Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1890)/XIV

XIV
LA MACCARONEA

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XIII XV


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XIV.


LA MACCARONEA.


Mentre Ludovico componeva il suo Orlando a Ferrara, Girolamo Folengo vi facea i primi studi sotto la guida di un tal Cocaio. Era di Cipada, villaggio mantovano, di famiglia nobile e agiata. Strinse conoscenza con Ludovico. Comparivano allora in istampa la Spagna, il Buovo, la Trebisonda, l’Ancroia, il Morgante, il Mambriano del Cieco di Ferrara, l’Orlando innamorato. Avea il capo pieno di romanzi più che di grammatica, e pensò rifare l’Orlando innamorato, ma saputo del Berni smise per allora. Andato in istudio a Bologna, fu discepolo del Pomponazzi, che dava bando al soprasensibile e al sopranaturale, e predicava il più aperto naturalismo. Gli studenti erano ordinati a modo di casta, con le loro leggi e privilegi, capi i più arrischiati e baldanzosi, tra’ quali era un giovane mantovano, chiamato con lo stesso nome di Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, che lo tenne a battesimo. Vive erano tra loro le reminiscenze cavalleresche, rinfrescate dalla lettura, e duelli, sfide, avventure, imprese amorose, erano una parte della loro vita più interessante che le lezioni accademiche. Fra tanti capi ameni ci era Girolamo, che per le sue eccentricità si fe’ mandar via da Bologna, e non fu voluto ricevere in casa il padre, sicchè finì frate in Brescia, ribattezzatosi Teofilo. Ma ne fuggì con una donna, e ricomparso nel secolo, per campare la vita si diè a scriver romanzi, sotto il nome di quel tal Cocaio, postogli a’ fianchi, Cassandra inascoltata, dal padre, e di Merlino, il celebre [p. 47 modifica]mago de’ romanzi di cavalleria. Ebbe fama, ma quattrini pochi, e Merlino il Pitocco, come si chiama nel suo Orlandino, stanco della vita errante, si rifece frate, scrisse poesie sacre, e morì pentito e confesso e da buon cristiano, come il Boccaccio.

Merlino, o piuttosto Teofilo, o piuttosto Girolamo, era, come vedete, uno di quegli uomini che si chiamano scapestrati, e fin dal principio perdono l’orizzonte, e fanno una vita sbagliata. Messosi fuori di ogni regola e convenienza sociale, in una vita equivoca, non laico e non frate, tra miseria e dispregio, si abbrutì, divenne cinico, sfrontato e volgare. Trattò la società come nemica, e le sputò sul viso, prorompendo in una risata pregna di bile. Ridere a spese delle forme religiose e cavalleresche era moda; egli ci mise intenzione e passione. Ciò che negli altri era colorito, in lui fu lo scopo. E a questa intenzione furono armi una fantasia originale, una immaginazione ricca e una vena comica tra il buffonesco e il satirico. La sua prima concezione, come ci assicura quel tal Cocaio, fu l’Orlandino o le geste del piccolo Orlando, poema in ottava rima e in otto capitoli. Lo chiama la prima deca autentica di Turpino, stimando apocrife tutte le storie in voga, eccetto quelle del Boiardo, del Pulci, dell’Ariosto e del Cieco da Ferrara:

Apocrife son tutte e le riprovo,
Come nemiche d’Ogni veritate:
Boiardo, l’Ariosto, Pulci, e il Cieco
Autenticati sono ed io con seco.

Ma Orlando nasce al settimo capitolo, e quando comincia appena a vivere, finisce il poema. Forse il poco successo gli tolse la voglia di andare innanzi. La forma è orrida, irta di barbarismi e solecismi, e confessa egli medesimo che i lettori vi trovavano. [p. 48 modifica]

Oscuri sensi ed affettate rime,

Ma che colpa ci ho io? soggiunge Merlino

Non tutti Sannazzari ed Ariosti,
Non tutti son Boiardi ed altri eletti,
I cui sonori accenti fur composti
Dell’alma Clio negli ederati tetti,
Tetti sì larghi a loro, a noi sì angosti,
E rari son pur troppo gli entro accetti.

Ho riportato questi versi come esempio. Era di scarsa coltura, e lo chiamavano per istrazio il grammatico,

Che tanto è a dire quanto un puro asino:

e poco studioso della lingua chiamava chiacchieroni i toscani, che accusavano lui di lombardismi e latinismi:

Tu mi dirai, lettor, ch’io son lombardo,
E più sboccato assai di un bergamasco:
Grosso nel profferir, nel scriver tardo,
Però dal Tosco facilmente io casco.

Una lingua cruda, che è una miscela di voci latine, lombarde, italiane e paesane senza gusto e armonia, uno stile stecchito, asciutto, lordo e plebeo spiegano la fredda accoglienza di un pubblico così colto e artistico. Il concetto è la difesa delle inclinazioni naturali contro le restrizioni religiose, con pitture satiriche de’ chierici, qui praedicant jejunium ventre pleno. Vi penetrano alcune idee della Riforma, come nella preghiera di Berta non a’ Santi, dic’ella, ma a Dio, e mescolate con invettive e buffonerie a spese de’ frati o incappucciati con bile e stizza di frate sfratato. Il che non procede da fede intellettuale e non da indignazione di animo elevato, ma da scioltezza di costumi e di coscienza. Veggasi ad esempio il ritratto [p. 49 modifica]di Griffarrosto, allusione al Priore del suo convento, ritratto osceno e bilioso, tra il ringhio del cane e gli attucci senza vergogna della scimmia. La sua caricatura de’ tornei cavallereschi, concepita con brio, eseguita in forma stentata e grossolana, rivela una fantasia originale, a cui mancano gl’istrumenti.

Riuscitogli male l’italiano tentò un poema in latino, e smise subito. In ultimo trovò il suo istrumento, una lingua senza grammatiche e senza dizionarii e di cui nessuno aveva a chiedergli conto, una lingua tutta sua, trasformabile a sua posta secondo il bisogno del suo orecchio e della sua immaginazione, dico la lingua maccaronica.

Il latino era allora lingua viva nelle classi colte e diffuse. Sannazzaro, Vida, Fracastoro, Flaminio erano nomi sonori più che il Berni o l’Ariosto o il Boiardo. Se in Firenze l’italiano avea vinta la prova, nelle altre parti d’Italia il latino avea ancora la preminenza. In quella dissoluzione generale di credenze, d’idee, di forme, la buffoneria penetrò anche nelle due lingue, e ne uscì una terza lingua, innesto delle due, possibile solo in Italia, dove esse erano lingue note e affini. Avemmo adunque il pedantesco, un latino italianizzato, e il maccaronico, un italiano latinizzato, con mal definiti confini, sì che talora il pedantesco entra nel maccaronico, e il maccaronico nel pedantesco. Tentativi infelici e dimenticati, quando nel 1521, cinque anni dopo l’Orlando Furioso, uscì in luce la Maccaronea di Merlin Coccaio, e fece tale impressione, che in quattro anni se ne fecero sei edizioni.

La Maccaronea nel principio è l’Orlandino, mutati i nomi. A quel modo che Milone rapisce Berta, e poi la lascia, e Berta gli partorisce Orlando; Guido, discendente di Rinaldo, rapisce Baldovina, figlia di Carlomagno, e fugge con lei in Italia, accolti ospitalmente da un [p. 50 modifica]contadino di Cipada, patria appunto del nostro Merlino. Guido lascia Baldovina, cercando avventure, ed ella muore, dopo di aver partorito Baldo. Fin qui l’Orlandino e la Maccaronea vanno insieme; ma qui l’Orlandino finisce subito, e la trama è ripigliata e continuata nella Maccaronea. Baldo, come Orlandino, ha molta forza e coraggio, e si gitta a imprese arrischiate. Ha parecchi compagni, tra’ quali Fracasso, che ricorda Morgante, da cui discende, e Cingar, che ricorda Margutte. Dicono che sotto questi nomi si celino gl’irrequieti studenti di Bologna, capitanati da quel Francesco mantovano, che sarebbe Baldo. Fatto è che date e ricevute molte busse, Baldo è messo in prigione. Cingar, vestito da frate, lo libera. Eccoli tutti per terra e per mare cavalieri erranti, e compiono audaci imprese. Baldo distrugge corsari, estermina le fate, ritrova Guido suo padre fatto romito, che gli predice grandi destini; va in Africa, scopre le foci del Nilo, scende nell’inferno. Giunto co’ suoi in quella parte dell’inferno, dove ha sede la menzogna e la ciarlataneria e dove stanno i negromanti, gli astrologi e i poeti, Merlino trova colà il suo posto e pianta i suoi personaggi e finisce il racconto.

Abbandonarsi alla sua sbrigliata immaginazione e accumulare avventure è a prima vista lo scopo di Merlino, come di tutt’i romanzieri di quel tempo. Anzi di avventure ce n’è troppe; e fra tanti intrighi l’autore pare talora intricato e stanco. Ti senti sbalzato altrove prima che abbi potuto ben digerire il cibo messoti innanzi. Molte avventure sono reminiscenze classiche e cavalleresche, ma rifatte e trasformate in modo originale; e il tutt’insieme è originalissimo. Cominciamo con Carlomagno e i Paladini, ma dopo alcuni libri o canti ci troviamo in Cipada, con l’immaginazione errante fra Mantova, Venezia, Bologna, e con innanzi l’Italia con la sua scorza da medio evo penetrata da uno spirito [p. 51 modifica]cinico e dissolvente. Le forme sono epiche, ma caricate in modo che si scopra la ironia. La caricatura non è un semplice sfogo d’immaginazione comica e buffonesca, come le avventure non sono un semplice stimolo di curiosità: ci è una intenzione che penetra in quei fatti e in quelle forme e se li assoggetta, ci è la parodia.

Baldo è l’ultimo di quella serie di cavalieri erranti, che comincia con Aiace, Achille, Teseo, continua con Bruto, Pompeo e gli altri eroi celebrati da Livio e Sallustio, e va a finire in Orlando e Rinaldo, da cui discende Baldo. La sua missione è di purgare la terra da’ mostri, dagli assassini e dalle streghe. La cavalleria è l’istrumento divino contro Lucifero. Baldo vince i corsari, atterra i mostri, uccide le streghe e debella l’inferno. Tutto questo è raccontato con un suono di tromba così romoroso, con un accento epico così caricato che si ride di buona voglia a spese di Baldo, di Fracasso, di Cingar, e degli altri cavalieri.

Ma in quest’allegra parodia penetra un’intenzione ancora più profonda, la satira delle opinioni, delle credenze, delle istituzioni, de’ costumi, delle forme religiose e sociali. Il medio evo ne’ suoi diversi aspetti è in fuga, frustato a sangue dal terribile frate, rifatto laico. Perchè infine i mostri, le streghe e l’inferno non sono altro che forme religiose e sociali, i vizii, le lascivie e i pregiudizii popolari. E come tutta questa dissoluzione non nasce da nuova fede o da nuova coscienza, ma da compiuta privazione di coscienza e di fede, la cavalleria che in nome della giustizia e della virtù debella l’inferno, è essa medesima una parodia e l’impressione ultima è una risata sopra tutti e sopra tutto. Qualche sforzo di un’aspirazione più seria ci è; Leonardo che muore per mantenere intatta la sua verginità è una bella immagine allegorica perduta fra tante caricature. Hai una dissoluzione universale di tutte le idee e di tutte le credenze nella [p. 52 modifica]sua forma più cinica. Lì dentro ci è la società italiana colta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte assisa sulle rovine del medio evo, beffarda e vuota.

La lingua stessa è una parodia del latino e dell’italiano, che si beffano a vicenda. Come i maccheroni vogliono essere ben condito di cacio e di butirro, così la lingua maccaronica vuol essere ben mescolata. Spesso vi apparisce per terzo anche il dialetto locale, e si fa un intingolo saporitissimo. La lingua è in sè stessa comica, perchè quel grave latino epico che intoppa tutt’a un tratto in una parola italiana stranamente latinizzata, e talora tolta dal vernacolo, produce il riso. La parodia che è nelle cose scende nella lingua, la quale sembra un eroe con la maschera di Pulcinella, un Virgilio carnascialesco. Alione astigiano e qualche altro avevano già dato esempio di questa lingua recata a perfezione da Merlino. Egli ne sa tutt’i segreti, e la maneggia con un’audacia da padrone, con un tale sentimento di armonia, che par l’abbia già bella e formata nell’orecchio. Come saggio, cito alcuni brani della sua invocazione alla Musa maccaronica:

Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
O macaronaeam Musae quae funditis artem.
Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia,
Non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictet;
Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
Imboccare suum veniant macarone poetam.

Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste muse plebee:

Credite quod giuro; neque solam dire bosiam
Possem per quantos abscondit terra tesoros.
Illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
Quae lacum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur

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Ire redire rates...
Sunt ibi costerae freschi tenerique botiri,
In quibus ad nubes fumant caldaria centum,
Plena casoncellis, macaronibus, atque foiadis.
Ipsae habitant Nimphae, super alti montis aguzzum;
Formaiumque tridant grataloribus usque foratis.

E non è meno originale il suo stile. Della nuova letteratura i grandi stilisti sono il Boccaccio, il Poliziano, l’Ariosto. Costoro narrando fanno quadri, ciò che costituisce il periodo. Ti offrono le cose dipinte, sono coloristi: Merlino dipinge le cose con altre cose, i suoi colori non sono concetti o immagini, sono fatti. Ha poche reminiscenze classiche: tra lui e la natura non ci è nulla di mezzo. La sua immaginazione non rimane nella vaga generalità delle cose, ma scende nel più minuto della realtà e ne cava novità di paragoni e di colori. I fatti più assurdi e fantastici sono narrati coi più precisi particolari, ed hanno l’evidenza della storia, e ti rivelano un raro talento di osservazione dell’uomo e della natura, non nelle loro linee generali solamente, ma nelle singole e locali forme della loro esistenza. Veggasi la descrizione della caverna di Eolo, e della tempesta, e le disperazioni di Cingar:

Solus ibi Cingar cantone tremebat in uno,
Atque morire timens, cagarellam sentit abassum.
Undique mors urget, mors undique cruda menazza
Infinita facit cunctis vota ille Beatis,
Jurat, quod cancar veniat sibi, velle per omnem
Pergere descalzus mundum, saccove dobatus.
Vult in Agrignano sanctum retrovare Danesum,
Qui nunc vivit adhuc vastae sub fornice rupis,
Fertque oculi cilios distesos usque genocchios.
Ad zocolos ibit, quos olim Ascensa ferebat:
Quos in Taprobana gens portugalla catavit;
Hisque decem faciet per Frates dicere messas.

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His quoque candelam tam grandem, tamque pesantem
Vult offerre simul, quam grandis quamque pesantus
Est arbor navis, prigolo si scampet ab isto.
Se stessum accusat multas robasse botegas,
Sgardinasse casas et sgallinasse polaros.
At si de tanto travaio vadat adessum
Liber speditus, vult esse Macarius alter,
Alter eremita Paulus, spondetque Sepulchri
Post visitamentum, vitam menare tapinam.
Talia dum Cingar trepido sub pectore pensat,
Et ruptae sublimis aquae montagna ruinat,
Quae superans gabbiam, strepitosa trapassat,
Nec pocas secum portavit in aequora gentes.

La stessa ricchezza di particolari trovi nella descrizione de’ venti, e nelle vicende della tempesta. Ci hai il carattere dello stile di Merlino, un realismo animato da una immaginazione impressionabile e da un umorismo inestinguibile. Non ha tutto la stessa perfezione: ci è di molta ciarpa, la facilità è talora negligenza; desideri l’ultima mano, desideri la serietà artistica dell’Ariosto.

Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori, fa di Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante, salvo che Dante spesso ti fa degli schizzi, ed egli disegna e compie tutto il fatto. Il suo continuatore e imitatore è fuori d’Italia, è Rabelais, che ha la stessa maniera. In Italia prevalse la rettorica, la cui prima regola è l’orrore del particolare e la vaga generalità. Merlino al contrario aborre le perifrasi, i concetti, le astrazioni e quel colorire a vuoto per via di figure e d’immagini, e non pare che lavori con la riflessione o con l’immaginazione, ma che stia lì tutto attirato in mezzo a un mondo che si muove guardato e parodiato ne’ suoi minimi movimenti. Baldovina e Guido giungono affamati in casa di Berta, e cucinano essi medesimi il pasto. Al poeta non fugge nulla, i cibi, il modo di apparecchiarli, il desco, [p. 55 modifica]l’affaccendarsi di Berta, la fisonomia e gli atti de’ due suoi ospiti: e ne nasce una scena di famiglia piena di allegria comica, il cui effetto è tutto ne’ particolari. Il piccolo Baldo va a scuola, e in luogo del Donato studia romanzi. Hai innanzi la scuola di quel tempo, i libri alla moda, i costumi de’ maestri e degli scolari, ciascun particolare con la sua fisonomia:

Beldovina tamen cartam comprarat, et illam
Lettrarum tolam, supra quam disceret A. B.
Unde scholam Baldus nisi non spontaneus ibat.
Nam quis erat tanti seu mater sive pedantus,
Qui tam terribilem posset sforzare putinum:
Ipse tribus sic sic profectum fecerat annis,
Ut quoscumque libros legeret, nostrique Maronis
Terribiles guerras fertur recitasse magistro.
At mox Orlandi nasare volumina coepit,
Non deponentum vacat ultra ediscere normas;
Non species, numeros, non casus atque figuras;
Non Doctrinalis versamina tradere menti,
Non hinc, non illinc, non hoc, non illoc, et altras
Mille pedantorum baias, totidemque fusaras.
Fecit de Cuius Donati deque Perotto
Scartozzos; ac sub prunis salcizza cosivit.
Orlandi tantum gradant et gesta Rinaldi;
Namque animum guerris faciebat talibus altum.
Legerat Ancroiam, Tribisondam, facta Danesi,
Antonnaeque Bovum, Antiforra, Realia Franzae,
Innamoramentum Carlonis, et Aspera montem,
Spagnam, Altobellum, Morgantis bella gigantis,
Meschinique provas, et qui cavalerius Orsae
Dicitur, et nulla cecinit qui laude Leandram.
Vidit ut Angelica sapiens Orlandus amavit,
Utque caminavit nudo cum corpore mattus,
Utque retro mortam tirabat ubique cavallam,
Utque asinum legnis caricatum calce ferivit,
Illeque per coelum veluti cornacchia volavit.

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Baldus in his factis nimium stigatur ad arma,
Sed tantum quod sit piccolettus corpore tristat.

È una scena di quel tempo, ispirata a Merlino dalla sua vita studentesca di Ferrara e Bologna, quando Coccaio, il suo pedagogo, gli metteva in mano Donato e il Porretto, ed egli ne faceva scartozzos, e leggeva romanzi, e sopra tutti l’Orlando Furioso. Non c’è una sola generalità: tutto è cose, e ciascuna cosa è animata, come un uomo ha la sua fisonomia e il suo movimento, determinato da forze interiori. Non solo vedi quello che fa Baldo, ma quello che pensa e sente; perchè la parola, se nel suo senso letterale esprime un’azione, con la sua aria maccaronica e la sua giacitura e la sua armonia te ne dà il sentimento, come è quel nasarat, e quel volavit, e quel piccolettus, e quell’hinc, illinc, hoc, illoc, et altras mille pedantorum baias.

La parte seria del racconto dovrebb’esser la cavalleria, perchè essa è che fa guerra all’inferno, cioè alla malvagità e al vizio. Ma la serietà è apparente, e in fondo è una parodia scoperta, il cui eroe più simpatico è il gigante Fracasso, parodia di quella forza oltreumana che si attribuiva a’ cavalieri erranti1. Dico parodia scoperta se guardiamo alla conclusione ingegnosissima; perchè giunti i cavalieri nella regione infernale delle [p. 57 modifica]menzogne poetiche, Merlino te li pianta, e si ferma colà come nella sua patria. Questa patria de’ poeti, de’ cantanti, degli astrologi, de’ negromanti, di tutti quelli,

Qui fingunt, cantant, dovinant somnia genti,
Compluere libros follis vanisque novellis:

è una conchiglia, o piuttosto una immensa zucca, secca e vuota, mangiabilis, quando tenerina fuit, dove tremila barbieri strappano i denti a’ condannati. E Merlino esclama:

Zucca mihi patria est, opus est hic perdere dentes,
Tot quot in immenso posuit mendacia libro.

E tronca il racconto, e dice addio a Baldo:

Balde, vale studio, alterius te denique lasso.

Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte, e di sè stesso, che ha composto un vero mostro oraziano, fuori di tutte le regole, perduti i remi, mescolati l’austro co’ fiori e i cignali col mare:

Tange peroptatum, navis stracchissima, portum:
Tange, quod amisi longinqua per aequora remos.
Heu heu, quid volui misero mihi perditus austrum
Floribus, et liquidis immisi fontibus apros.

È il comico portato all’estremo dell’umore. La caricatura del Boccaccio, la buffoneria del Pulci, l’ironia dell’Ariosto è qui l’allegro e capriccioso umore di una negazione universale e scoperta nella forma più cinica.

In questa negazione universale la satira penetra dappertutto, e attinge la società, come il medio evo l’aveva costituita, in tutte le sue forme, religiose, politiche, morali, intellettuali. La scolastica è messa alla berlina; san Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionarii accanto agli astrologi e a’ negromanti. Megera fa un [p. 58 modifica]terribile ritratto di tutt’i disordini della Chiesa e dei Papi, e Aletto fulmina ugualmente guelfi e ghibellini, i seguaci della Francia e i seguaci dello Impero. I monaci sono il principale bersaglio di questi strali poetici. Una delle pitture più comiche è quel biricchino di Cingar vestito da Francescano per liberare Baldo dal carcere.

Iam non is Cingar, sed sanctus nempe videtur,
Sub tunicis latitant sacris quam saepe ribaldi!


Notabile è la satira de’ frati nel settimo libro:

Postquam gioccarunt nummos tascasque vodarunt,
Postquam pane caret cophinum, coeladia vino,
In fratres properant, datur his extemplo capuzzus.


La moltiplicità de’ conventi gli fa temere che un bel dì rimanga la gente cristiana senza soldati e senza contadini. Scherza su’ motti del vangelo. Fa una parodia della confessione. I cavalieri erranti giungono alla porta dell’inferno, dov’è parodiata la celebre scritta di Dante:

Regia Luciferi dicor, bandita tenetur
Cohors hic, intrando patet, ast uscendo seratur.


Ma non possono domare l’inferno, se prima non si confessano, e il confessore è Merlino stesso, il poeta:

Nomine Merlinus dicor, de sanguine Mantus,
Est mihi cognomen Coccaius maccaronensis.


Quale confessione i cavalieri possano fare a Merlino, soprattutto Cingar, il lettore s’immagini. È una farsa. Tutta l’opera è penetrata da uno spirito capriccioso e beffardo, che fa di quel mondo in mezzo a cui si trova il suo aperto trastullo, e gli dà forme carnascialesche.

Anche la Moscheide di Merlino è una caricatura o un travestimento carnevalesco della cavalleria in uno [p. 59 modifica]stile più corretto e uguale. La guerra finisce con la sconfitta compiuta delle mosche, descritta co’ tratti da lui caricati dell’Ariosto e di altri poeti cavallereschi. Eccone alcuni brani verso la fine:

Numquam facta fuit tam cruda baruffola mundo:
     Nil nisi per terram membra taiata micant.
Grandes mortorum vadunt ad sydera montes,
     Sydera, quae multo rossa cruore colant.
Pulmones, milzae, lardi, ventralia, membri
     Saturni ad sphaeram foeda per astra volant.
Una corada Iovis mostazzum colsit, et uno
     Sol ibi ventrazzo spinctut ab axe fuit.
Dumque Dei coenant puero Ganimede ministro,
     Multa super mensas ossa taiata cadunt;
Nunc brazzus ragni, nunc gamba cruenta pedocchi,
     Nunc cor Moschini, nunc pulicina manus.
.   .    Trucidatis Ducibus Moschaea ruinat
     Tota, nec una quidem vivere Mosca potest.
Formicae, Pulices, Ragni, Victoria, clamant.
     Trombettae tararan jam frisolando sonant.

Il Rodomonte delle mosche è Siccaborone, sul quale da una torre gittano un sasso enorme.

Qui super elmettum schizzavit Siccaboronem,
Vitaque cum gemitu sub Phlegetonta fugit.

La Zanitonella o gli amori di Zanina e Tonello è un suo poemetto bucolico in caricatura, dove si fa strazio delle immagini e de’ sentimenti petrarcheschi e idillici. Il Petrarca narra che Amore colpì lui improvviso e disarmato. Il medesimo avviene a Tonello:

Solus solettus stabam colegatus in umbra,
     Pascebamque meas virda per arva capras.
Nulla travaiabant vodam pensiria mentem,
     Nullaque cogebat cura gratare caput,

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Cum mihi bolzoniger cor oime, Cupido, forasti,
     Nec tuus in fallum dardus alhora dedit.
More valenthominis schenam de retro feristi:
     O bellas provas quas, traditore, facis!

Guardando un po’ addentro in questa caricatura universale del mondo, si vedono qua e là spuntare alcuni lineamenti confusi di un mondo nuovo. Ci si sente lo spirito della Riforma, il dolore di un’Italia scissa tra Impero e Francia, essa che unita aveva imperato sull’universo, l’indignazione di tanta licenza e corruzione dei costumi nel secolo degl’ipocriti e delle cortigiane, un disprezzo delle fantasticherie teologiche, scolastiche e astrologiche, un sentimento del reale e dell’umano. Ma sono velleità, immagini confuse e volubili, che si affacciano appena e non hanno presa sul suo spirito vagabondo e sulla sua capricciosa immaginazione.

Note

  1. Ecco un esempio. Fracasso di un salto passa il fiume dell’inferno, alla barba di Caronte.

    Tunc Fracassus ibi largum saltare canalem
    Preaparat, et spudans manibus se retro retirat,
    Discorsamque piat vel tres vel quinque cavezzas,
    Inde movens passus longones, inde galoppans,
    Inde cito corsum, de ripa saltat in altram.
    Quo saltu intornum graviter campagna tremavit,
    Terribilemque omnes balzum stupuere barones.
    Baldus mandat ei, tota cum voce cridando,
    Ut voiat barbam nautae streppare pilatim,
    Rumpere cervellum ac totos corporis ossos.