Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro settimo/Capo primo

Libro settimo - Capo primo

../../Libro settimo ../Capo secondo IncludiIntestazione 12 luglio 2024 75% Da definire

Libro settimo Libro settimo - Capo secondo
[p. 1 modifica]

CAPO PRIMO

(Dall’anno 1600 al 1622.)

I. Considerazioni generali. Stato di Reggio. II. Opere pubbliche, religiose e civili. Il pittore Vincenzo Gotti. Industria della seta. Seta sambatello, reggiana, di paraggio. III. Uomini illustri. Topografia di Reggio nel secolo decimosettimo. Suoi edifizii; fortezze; chiese. IV. Condizioni della monarchia spagnola; e di Napoli. I Melissari ed i Monsolini. Tregua, e pace. V. Il sindaco Dottor Marcello Laboccetta. Telai. Molestie de’ Morì di Spagna. Morte di Filippo III. Il Duca di Ossuna in Reggio. Il Governatore Ernando di Aleto. Sue lodi.


I. Quel rinnovellamento politico, che aizzando in Europa tante guerre, ed abbattendo tante prepotenze ed abusi, aveva suscitato una moltiplicità di nuovi interessi, e nuove passioni, e nuove speranze, mentre che sprigionava la storia delle altre nazioni dagli stretti limiti, in cui era chiusa ne’ secoli precedenti, non produceva in Italia che pochi tentativi infecondi. E da questi sforzi, riusciti sempremai fallaci, non le provenivano che scapito e dolori: ed in quel che le altre nazioni costituivano la loro indipendenza, l’Italia perdeva la sua. A’ gloriosi fatti del caduto secolo, alla maschia ed operosa civiltà che avea reso splendido e temuto il nome italiano, tenne dietro una corruzione di là da ogni misura, che sciogliendo il sacro vincolo delle famiglie, non estingueva le ire municipali, ma anzi le imbastardiva, riducendole a pettegolezzi privati; i quali accanavano i cittadini gli uni contro gli altri, e laceravano la patria in partili. A dir breve, il decimosesto secolo non legava al seguente che i suoi più turpi vizii, e non alcuna delle sue tante virtù morali e cittadine. Con tutto l’opprimente governo de’ viceré noi vedemmo a quale altezza fosse pervenuta la civile e religiosa educazione in queste nostre regioni, e come Reggio non fosse rimasta ultima e neghittosa in questo gran lavoro dello spirito umano. Vedemmo che dopo la gloria degli antichi tempi, dopo le sventure continue degli antecedenti secoli, in [p. 2 modifica]cui la patria nostra fu calpestata impunemente da quanti barbari vollero scendere di qua dalle Alpi a sfamarsi, vedemmo, dico, che Reggio in nessun secolo si è più avvicinata all’antico lustro quanto nel cinquecento. Nel quale, comunque le pubbliche sventure e le turchesche incursioni avessero posto alla malora la città nostra ed il suo territorio, pure ebbe meravigliosa pienezza ed attività di vita civile, calore religioso, e nobilissimo accordo d’intenzioni virtuose tra i diversi ordini degli amministratori e degli amministrati. Sicchè nè prima nè poi vide fondarsi tra le sue mura tante pubbliche opere, tanti civili e religiosi istituti, quanti in quel secolo. Quando ad una pia istituzione poneva mente e mano la potestà ecclesiastica, la pietosa opera era a gara ajutata e da’ privati cittadini, e dal pubblico governo: e per converso quando un’istituzione di civile educazione veniva proposta da’ laici, i Prelati soccorrevano con ogni lor possa al lodevole proponimento della potestà civile. Tutto insomma cospirava al progresso e miglioramento della comunanza cristiana, ed all’esplicamento ben diretto degl’interessi morali e materiali. Le quali cose tanto perdetter forza nel secolo decimosettimo, che a noi non resta che la fastidiosa narrazione di baruffe intestine, d’intrighi e persecuzioni dinastiche, di mutazioni di padroni, e d’infruttuosi conati di popolo per giungere, con mezzi non lodevoli e per influenza straniera, a quell’assunto, a cui non potè pervenire l’ardito disegno del Campanella.

Da quello che io racconterò, agguagliato alle nobili azioni de’ secoli decorsi, vedranno i lettori che quelle virtù, le quali allora eran pubbliche, non furono più che privilegio di poche anime elette, non contaminate dalla corruzione de’ tempi, nè dalle splendide turpitudini, di che sfacciatamente andavano alteri i doviziosi ed i potenti, facendosi beffe della miseria di una ignorante moltitudine, che applaudiva assai spesso a chi più sapeva opprimerla e corromperla. Ed il fasto andava crescendo quanto scemavano i mezzi di acquistar l’onesta ricchezza; ed il commercio e le industrie erano assassinati dai monopolii, e dagli assurdi balzelli che il governo spagnuolo, sempre assetato di moneta, imponeva. Quella concordia, che nel cinquecento era stata così edificante tra nobili, civili e maestri, andò sempre mancando ne’ secoli successivi; ed i nobili, guasti dalla boria spagnuola, cominciarono con matta arroganza a separarsi dai civili; i civili a voler esser nobili non colle proprie virtù, ma colle brighe e colla pecunia; i popolani in fine a credersi oppressi dagli uni e dagli altri. Onde vennero poi in Reggio quelle contenzioni dell’elezione de’ Sindaci, che alterarono allo spesso il reggimento municipale, e [p. 3 modifica]condussero in ultimo ad un radical rivolgimento l’ordine dell’amministrazione civile.

II. Continuò nondimeno in taluni nobili intelletti l’amore ed il proposito delle opere virtuose per tutto il secento; ed i benemeriti reggini Emmanuele Morello, ed il cavalier Fra Giuseppe Monsolino fondavano un Conservatorio per le povere donzelle, intitolato della Presentazione di Sant’Anna. Il nobil fiorentino Diego Strozzi, che aveva acquistato casa e cittadinanza in Reggio istituiva il monastero di San Nicolò degli Strozzi per l’educazione delle donzelle nobili. Fu eretta la nobil Confraternita di San Domenico; alzata a segno di concordia cittadina la statua dell’Angelo Tutelare sul largo del Carmine; edificato il Luogo nuovo de’ Cappuccini; aperta una pubblica scuola di artiglieria. Ebbero onore le arti, e specialmente la pittura, della quale teneva uno studio in Reggio il bolognese Vincenzo Gotti, pittor caraccesco, di pennello franco e velocissimo, che in questa sola città, ove dimorò molto tempo, dipinse duecento diciotto tavole di altari.

Nè furon neglette le industrie, fra le quali aveva il primato quella della seta; e di questa, stabiliti i telai in Reggio, cominciarono a farsi molti pregevoli tessuti a varii colori. Come altrove dicemmo, dell’industria della seta nella città nostra e suo distretto, potevano dirsi propagatori gli Ebrei, che ne facevano il principal traffico. Dopo la loro espulsione questa importante speculazione industriale rimase a’ mercatanti genovesi e lucchesi, che stavansi a domicilio in Reggio. Dove principali verso la seconda metà del cinquecento furono il genovese Stefano Gagliani, ed i lucchesi Camillo Sirtì, e fratelli Carlo e Cesare Benassai. Quasi ogni paese del distretto, o paraggio reggino, aveva la sua proporzionata quantità di mangani per la trattura della seta; e fra gli altri meritano special ricordanza que’ mangani, che al principio del secolo decimosettimo, erano a piè della salita di Sambatello, dove i maestri della seta usavan dell’acqua chiarissima, che scaturiva da una vicina roccia. La seta che ivi si traeva era lucidissima, nè perdeva colore, come avveniva delle altre sete del paraggio, ed anche di Reggio.

Cesare Ginneri, educatore e proprietario di bozzoli che abitava in Sambatello, fu il primo che avesse saggiato di trar la seta colla detta acqua; e la prova gli tornò così acconcia, che la sua seta dava più vantaggio delle altre, e venne acquistando più pregio col nome, che ancor dura oggidì, di seta Sambatello; mentre le altre cominciarono ad esser domandate sete reggiane. Di que’ tempi il prezza ordinario della seta era da’ diciotto a ventiquattro carlini; e questo, [p. 4 modifica]come notammo in altro luogo, veniva determinato da’ Sindaci ciascun anno nel giorno della Maddalena, addì ventidue di luglio. Sulla seta reggiana e sambatello la città riscuoteva da’ compratori il dazio di grana dodici per ogni libbra. Oltre questa civica gabella, vi fu però ancor gravata nel 1605 una regia imposta sull’industria serica di tutto il Regno, cioè di grana quindici a libbra sulla seta, di grana sette e mezzo sul cucullo, e di grano uno ed un quarto su’ malafari. La seta andava soggetta alla bilancia del regio Arrendamento, ed ogni dì all’ora vespertina doveva pesarla il regio Pesatore. L’uffizio della pesatura della seta era conceduto, per privilegio di re Filippo IV, a Salvo Minardi e sua famiglia in perpetuo, co’ gaggi ed emolumenti annessi a tal carica, e coll’annua mercede di ventiquattro ducati.

In Reggio i mangani erano situati alla marina, parte dal forte San Francesco a’ giunchi, parte dalla fontana della Dogana fin sotto al forte Lemos. Per il loro lavoro i maestri adoperavano le pure e dolci acque del lido, raccolte in vasche a tal uopo costrutte. Da’ saggi fatti a quel tempo potè dedursi, che la seta reggiana tirata con tale acqua aveva la stessa qualità che la Sambatello. Ma in processo di tempo, senza distinzione di luogo, la seta tirata in Reggio e suo paraggio, al modo di quella di Sambatello, fu chiamata seta Sambatello, e l’altra più grossa e meno lucida, seta reggiana o di paraggio. L’una e l’altra nondimeno sottostava allo stesso dazio civico, ed alla notata regia imposta.

III. Anche le scienze e le lettere ebbero in Reggio i loro esimii cultori. Ed illustri uomini furono nel decimosettimo secolo, secondo i tempi, Marcantonio Politi, Silvestro Politi, il cappuccino Bonaventura Campagna, Giovanni Angelo Spagnolio, Giovanni Battista Bovio, Diego de Mari, Giovanni Battista Catanzariti, Ottavio Sacco, Francesco Sacco, Girolamo Mallamo, Francesco Majorana, Antonio Oliva, Giovanni Alfonso Borrelli, Giuseppe Zuccalà, Stefano Pepe, Niceforo Sebasto Melisseno, Giuseppe Foti, Mariano Spanò, Ignazio Cumbo, Paolo Diano, Silvestro Bendicio, Paolo Filocamo, Francesco Spanò, e Simone Porzio; de’ quali daremo alcune notizie a suo luogo.

Reggio nel decimosettimo secolo si era ridotta a così anguste dimensioni, che le sue mura non giravano in là di mille passi. Era la città di forma quadrata, la cui fronte stendevasi, come oggi, sullo stretto siculo, che partisce il Tirreno dall’Ionio. Volgendo il tergo ad oriente, posava il destro lato a tramontana, il sinistro a mezzodì. Poteva dividersi in quattro sezioni, tirando due linee rette incrociate dalla porta Mesa a quella di San Filippo, e dal de[p. 5 modifica]stro lato del Castello al sinistro della porta Amalfitana, dov’era la torre delle carceri. Sorgeva il Castello in luogo alto, a levante; ed alle sue radici occidentali stavano il palazzo arcivescovile, ed il Duomo. In questa Chiesa erano a destra le cappelle del SS. Sagramento, di Santo Stefano, di San Giovanni Evangelista, di Santa Caterina, di San Nicola, e di Sant’Antonio da Padova. A sinistra quelle di Santa Maria del Popolo, e della Santissima Trinità, e dall’uno e l’altro lato quattro altari, cioè della Resurrezione, di San Crispino, di Santa Maria de Diano, e di Santa Maria del Bosco. Presso l’altare di Santa Maria del Bosco all’angolo sinistro s’innalzava il campanile. Tra i confini della prima sezione della città vedevansi (oltre la detta Cattedrale e Palazzo arcivescovile) il Seminario de’ Chierici, e le chiese di San Sebastiano, di Santa Maria delle Penne, e di San Giacomo apostolo.

Nella seconda sezione, andando giù verso la marina ti si offeriva alla vista, a destra l’edifizio pubblico del Monte della Pietà; le chiese di San Vito, di San Leonardo; le parrocchie di San Nicolò del Pozzo, e di Santa Maria di Ganzerina; ed il convento de’ Carmelitani, la cui Chiesa di Santa Maria delle Grazie era celebre per la frequenza de’ divoti reggini. A sinistra poi le chiese di San Girolamo, di San Filippo e Giacomo, di Sant’Eustachio, di Sant’Antonio da Padova, di San Matteo, e di Santa Maria di Porto salvo; e nell’angolo della città a mezzodì la chiesa parrocchiale di San Nicola delle Colonne, presso cui era il Quartiere militare, ed il forte Lemos. Dentro la porta della marina, che dicevasi pure porta della Dogana per esser vicina a tale edifizio, si teneva il mercato de’ cereali, delle frutta, e di ogni altro commestibile.

La terza sezione, ad oriente e tramontana, abbracciava il Collegio de’ Gesuiti; le chiese parrocchiali di San Nicolò de’ Bianchi, e di Santa Maria della Candelora; quelle de’ Santi Cosmo e Damiano, di San Michele Arcangelo, di San Carlo, e di Santa Maria della Concezione; il Convento di San Domenico; le confraternite di Santa Maria di Melisa, e del SS. Rosario; e la Collegiata greca di Santa Maria della Cattolica.

Nella quarta sezione, a tramontana e ponente, si osservavano il monastero di Santa Maria della Vittoria; le chiese parrocchiali di San Silvestro, e di San Giorgio de Gulferio; quelle di Sant’Andrea, di San Pietro, e di San Giuseppe; ed infine l’Ospedale civico, e la Torre dell’orologio. Gli edifizii privati erano in pessima condizione, nè alcuno divenne meritevole di ricordo speciale.

I quattro angoli delle mura della città eran garentiti da quattro [p. 6 modifica]fortezze, Castello e Torrione della Battagliola a levante, forti di Lemos e di San Francesco a ponente. Al forte di Lemos era annessa la fonderia dell’artiglieria. Erano le mura munite all’intorno da diciassette torri, che facevano una fortificazione continua. Delle quali una era tra il Castello, e la porta Crisafi; due (e di queste l’una oblunga e quadrangolare, e l’altra orbiculare) tra la porta Crisafi ed il Torrione; una quarta tra questo Torrione e la porta Mesa; la quinta tra questa porta ed il forte San Francesco. Sette poi erano dalla parte del mare, cioè cinque tra il forte San Francesco e la porla Amalfitana, e due tra questa e la porta della Dogana: delle quali due l’una era più grande e rotonda, l’altra quadrata e più piccola. Altre cinque torri erano dalla parte di mezzodì, cioè tre fra il forte Lemos e la porta di San Filippo, e due tra questa e l’angolo superiore della città, tra mezzodì ed oriente, presso il Castello.

Fuori porta Mesa era notabile la Chiesa di San Paolo, e poco più lungi il convento di San Francesco d’Assisi, e la chiesetta di San Marco. Il distretto di Reggio, che dicevano anche paraggio, era venuto a minimi termini sotto il governo vicereale, ed aveva per confini la fiumana di Valanidi a mezzogiorno, quella di Gallico a settentrione, ad occidente il mare, ad oriente Calanna, Santagata e Motta San Giovanni. Questo territorio conteneva diciassette villaggi, Sasperato, Valanidi, Pavigliana, Cannavò, Nasiti, Tirreti, Trizzini, Perlupo, Arasì, Cerasi, Schindilifà, Podargoni, Sambatello, San Giovanni, Santa Domenica, San Biagio, e Diminniti.

IV. Intanto la vasta e mostruosa monarchia spagnuola, dacchè non fu più retta dal vigoroso braccio di Carlo V, andò dal male nel peggio, ed i moltiplici ed eterogenei elementi, che la componevano cominciarono manifestamente a disgiungersi. Ogni suo stato prese tendenza a segregarsi dal violento incentramento, che aveva fatte Provincie le nazioni. Congiure, insubordinazioni, ribellioni tenevano concitate le menti. Già le Fiandre ed il Portogallo si eran sottratti, alla suggezione spagnuola. Già il Reame di Napoli anelava l’occasione di fare il medesimo; ma quando poi questa venne, non bastò la lena, e mancò il fermo volere e la perseveranza; e tutto ciò per un’impresa inconsiderata. Imperciocchè le sedizioni di Napoli non furono effetto della convinzione universale, ma dell’istigazione (sempre funesta) degli stranieri che mandò a precipizio ogni cosa; e finirono snaturate dagl’impeti senza freno della più infima plebe. La quale screditò co’ suoi eccessi una causa nobilissima, e la fece odiosa agli onesti, che oneste cose desideravano. [p. 7 modifica]

Or rifacendomi alla storia di Reggio, dico che all’entrar del secolo decimosettimo (1601) due delle più nobili, ricche e potenti famiglie della città erano i Melissari ed i Monsolini; fra le quali da gran tempo avevano alimento gravi disgusti, originati da domestiche controversie. Da’ malumori si era passato a poco a poco alle ingiurie ed alle villanie, e da queste alle armi ed alle percosse. E come gli uni e gli altri aveano molto seguito nella città, e ne’ contadi, ne avvenne che le altre famiglie nobili, civili e popolane prendessero partito chi per l’una e chi per l’altra famiglia, e la città venne a scomporsi in due nemiche fazioni. Tra i partigiani de’ Melissari notavansi i Pugliese, i Mazza, i Filocamo, i Trapani, i Barone, gli Alagona, i Saragnano, ed i Marescalco; e tra quelli dei Monsolini i Poerio, i Diano, i Furnari, i Ricca, i Bolani, ed i Gerìa. Nè andava quasi giorno che per le vie della città non seguissero sanguinosi scontri ed uccisioni; il che recava assai pregiudizio alla civil quiete, ed a’ pubblici e privati negozii. Accrescevano le ire cittadinesche le torme dei villani, che dalle prossime campagne erano accorsi in città, chiamativi non solo dalle due parti avversarie per rinforzarsi a vicenda, ma eziandio dalle altre famiglie nobili e possidenti, che per quelle due parteggiavano.

E venne a tale l’alterna irritazione che in una zuffa fervidissima succeduta presso il Collegio de’ Gesuiti, si mescolaron le due parti cieche di rabbia e di vendetta; e quella de’ Melissari andava già declinando ed in volta, mentre i fratelli Giuseppe e Paolo Monsolino menavan sì destramente le mani ch’era cosa a vedersi. Ma in sul buono Girolamo, Giovanni Domenico e Paolo Melissari, Giovanni Pietro Pugliese, Giuseppe Mazza, e Tiberio Filocamo avventaronsi furiosamente sopra Paolo Monsolino, il quale, non bastando a tanta serra restò sopraffatto ed ucciso. A tal fiero spettacolo l’ira de’ Monsolino divenne furore, e gittatisi frementi sugli avversarli, li cacciarono in rotta ed in fuga.

Dopo il tragico caso ognuno può pensare quanto ne sieno rimaste inasprite e concitate a vendetta le due parti, e come ogni speranza di concordia fosse divenuta impossibile. La città partita continuò ad andar sossopra per più anni, e solo nel 1605 potò darsi luogo ad una tregua di otto giorni per interposizione del governatore Rodrigo Galeoti. A mantenimento della tregua vi fu un cambio di ostaggi (1605): i Melissari dettero a’ Monsolino in ostaggio Giovanni d’Alagona, Claudio Saragnano, e Rodolfo Mariscalco; ed i Monsolino a’ Melissari dettero Fabrizio Poerio, Camillo Diano, e Geronimo Monsolino. Capital patto di tal sospensione d’armi fu che qual [p. 8 modifica]delle due parti mancherebbe fosse tenuta per infame: patto che si estese a tutti i creati ed amici reciproci, i quali si obbligarono che in caso di violazione della tregua, non piglierebbero le armi a favor di chicchessia. Ma questa composizione amichevole, foriera di una pace diffinitiva, non andò a genio a Ferrante Barbuto, regio Consigliere, che allora trovavasi con gente armata in altri luoghi della Calabria, ed era accorso a Reggio a comprimere la guerra intestina. Invano l’arcivescovo Annibale d’Afflitto si era sforzato di rappresentare al Barbuto che tutto era finito, e che mercè i suoi buoni uffizii, e la cooperazione del governator Galeoti sarebbe ritornata a’ Reggini la domestica tranquillità. Il Barbuto non gli dava retta, e voleva metter le mani addosso a coloro, su’ quali si aggravava l’imputazione di aver ucciso il Monsolino. Per la qual cosa parecchi dei più compromessi credettero sicuro consiglio di trovarsi un asilo nella Chiesa del Carmine, per campare dalla minacciata persecuzione del regio Consigliere. Ma questi non ebbe ripugnanza di turbare l’inviolabilità della chiesa, e fece che i suoi scherani vi entrassero per forza, e menassero presi quelli che vi si eran ricoverati. Questo abuso di potere mosse il Prelato ad altissimo sdegno e lo spinse a fulminar la scomunica sul Barbuto. Ma il Vicerè veduto il grave stato di Reggio a causa della guerra civile, vi deputò a Commissarii il Governatore e l’Arcivescovo per comporre ad ogni miglior modo i dissidii. Costoro tramezzatisi tra i contendenti riuscirono a piegarli a sentimenti di riconciliazione e di concordia; per effetto di che fu fermata la pace con pubblico trattato. Al quale intervennero per i Monsolini il governator Diego de Plejo, e l’assessore Ottavio Cappelli, e per i Melissari l’Arcivescovo, ed il suo Vicario generale Annibale Logoteta. Così Reggio ritornò tranquilla, furon dimenticate le offese, e condonati scambievolmente i fatti commessi.

V. A Filippo III si presentò nel 1609 in Madrid il sindaco di Reggio Dottor Marcello Laboccetta, ed ottenne la conferma de’ privilegi della città. Attutatesi in Reggio le civili dissensioni, cominciarono a ridestarsi le operose cure de’ traffichi e delle industrie. E lo stesso Laboccetta espose poi al re, ch’era venuto in Napoli (1612) essere nella Calabria ulteriore principale industria la seta, nè durarvi questa in tutto l’anno che tre mesi solamente; ne’ quali vien dato lavoro e pane alla più parte de’ cittadini indigenti: ma terminato quel periodo di tempo, mancare a moltissimi, e’ diceva, il lavoro, e con esso i mezzi di sostentarsi la vita tante oneste e povere famiglie. Supplicava adunque il Laboccetta la Maestà Sua che tanto [p. 9 modifica]per provvedere a’ pubblici bisogni, quanto per ricavar maggior frutto dalla detta industria, fosse conceduto di poter mettere in Reggio i pubblici telai per tessuti di seta. Dal che non solo verrebbe incremento alle entrate della regia dogana, ma il lavoro e colore delle stoffe risulterebbe perfettissimo per l’abbondanza e comodità dell’acqua; e ne verrebbe molto onore ed utile al Governo, ed al paese. Nè andaron falliti i desiderii de Reggini, perchè ottenutane la regia licenza, i telai furono stabiliti in Reggio, e vi durarono lunga pezza con pieno successo.

Ivi a pochi anni i Mori, (1616) in numero di più che trecento mila, furon cacciati di Spagna ch’era già divenuta loro patria, ed ove tanti indissolubili e cari interessi di parentela e di commercio li legavano al popolo spagnuolo. Irritati a ragione contro il governo di Spagna, che strappandoli da quelle contrade, li aveva rimandati in Affrica, non potettero altrimenti sfogare il loro dolore e dispetto che gittandosi al guasto ed alla preda su queste nostre regioni, così lor vicine, e parte della spagnuola dominazione. Onde divenuti fieri pirati condotti da Samsone si diedero a corseggiare il nostro mare; e queste riviere calabresi ricominciarono ad esser tormentate dalle loro infestazioni. Di che com’ebbe notizia il Duca di Ossuna, allora vicerè di Sicilia, mandò lor contro molte navi a spazzarli. I pirati vennero parecchie volte al cozzo colle navi cristiane, ma finalmente n’andaron fiaccati e dispersi. Questa prova di vigore, ed il suo buon successo fecero che i corsari nell’avvenire si facessero vedere più raramente; tanto più che il detto vicerè, accresciuto il numero delle navi ch’eran di stazione contro quelli, venne a far dimora in Messina, donde vegliava assiduo alla sicurezza delle coste di Sicilia e di Calabria.

L’anno 1622, trovandosi in Messina il Duca di Ossuna, ch’era passato a Vicerè di Napoli, i Reggini vi si recarono in gran quantità a fargli osservanza, e presentargli varii graditi regali di squisite frutta. Ed avendo divisata al Duca la deliziosa posizione di Reggio, l’amenità de’ suoi giardini, la freschezza delle sue acque, egli ebbe voglia di conoscer di veduta le contrade reggine; e passato lo Stretto trovava le narrate cose non inferiori alla fama. Si accalcò allora ai passi del Vicerè una gran moltitudine di popolani, i quali vedendo quanto diletto e’ prendesse delle naturali bellezze della patria loro, andavan gridando tanto che fossero da lui intesi: — fresche esser le acque, bellissima la città, deliziosi i giardini, saporite le frutta; ma ciò che giovava al povero popolo, quando aggravato dalle concussioni de’ suoi governatori, non curvava la schiena al penoso lavoro [p. 10 modifica]de’ campi, che per averne scarso guadagno, il quale poi se ne andava tutto in gabelle ed in donativi? Governator loro, dicevano, esser Filippo Borgia; e costui, dato tutto a cavar moneta con mezzi turpissimi, poco o nulla curarsi della condizione dell’onesto cittadino che aveva a camparsi la vita col sudor della fronte, ed a veder de’ frutti delle sue fatiche farsi dovizia a’ ribaldi, ed a’ prepotenti. Giungevano alle orecchie del Duca le vive lagnanze popolari, e tale impressione gli facevano che ritornato in Napoli, mandava nuovo Governatore a Reggini Ernando di Aleto. Questi avea lunga pezza e valorosamente militato nelle guerre di Fiandra, ed ebbe poi l’uffizio di Capitano di fanteria spagnuola in Sicilia, quando l’Ossuna governava quell’isola.

Era Ernando di Aleto uomo di antichi costumi, e di gran prudenza, e venuto in Reggio adempì egregiamente il suo uffizio reprimendo i prepotenti, perseguitando i banditi e castigandoli colla forza e col carcere, alleggerendo al popolo le vessazioni de’ nobili, e guarentendo i diritti della possidenza, ch’erano in massima parte manomessi. Oltre a questo le vecchie opere pubbliche restaurò, nuove ne propose e promosse per utilità e decoro cittadino, tutti i debitori solvibili della città e dello Stato costrinse a pagar gli arretrati. Così che nello spazio di due anni si vide la città nostra rialzata ad un viver riposato e civile, quale non fu mai nè prima, nè poi. A dir tutto in somma, videsi (per usare una bella frase del nostro Spagnolio) ripatriare il dovere e la ragione in quella città, donde da gran tempo erano stati al tutto sbanditi. Ma, come incontra in tali circostanze, mentre il savio governo dell’Aleto era mandato a cielo da’ popolani e dagli onesti cittadini, era biasimato e morso da’ nobili, che vedevano così bruscamente attraversati i loro arbitrii, e frenate le loro licenze. Contuttociò sinchè stette vicerè il Duca di Ossuna, l’Aleto governò Reggio con plenipotenza, perchè il vicerè dava intera approvazione a’ suoi atti, e non prestava orecchi alle maligne accuse degli avversarii. Ma quando poi all’Ossuna successe vicerè il Cardinal Borgia, quantunque questi avesse confermato all’Aleto il governo di Reggio, pure gli ristrinse i poteri in gran parte. Ed allora i suoi potenti avversarii, colto il momento, sorsero da ogni lato ad accusarlo di rigore, di arbitrio, di atrocità; mentre il popolo in generale non si vedeva sazio di predicarlo giusto, integro, benevolo ai buoni, e solo austero ed inesorabile co’ malvagi e co’ contumaci. Ma qual premio seguì all’Aleto dal suo nobilissimo ardore per la cosa pubblica, e dalla sua più unica che rara rettitudine? Un lungo carcere, e l’ingratitudine, e l’ab[p. 11 modifica]bandono! solite ricompense serbate agli onesti, quando sorgendo nemici de’ prepotenti e de’ tristi, mostransi amici de’ travagliati e de’ virtuosi. Nondimeno eterno premio del giusto è la sua coscienza incontaminata, suo eterno testimone è la storia: premio e testimone, che nessuna potenza umana può togliere; che nessuna ingiuria o vicenda di tempo cancellerà mai.