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discorso preliminare | 25 |
tero danuosi. Ed iu questo, e nelle prove di fermezza date dal papa dopo smascherata la rivoluzione, esso non apparisce grande soltanto, ma sublime;
4.° Che se sofferse il papato negli anni di cui discorriamo, altri potentati non andarono immuni dalla procella, che ne minacciò alcuni, ed altri sommerse, e forse chi sa che non vi desser causa, coll’aver favorito soverchiamente nei loro stati lo spirito filosofico, la diffusione di libri corrompitori, e avversato troppo apertamente, fin dallo scorcio del secolo passato, le salutari influenze, ed i savi consigli della corte di Roma.
Di cotal guisa apparirà stabilito sopra solide basi il convincimento, che nè bravura d’uomini, nè perfezionamento d’istituzioni, nè antivedimenti di vanagloriosa diplomcia, a salvare bastano la società da urti violenti, ove faccia difetto il principio religioso. Ed a tale effetto, indirizzandoci noi a quei giovani che ammiratori poco riflessivi della romana gentilesca grandezza, sperano di vederla risorta, direm loro, che se furono grandi gli antichi Romani, e se pervennero a stabilire il più vasto impero del mondo, dettero ad esso la religione per base, quel solo dono del cielo, che l’umana società cementa, consolida, conforta e sostiene.
E direm loro ancora, che rimirino nell’età moderna e riconoscano se è vero o no, che stante il rilasciamento nell’idee religiose, tutti i governi sono costretti di reggersi coll’aumentare la vigilanza e il sospetto, moltiplicare i macchinismi della polizia, ed alimentare quella piaga sociale, ohe corrode gli stati tutti del continente, vogliam dire le innumerevoli soldatesche.
Procurammo per quanto ci fu possibile di essere imparziali nei nostri giudizi. Non lodammo il potere, quando ci parve che commettesse qualche tratto d’imprevidenza; disapprovammo l’inerzia della polizia; non risparmiammo parole di biasimo contro gl’impiegati governativi; non fummo larghi di lodi alla romana aristocrazia, perchè non ci parve