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sua forma più cinica. Lì dentro ci è la società italiana colta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte assisa sulle rovine del medio evo, beffarda e vuota.

La lingua stessa è una parodia del latino e dell’italiano, che si beffano a vicenda. Come i maccheroni vogliono essere ben condito di cacio e di butirro, così la lingua maccaronica vuol essere ben mescolata. Spesso vi apparisce per terzo anche il dialetto locale, e si fa un intingolo saporitissimo. La lingua è in sè stessa comica, perchè quel grave latino epico che intoppa tutt’a un tratto in una parola italiana stranamente latinizzata, e talora tolta dal vernacolo, produce il riso. La parodia che è nelle cose scende nella lingua, la quale sembra un eroe con la maschera di Pulcinella, un Virgilio carnascialesco. Alione astigiano e qualche altro avevano già dato esempio di questa lingua recata a perfezione da Merlino. Egli ne sa tutt’i segreti, e la maneggia con un’audacia da padrone, con un tale sentimento di armonia, che par l’abbia già bella e formata nell’orecchio. Come saggio, cito alcuni brani della sua invocazione alla Musa maccaronica:

Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat,
O macaronaeam Musae quae funditis artem.
Non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictet;
Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
Imboccare suum veniant macarone poetam.

Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste muse plebee:

Credite quod giuro; neque solam dire bosiam
Possem per quantos abscondit terra tesoros.
Illic ad bassum currunt cava flumina brodae,
Quae lacum suppae generant, pelagumque guacetti.
Hic de materia tortarum mille videntur