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fessione, d’ogni partito, d’ogni paese, tutti piangiamo di dover celebrare colla voce compressa, a mani sempre legate, il centenario di un atto glorioso di libertà, e questo sacro pianto frutti un furor di speranza, un coraggio uguale alla santità dell’intento, di riconquistare la nostra indipendenza. Le cause giuste non periscono mai, e il tiranno o lo straniero non può soggiogare che i codardi.1

L’altro proclama o avviso dice come segue:

«Le dimostrazioni di gioia avvenute la notte del cinque corrente decembre intendevano a festeggiare il centenario della cacciata dei Tedeschi dalla città e riviera di Genova, accaduta nel 1746. Tal fatto, il più bello forse della moderna storia italiana, viene da illustri scrittori in questo modo narrato. Il Tedesco agognante vendetta era entrato in Genova, il popolo aveva statuito di difendersi, ma i nobili rifiutarono. Il marchese Botta generale delle milizie imperiali, impose durissimi patti, e una soldatesca sfrenata oltraggia ad ogni istante gl’infelici abitatori; i sacerdoti e i monaci, che s’avvisano intromettersi pei compatriota loro, sono con dispreuo dal marchese ributtati, e da’ suoi satelliti vilipesi; il popolo bramava vendetta.

» Gli Austriaci, che mancavano di grossa artiglieria, toglievano dalle mura di Genova i cannoni che destinavano all’impresa di Provenza; e i Genovesi, come che frementi di rabbia per questa nuova ingiuria, a trasportarli forzavano anche con bastonate. Da un fanciullo incominciò la tempesta. Rivolto ai compagni: Oh la rompo — e trasse un sasso agli sgherri. Ed ecco gli Austriaci oppressi da una grandine di pietre, si riparano nei loro alloggiamenti. Il grido all’arme rimbomba per ogni dove; i monaci si pongono a capo del popolo assembrato. L’arsenale è investito, si uccidono, si disperdono

  1. Vedi Documenti, vol. I, n. 62. A.