento, molti monaci e molti cittadini fuggiti, Ricolfo ed altri che aveano i pegni de’ monaci, morti, la maggior parte del tesoro della Novalesa andò perduta. 2
A questa prima disgrazia altre se ne aggiunsero. La valle di Susa essendo rimasta quasi vuota d’abitatori, vi fu un Arduino che se ne impadronì, come vedremo a suo luogo. E quest’Arduino medesimo, divenuto poi conte di Torino, avendo combattuto felicemente coi Saracini verso la metà del secolo stesso, e tenendone presi due nel castello di porta Segusina, questi macchinando tra loro una via di potersi salvare, niun altra ne trovarono, fuor quella d’appiccar fuoco alla chiesa attigua de’ santi Andrea e Clemente, pensando che levatosi romore per quel l’incendio, al quale trarrebber tutti, essi avrebbero modo di scampare. Così fecero, e di fatto in sulle prime poteron fuggire; ma raggiunti, perirono sulle forche. Intanto la chiesa e il monastero furono consumati dalle fiamme, e a fatica poterono salvarsi alcuni codici mezzo arsi. Se non che molto prima di quest’ultima epoca, anzi prima del 929, Adalberto, marchese, illustre per lignaggio, genero e cognato di due re d’Italia, ma più illustre per fede, compassionando all’infelice stato de’ monaci della Novalesa, ricoverati a Torino, facea loro sentir gli effetti della sua pia liberalità.
Avea cominciato per assegnar ai medesimi la chiesa di Sant’Andrea, posta lungo il muro della porta comitale, a settentrione della città (ora la Consolata), con una torre, che forse è quella medesima che ancora serve di campanile; edificò poscia ai medesimi un magnifico monastero in Breme, luogo del comitato di Lomello, dotandolo colle corti di Breme 3 e di Policino; e nel 929 al piccolo monastero di Sant’Andrea di Torino (cella monacorum) pel sostentamento de’ monaci assegnò il castello e la villa di Gonzole, e la corte di S. Dalmazzo sul fiume Sangone. Il dono è fatto addì 28 di febbraio, ed abbraccia il dominio, il contile (cioè l’autorità comitale sui luoghi donati), la giurisdizione, il toloneo (ossia la ragion del pedaggio) con tutti i casolari e le appartenenze, colle terre, vigne, campi, prati, pascoli, selve, stallaggi, rive, rocce e paludi, coi beni colti ed incolti, divisi ed indivisi, confini e termini, strade d’accesso, usi d’acqua e acquedotti, cose mobili ed immobili, cogli aldionarizii (cioè poderi degli aldioni, vale a dire censuali) e massarizii (cioè poderi tenuti a massarizio), e colle famiglie dei due sessi. I quali vocaboli ho voluto riferire, perchè si veda esempio di cessione assoluta in allodio, senza niuna riserva di dominio; i quali esempi, fuor delle liberalità che si faceano alle chiese, erano assai rari, e lo divennero in seguito anche più, non usando allora il signore d’abdicare tutta la proprietà, ma sì di scomporla con varie modificazioni e condizioni in modo da cedere tutto, o parte dell’utile dominio, ritenendo sempre il dominio diretto. L’ ho anche recato quest’esempio, perchè si veda come nei due villaggi donati, tutti fossero servi della gleba, o censuali, poiché colla gleba stessa venner donate le famiglie d’ambedue i sessi come stromenti di coltivazione, senza niuna eccezione in favore di liberi uomini, ma solo con memoria d’aldioni.
La simbolica tradizione di tali beni, Adalberto di stirpe salica, benché per lungo incoiato italiana, la fece secondo le forme saliche, consegnando una festuca nodosa, una zolla, un ramoscello d’albero; e corroborò la donazione alzando la pergamena su cui era scritta ed il calamaio, e ponendo pena a sè ed a’ suoi se vi contraffacessero.
La carta fu scritta nel palazzo di Torino, in pre senza del re Ugo, di varii vassalli d’Adalberto, tutti di stirpe Franca, e di giudici del re. Adalberto s’intitola umile marchese qui in Italia; perchè il titolo di marchese era titolo di dignità personale, e non titolo territoriale; e risultava, come abbiam detto, dal possesso di più comitati, o dal possesso di un insigne comitato, con superiorità su varii altri.4
In luglio dell’anno medesimo il re Ugo, richiesto dalla somma contessa Ermengarda, sua sorella, confermò al monastero della Novalesa, i cui monaci per la persecuzion de’ pagani erano rifuggiti a Torino, una torre nella stessa città, e le corti di Breme e di Policino, che Adalberto gloriosissimo marchese aveva loro donate.
Questi marchesi della stirpe di Guido erano mirabili volteggiatori, e sapeano vantaggiarsi con arte somma nelle mutabili fortune dell’italico regno. Adalberto, nipote di Guido, era divenuto genero dell’imperator Berengario, sposandone la figlia per nome Gisla. Perduta la medesima, e morto pure Berengario, era divenuto cognato del novello re Ugo, dando la mano ad Ermengarda, sorella di lui. Così manteneansi in potenza questi principi, i quali, accordandosi coll’arcivescovo di Milano, e co’ duchi di Toscana, si può dir che facessero e disfacessero a loro posta i re d’Italia. In maggio del 933 Adalberto era già trapassato. Lasciava due figli, Berengario ii, che nel 918 era conte di Milano in nome di Berengario suo zio, e messo imperiale nello stesso dominio, i quali uffici alcune volte si cumulavano; e che dopo la morte del padre signoreggiava in Ivrea; Anscario ii, che avea dominio in Asti, e possedeva non lunge da quella città il castello di Nono.5 Siccome ambedue avean titolo di marchese, conviene che ambedue possedessero più comitati, ma non si sa a quale dei due fosse toccata la contea di Torino.
Solo è noto che Ugo pigliò gran gelosia di questi potenti marchesi, e che essendo una specie di Tiberio non meno nell’impudicizia, che nell’arte di dissimulare, cominciò a dividerne la potenza trasportando Anscario al ducato di Spoleto e di Camerino; e poi nel 940 gli spedì contro una frotta d’armati, che trovandolo sprovveduto, agevolmente lo ebbero vinto ed ucciso.
Più miti pensieri volgea nell’animo contro al cognato Berengario, poiché nel suo segreto consiglio avea solamente risoluto di fargli cavar gli occhi. Se non che il giovinetto re Lotario, suo figliuolo, ebbe orrore di quel disegno, e ne mandò solleciti avvisi allo zio, il quale senza perder tempo si mise in viaggio tra l’Alpi, ed, egli per una via, la moglie incinta d’otto mesi per un’altra, si condussero speditamente ad Ermanno duca di Svevia, che li raccettò, li protesse e li raccomandò ad Ottone i, re di Germania, che li ebbe cari, nè mai porse l’orecchio agli ambasciatori d’Ugo, che faceano grandi proferte per aver nelle mani quegli illustri fuorusciti.
Intanto le ingiustizie, le estorsioni, le dissolutezze del re Ugo gli alienavano sempre più l’animo degli Italiani. Berengario ne aveva diligenti informazioni; e quando giudicò esser venuto il tempo d’operare, mandò un nobilissimo suo vassallo, chiamato Amedeo, in Italia a considerar gli umori de’ grandi e dei po poli, e ad assaggiarne le disposizioni.
Venne Amedeo travestito da pellegrino, considerò ogni cosa, entrò in discorso co’ principali della nazione, conobbe esser nel cuor d’ogni uomo pari l’odio al disprezzo contro al tiranno provenzale; rinfocò quelle ire, die’ speranze, mostrò al di là dell’Alpi preparato il liberatore, s’aprì più svelatamente con pochi di cui si polea fidare, e dispose tutti gli animi in favor di Berengario, principe giusto, principe valoroso, principe italiano. Ugo seppe che un agente di Berengario percorreva l’Italia, e tese tutte le sue reti per pigliarlo. Amedeo se ne rise. Mutava ad ogni ora abito, barba, capelli, età e sembiante. Osò perfino sotto menti le spoglie presentarsi ad Ugo; e quando ebbe compiuto a suo grand’agio ogni suo intento, schivò le insidie che Ugo aveva appostate ai passi dell’Alpi, e tornò sano e salvo al suo signore in Germania.
Scese Berengario nel 945 per Trento in Italia con non molto esercito. E quasi senza combattere entrò in Milano, tirando con molte proferte al suo partito anche i più caldi partigiani del re Ugo. In quanto agli altri egli era il sospirato, l’aspettato da tutti, il pio liberatore, nuovo Davidde, novello Carlomagno
A Milano la dieta de’ principi si accingeva a deporre l’odiato provenzale, quando costui li mandò ricercando di aver riguardo all’innocenza ed alla giovinezza del re Lotario suo figlio. Egli se n’andrebbe in Provenza; e non esser dovere che Lotario portasse la pena de’suoi peccati. Ebbe infatti la dieta pietà di Lotario, giovane d’egregia indole, e molto dissomigliante dal padre. Berengario medesimo se ne con tentò. Se non che Lotario ebbe il nome di re, ma da quel punto il vero sovrano fu Berengario. Questi era marchese di titolo, ma re di fatto, come dice Liutprando; laddove Lotario non aveva nemmeno l’autorità d’un conte. Pure di quel simulacro d’autorità sarebbe incresciuto a Berengario, se fosse vero, come ne corse voce, che la morte di Lotario avvenuta a Torino il 22 di novembre 930 gli fosse stata procurata col veleno.6 Meno d’un mese dopo Berengario ii univa all’esercizio della regal podestà anche il titolo che sol gli mancava.
Note
- ↑ [p. 149 modifica]
. . . . . Pariter tria fulmina belli
Supponidae coeunt: regi sociabat amico,
Quos tune fida satis coniux, peritura venenis.
Sed postquam haustura est inimica hortamina Circes.
Anonym. in panegyr. Bereng., lib. ii.
- ↑ [p. 149 modifica]Chronic. Novaliciense.
- ↑ [p. 149 modifica]Cioè della metà d’esso luogo, come dice la cronaca della Novalesa; l’altra metà essendo stata data ai monaci dal conte Aimone.
- ↑ [p. 149 modifica]Mon. hist. patriae, Chart. i, 131.
- ↑ [p. 149 modifica]Chart. i, 137.
- ↑ [p. 149 modifica]Io lo credo una favola. La cronaca della Novalesa parla della venuta di Loiario a Torino, e dice che revolutis aliquot diebus, vitam amisit mortemque invenit. Una lettera scritta dall’ab. Belegrimmo a papa Giovanni xiii, dice che Lotario per voler divino: ingenti plaga percussus obiit mortem. infine de’ molti nemici che ebbe a’ suoi dì Berengario ii, niuno lo imputò mai di tale misfatto.