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zogne poetiche, Merlino te li pianta, e si ferma colà come nella sua patria. Questa patria de’ poeti, de’ cantanti, degli astrologi, de’ negromanti, di tutti quelli,

Qui fingunt, cantant, dovinant somnia genti,
Compluere libros follis vanisque novellis:

è una conchiglia, o piuttosto una immensa zucca, secca e vuota, mangiabilis, quando tenerina fuit, dove tremila barbieri strappano i denti a’ condannati. E Merlino esclama:

Zucca mihi patria est, opus est hic perdere dentes,
Tot quot in immenso posuit mendacia libro.

E tronca il racconto, e dice addio a Baldo:

Balde, vale studio, alterius te denique lasso.

Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte, e di sè stesso, che ha composto un vero mostro oraziano, fuori di tutte le regole, perduti i remi, mescolati l’austro co’ fiori e i cignali col mare:

Tange peroptatum, navis stracchissima, portum:
Tange, quod amisi longinqua per aequora remos.
Heu heu, quid volui misero mihi perditus austrum
Floribus, et liquidis immisi fontibus apros.

È il comico portato all’estremo dell’umore. La caricatura del Boccaccio, la buffoneria del Pulci, l’ironia dell’Ariosto è qui l’allegro e capriccioso umore di una negazione universale e scoperta nella forma più cinica.

In questa negazione universale la satira penetra dappertutto, e attinge la società, come il medio evo l’aveva costituita, in tutte le sue forme, religiose, politiche, morali, intellettuali. La scolastica è messa alla berlina; san Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionarii accanto agli astrologi e a’ negromanti. Megera fa un