Storia dell'arte in Sardegna dal XI al XIV secolo/Capitolo III.

CAPITOLO III.

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CAPITOLO III.

CHIESA DI S. SATURNINO, SCULTURE PREROMANICHE NEL DUOMO D'ORISTANO.


Colla Chiesa di S. Saturnino chiudesi nobilmente il ciclo fino ora conosciuto delle costruzioni preromaniche.

Questa chiesa, ora sotto l'invocazione dei Santi Cosmo e Damiano, per gli elementi architettonici anteriori al mille e per le vicende sue che si collegano intimamente alla storia ed ai primi avvenimenti del Giudicato Cagliaritano merita che sia ampiamente studiata sotto i due aspetti, storico ed artistico.

Si volle che essa originariamente fosse un tempio dedicato a Bacco, consacrato fin dal tempo di Costantino in basilica cristiana: ma quest'opinione, che trae origine da un'iscrizione apocrifa, non ha alcun fondamento storico. Questa trovasi inserita nelle opere di quegli scrittori seicentisti, che ritennero la storia quasi fine ad una sbrigliata fantasia, ed ha la seguente dizione: GLORIOSISSIMA DIVI SATURNINI BASILICA IMPERATORIS COSTANTINI IUSSU, ET SUMPTIBUS CALARI AMPLISSIME EXTRUCTA, UBI IPSIBES SANCTI ET ALTRORUM SANCTORUM CORPORA REQUIESCUNT. [p. 40 modifica]A commento di questa lapide il Bonfant nella sua opera Triumpho de lo Santos del Regno de Cerdena - Caller 1665 aggiunge che Costantino edificò en esta Ciudad de Caller Basilica Costantiniana, dedicada a S. Saturnino y a San Clemente: Desta hace mencion Nombriccio Fortunato, Surio Baronio, Francisco Fara y Juan Area, y confirmanlo los vestigios, que de tam insigne basilica nos ha dexado el tiempo, y la parte que ha dexado in piè.

Se è vero che di questa chiesa parlarono gli scrittori citati dal Bonfant, non è altrettanto esatto che le vestigia, che esistevano nel XVII secolo e che salvo lievi alterazioni sono quelle d'oggi, confermino quant'è asserito nell'iscrizione, poichè le forme architettoniche della basilica con gli elementi stilistici, che esamineremo in appresso, attestano un'origine di molto posteriore all'epoca Costantiniana.

L'iscrizione surriferita si collega a quel movimento religioso per la scoperta e per l'invenzione di corpi santi, che, iniziato nel medioevo, ebbe il periodo più acuto nel seicento e novera i suoi apostoli e poeti nell'Esquirro, nel Bonfant e nel Desquivel. movimento che diede origine alle più inverosimili falsità e ad una collettiva suggestione, per cui s'intravidero in scene pagane d'antiche sculture, iconografie di santi, ed agli avanzi di cittadini romani vennero attribuiti caratteri di santità e di martirio.

Non è il caso — nè varrebbe l'opera — di discutere più ampiamente l'autenticità di quest'iscrizione, che anche ad una superficiale disamina si manifesta apocrifa e come tale venne ritenuta dagli scrittori sardi anche i più ortodossi in materia di fede; nè su di essa avrei insistito se per un fenomeno, che trae origine da diverse circostanze e fra l'altro dal sistema critico non rigorosamente scientifico ed esatto dei nostri scrittori, le fandonie seicentiste non si fossero infiltrate nella col [p. 41 modifica]tura in modo da costituire elementi accettati ed indiscussi. Così molti cultori della nostra storia e fra essi alcuni dei migliori, accettarono la versione seicentista. compiacendosi indicare la modesta chiesa bizantina col nome più sonante di Basilica Costantiniana.

Sgombrato il campo da questo cumulo di evidenti falsità esaminiano un'antichissima memoria, che si riferisce alla Chiesa di San Saturnino. Gli annali della Chiesa Sarda ci narrano che per ordine di Trasamondo vennero ai primi del VI secolo, sotto il pontificato di Simmaco, esiliati in Cagliari i vescovi africani che non vollero piegarsi all'esigenze del goto monarca. Tra essi erano l'insigne vescovo Fulgenzio ed il presule d'Ippona, quest'ultimo conducente seco le sacre spoglie di S. Agostino, tolte dal loro venerato santuario per salvarle dalle vandaliche profanazioni ¹. Durante il suo esiglio S. Fulgenzio fondò in Cagliari un monastero a somiglianza di quello di Ruspa in prossimità alla basilica di S. Saturnino in un terreno concedutogli dal vescovo Primasio.

Questa fondazione del monastero in prossimità alla Chiesa di S. Saturnino è riferita dai più eminenti scrittori ecclesiastici, fra i quali il Surio, il Baronio, il Mombrizio e dei nostri il Fara, l'Arca, il Dimas Serpi, il Mattei, il Gazano, il Manno, il Martini e tanti altri minori.

Il Surio, il Mombrizio ed il Baronio dedussero queste notizie dalla storia di S. Fulgenzio, che si dice scritta da un suo discepolo e seguace, il diacono Ferrando, e che è riportata per intero negli Acta Sanctorum del Bollandi. Il passo della cronaca, che riguarda la nostra Chiesa è il seguente: Nolvit plane iam B. Fulgentius in priori domo multis patribus [p. 42 modifica]comitantibus diutius habitare sed iuxta Basilicam Sancti Martyris Saturnini procul a strepitu civitatis vacantem reperiens locum, Brumasio Calaritanae civitatis Antistite venerabilis prius, sicut decuit, postulato, novum sumptibus propriis Monasterium fabricavit1.

Quest'indicazione della Basilica di S. Saturnino, se dovesse attribuirsi al discepolo di S. Fulgenzio, avrebbe un valore grandissimo, giacchè accerterebbe l'esistenza di detta chiesa verso la metà del VI secolo; ma la vita di S. Fulgenzio, benchè costituisca un documento notevole ed autorevole non tanto per le vicende del santo quanto per alcuni particolari riguardanti Teodorico, dovette a mio parere esser stata compilata con forme e con intendimenti più moderni su di un'ossatura storica, molto HI Sezione longitudinale della Chiesa sotterranea di S. Salvatore. più tardi, forse nel XV secolo colla cooperazione di qualche ecclesiastico di Cagliari.

Le più antiche memorie, storicamente insospettabili, sulla Chiesa di S. Saturnino, riguardano i rapporti che colla nostra isola ebbero i Benedettini di S. Vittore di Marsiglia. Esse appaiono nelle prime carte medioevali, con le quali si apre il periodo storicamente accertato dai giudici Sardi.

E questi rapporti, che a noi appaiono in frequenti donazioni di giudici, sono degni del massimo rilievo, giacchè non si possono spiegare se non si ammette ch'essi siansi svolti sulla base di larghe influenze antecedenti fra la Sardegna ed i paesi costieri della Francia Meridionale, donde irradiava l'azione del Monastero di S. Vittore di Marsiglia. [p. 43 modifica]Un riflesso di queste relazioni commerciali ed anche politiche si ha nelle analogie fra il diritto ispano-franco e quello sardo del medio evo, analogie che vennero messe in evidenza dal Prof. Brandileone di Parma2. Gli atti procedurali, per esempio, seguiti nei giudizi dei nostri giudicati, che sono così estesamente e chiaramente riferiti nel Condaghe di S. Pietro di Silchi, illustrato dal Bonazzi3, corrispondono in molte parti al processo franco-visigoto. L'influenza dei giudici sardi negli affari ecclesiastici, che risulta lampante da moltissimi documenti del XI e XII secolo, trova corrispondenza nello stato di cose prodottosi in Francia dopo la dissoluzione dell'impero carolingio.

Quest'influsso dei paesi occidentali, che s'intravede nella nebbia, onde si avvolge l'alto medio evo in Sardegna, spiega la presenza e la preminenza nell'isola dei monaci di San Vittore, giacchè i centri monastici c la loro influenza nel medio evo sono stati sempre preceduti da un largo movimento di scambi, che avviano e fecondano i rapporti sociali fra le regioni cosi raccostate.

La prima carta vittorina, in cui è cenno della Chiesa di S. Saturnino, è un diploma del 1089 di Costantino. col quale si confermano le donazioni già state fatte da suo padre e dona a S. Vittore « ecclesiam sancti Saturni cum suis appenditiis in potestate et dominio, ut monasterium ibi secundum Deum construant et habitantes secundum regulam Sancti Benedicti vivant, et morentur bonos ad honorem Dei ecc. ecc..... ».

Le carte del monastero di S. Vittore, in parte pubblicate dal Tola e che trovansi complete nel Cartolarium Monasteri Sancti Victoris Massiliensis pubblicato dal Guerard, lumeggiano la potenza dei monaci vittorini nell'isola nel XI e XII secolo e le lotte da essi sostenute contro i [p. 44 modifica]vescovi delle diocesi sarde, che hanno maggiore importanza di quel che non possano avere le solite beghe di campanile, giacchè forse rappresentano gli ultimi sprazzi dell'influenza venuta d'oltre mare.

Dell'invadenza di questi monaci sono indice le chiese, poste alla dipendenza del priorato di S. Saturnino e cioè le chiese di S. Lucifero de Pau. di S. Maria ad Vincas, di S. Antioco de Sulcis, di S. Maria. di S. Elisio de Nora, di S. Pietro de Piscatore, di S. Vincenzo di Sigurra, di S. Barbara de acqua frigida, di S. Ambrogio, di S. Maria de Paradiso, di S. Maria de Sabolla, di S. Pietro de Sena, di S. Maria Giyp, di S. Maria de Arcu, di S. Elia del Monte, di S. Maria de Portu Salis, la maggior parte posti nei dintorni di Cagliari e nel Sulcis.

Questi rapporti così estesi, ed il fatto che il priorato dipendente da S. Vittore s'intitolava a S. Saturnino, fanno dubitare che la chiesa fosse sotto l'invocazione non del martire Cagliaritano, patrono della diocesi, ma di S. Saturnino, martire marsigliese venerato nel mezzodì della Francia, dove si trovano moltissime chiese sotto quest'invocazione e dove ancor oggi sono quindici comuni denominati Saint-Saturnin.

Posto ciò e tenuto conto di quanto abbiamo esposto sui rapporti, che dovettero intercedere fra la Francia Meridionale e l'isola nostra, si presenta spontanea l'ipotesi se il nome di S. Saturnino non sia che un'eco dei pii sentimenti di gente, ch'ebbe influenza sulle vicende della nostra isola.

Fra i documenti di S. Vittore di Marsiglia havvene uno, che ci sarà di grande giovamento nello studio architettonico della Chiesa, perchè ne attesta la riconsacrazione nel 1° Aprile 1119 coll'intervento del Cardinale Pietro, legato pontificio, del giudice e di tre presuli: quod ego Willelmus gratia Dei Kalaritanus archiepiscopus, inspirante summi et aeterni regis providentia, post innumera variaque certamina, tandem sopitis omnibus litibus, omnique suppresso molimine, ut Deus omnipotens misereri dignetur, et in die suprema meritis beatorum Victoris et Saturnini illesus existam ab omni impetu malo, instante et agente domno Petro apostolicae sedis cardinali atque legato, tertia die post Pascha, videlicet Kalendis aprilis, precibus etiam Berengarii prioris, cuius fides et devotio erga nos multa fuisse ab [p. 45 modifica]omnibus verissime scitur, omniumque fratrum sub eo degentium, quorum manui societatique corpus meum, animamque commisi, rogatum etiam judicis Mariani, atque omnium fratrum ipsius, conservaverim ecclesiam S. Saturnini, in qua videlicet ecclesia, ut in futuro firmum testimonium fial; altare maius ipsius ecclesiae in honore beatorum apostolorum Petri et Pauli sanctique Victoris martyris monasterii Massiliensis propria manu consecravi 4.

La tracotanza dei monaci vittorini del priorato di S. Saturnino, che le carte medioevali lumeggiano tanto chiaramente, se con diverse vicende potè svolgersi sotto i primi giudici, dovette cedere di fronte alla Chiesa di Pisa, quando il giudicato di Cagliari venne prima sotto la influenza e poscia sotto la dominazione dell'ardita repubblica del Tirreno.

I monaci di S. Vittore dovettero lasciare l'isola prima del XIV secolo, non trovandosi più menzione di questi irrequieti religiosi nelle carte sarde posteriori alla seconda metà del XIII secolo. Abbandonato il convento ed aggregato il titolo di priore all'arcivescovo di Cagliari, la Chiesa dovette deperire per ridursi allo stato in cui si trova presentemente.

Premesse queste circostanze storiche, che ci permetteranno d'integrare le altre, che possonsi desumere dalle forme costruttive, procediamo all'esame di queste.

Da una porta aperta in un muro eseguito con pie trame informe si accede ad una corte scoperta che precede il vero ingresso della Chiesa.

Questa corte non è originaria e confrontando fra loro le mezze colonne incastrate nei muri di recinzione, è facile desumere che originariamente, essa, suddivisa in tre navate, faceva parte della Chiesa propriamente detta.

Sulle mezze colonne dei muri della navata laterale poggiavano arcate che all'altra estremità impostavano sopra i pulvini della colonna della navata centrale.

Queste mezze colonne sono eseguite con rocchi di calcare ed hanno [p. 46 modifica]capitelli rozzamente lavorati con tecnica e con arte deficente. Le basi in marmo invece sono atticamente sagomate e provengono da ruderi romani.

La porta d'ingresso all'attuale Chiesa è aperta in un muro, che chiude una delle quattro grandi arcate circolari sostenenti la cupola a bacino. Questa gravita sul tamburo ed il raccordo di questo a sezione quadrata colla volta semisferica è ottenuto mediante quattro peducci formati da due lunette intersecantisi secondo le diagonali. Questo raccordo è interessantissimo dal punto di vista costruttivo, essendo qualche cosa di più evoluto e di progredito di quel che non si abbia nelle costruzioni anteriori al mille. Più tardi ricomparirà con frequenza in quelle cupole gotiche gettate in molte chiese di Sardegna sotto l'influenza delle forme architettoniche aragonesi.

Che questi peducci sieno anteriori al mille lo mostrano le decora- zioni delle belle mensole in marino, su cui poggiano gli archetti: vasi ansati, stelle raggianti, croci greche incluse in cerchi ed altri simboli ed ornamentazioni di puro carattere preromanico.

La cupola, come si disse, è a bacino ed è eseguita con cantoni di un calcare marmoso, tolto dalle cave di Cagliari. In essa è incisa la seguente iscrizione: DEUS QUI INCOASTI PERFICE USQUE IN FINEM: preceduta da una croce e terminante con una colomba.

La volta poggia sopra quattro massicci pilastri con gli angoli tagliati in modo da poter ciascuno contenere una colonna. Le quattro colonne sono indubbiamente tolte dalle rovine dell'antica Kalaris, salvo un capitello in cui l'artefice medioevale volle imitare gli altri tre classici.

Le due arcate laterali corrispondenti al transept sono ancor esse chiuse, mentre quella di fronte imbocca ad una navata coperta con volta a botte e terminata dall'abside circolare.

Lateralmente a questa navata se ne svolgono due altre più basse con volte a crociera poggianti per mezzo di archi su mezze colonne eguali a quelle che riscontrammo nella corte che precede la Chiesa.

La volta a botte è indubbiamente originaria, perchè si raccorda colle finestre a tutta cerchio ed a strombatura, che sono nella sopraelevazione dei muri della navata centrale. [p. 47 modifica]Le pareti esterne, rivestite con grossi cantoni calcarei tolti da rovine romane sono semplicissime, ed in esse, unica decorazione, sono gli archetti romanici poggianti su mensoline.

Frammenti architettonici del basso impero sono qua e là usati nel paramento calcareo. In fondo ad una delle navate laterali, addossato al muro, v'ha un rozzo sarcofago in cui in belle lettere latine è incisa la seguente iscrizione: IN HOC TUMULO REQUIESCIT S. M. BONIFATIUS EPISCOPUS QUI VIXIT ANNIS P. M. LX ET SEDIT CATHEDRAM ANNIS VIL M. IIII QUIEVIT IN PACE SUB D. XVI. KAL. SEPTEMBRIS.

Abbiamo nella Chiesa di S. Saturnino un complesso di forme architettoniche, di memorie storiche ed epigrafiche. le quali si presentano le une discordanti dalle altre. Così non è possibile concepire che lo stesso artefice il quale scalpellò le graziose mensoline marmoree dei peducci, ornandole con vaghi simboli, abbia sagomato i rozzi capitelli delle navate laterali e che il costruttore che gettò la volta a botte della navata centrale abbia poi eseguito con altra tecnica le volte a crociera delle navate laterali. Ma se noi mettiamo in correlazione questi elementi costruttivi e stilistici coi diplomi medioevali e colle memorie storiche, che abbiamo esposte succintamente, la storia e le vicende del monumento balzano su vive e parlanti.

La Chiesa venne eretta sopra catacombe cimiteriali e questo spiega le numerose iscrizioni cristiane, fantasticamente interpretate dagli storici [p. 48 modifica]del seicento, messe in dubbio dal Mommsen e ritenute autentiche da altri eminenti storici; da queste catacombe, alle quali si può pervenire dalla cripta della chiesa, si tolse il sarcofago di Bonifacio. Appartenevano all'antica chiesa la parte centrale coi quattro massicci pilastri sostenenti la cupola e la navata centrale coperta da volte a botte. Se a ciascun'arcata aggiungiamo una navata eguale a quella che tutt'ora esiste, abbiamo integra la chiesa a forma di croce greca con cupola centrale e con forme che derivano dalla tecnica e dall'arte bizantina.

La cupola dovea esser originariamente ornata di pitture, il che spiega la singolare disposizione delle lettere ΔSQ VII NCOAS TIP ERT ICE VSQ VEIN FINE, dinotante che l'iscrizione fu probabilmente incavata negli spazi rimasti tra i piedi ed i panneggiamenti delle figure. Che la navata centrale sia coeva alla cupola è dimostrato dal concatenamento costruttivo dell'una coll'altra e che dovessero esistere le altre braccia lo attestano gli attacchi tutt'ora evidenti. D'altra parte è da ri[p. 49 modifica]levare che raramente — mai in Sardegna per quanto mi consta — gli architetti romanici usarono le volte a botte, che sono frequenti nelle costruzioni anteriori al mille, mentre si compiacquero di volte a crociera poggianti su mensoline e sui pulvini delle colonne o dei pilastri.

Le navate laterali colle rozze colonne e colle volte a crociera e colla decorazione esterna ad archetti sono aggiunte romaniche, indubbiamente le stesse per cui si dovette chiudere al culto la Chiesa e riconsacrarla con grande solennità nel 1119.

Ruinate per intero dopo l'abbandono dei monaci vittorini le due braccia laterali e parzialmente la navata anteriore: ridotta questa a corte: murate le tre arcate del transept: aggiunta qualche stanza ed intonacate le pareti, la Chiesa perdette il primitivo fascino e solo dopo sforzi mentali ricostruttivi è possibile rievocare le antiche forme, che per la tecnica, per le simboliche decorazioni e per la grafia dell'iscrizione si possono assegnare al IX od al X secolo. Le chiese bizantine, passate in rassegna, se attestano uno sviluppo intensivo delle forme orientali non depongono certo della loro imponenza, giacchè più che modeste sono le dimensioni e pochi segni di ricchezza e di decorazioni esse presentano. Questa constatazione non deve indurci [p. 50 modifica]ad affrettate conclusioni: dieci anni or sono non si accennava ad alcuna forma bizantina, ed ora che avemmo modo di esporre un non indifferente gruppo di monumenti e di materiali greci o meglio inspirati allo stile bizantino, non è improbabile che, dando maggiore estensione in Sardegna agli studi artistici, si venga a metter in luce sotto stucchi ed intonaci seicentisti molte altre forme preromaniche.

La durata della dominazione e della civiltà bizantina nell'alto medio evo, se valse a preservare l'isola dalle influenze barbariche ed occidentali, dovette estrinsecarsi con più imponenti manifestazioni di quel che non sieno gli edifici esaminati: esse dovettero trasformarsi, come avviene di tutti quelli edifici, sui quali sono rivolte le cure e le attenzioni delle popolazioni, ed in questa trasformazione perdettero ogni traccia dell'antica struttura. E oggi possibile immaginare nelle Chiese di San Antioco di Sulcis e di San Pietro di Assemini forme bizantine? Eppure tutto induce a ritenere che queste esistessero e ne sono prova alcuni motivi costruttivi nella prima e le iscrizioni greche nell'una e nell'altra.

I frammenti decorativi di Donori hanno tali caratteri e tali dimensioni da ritenerli appartenenti ad ana chiesa di ampie dimensioni, come non si possono certo attribuire ad una chiesa più che modesta qual'è quella di S. Giovanni di Sinis, i armi, ch'ebbi la ventura di rinvenire in un fondaco della cattedrale d'Oristano e che descrissi nell'Arte di Adolfo Venturi (Anno VI. Fase. 11V).

Sono due bassorilievi del IX secolo. che posteriormente, nel XIV [p. 51 modifica]secolo, altri artefici usarono per scolpirvi forme iconografiche con arte gotica.

In uno è rappresentato Daniele nella fossa dei leoni. La storia di questo profeta, che per aver ucciso il drago adorato dai Babilonesi fu precipitato nella fossa delle fiere, dove restò incolume sei giorni, è raccontata nei libri santi e costituì un soggetto biblico caro agli artisti delle catacombe e delle prime sculture cristiane.

Il profeta in queste rappresentazioni, ordinariamente nudo come nel sarcofago di Giunio Basso, leva le mani al cielo in attitudine di preghiera, avendo a lato due leoni, benchè i testi ne menzionino sette.

I cristiani, riproducendo questa scena, ripromettevansi di presentare in simbolica rappresentazione la risurrezione gloriosa promessa ai cristiani perseguitati e perseveranti nella loro fede.

Nel quinto secolo il profeta non è più nudo, benchè si continui la stessa forma iconografica, e fu solo verso il secolo VII che la scena si amplia. attenendosi più rigorosamente ai testi sacri.

Nella nostra scultura Daniele con la testa nimbata è assiso in trono, stendendo una mano. ad un grappolo d'uva, mentre i sette leoni, tre da una parte, quattro dall'altra, sono accovacciati ai piedi del profeta. Nello sfondo la figura del re Dario il Medo (Ciassarre) circondato da armati completa la scena biblica.

L'aver Daniele la testa nimbata ci dà modo d'appurare che la scultura è posteriore al VI secolo, poichè quest' attributo di santità presso i cristiani e di gloria presso i romani, impiegato come segno iconografico nelle immagini di Gesù al principio del IV secolo fu esteso alla Madonna ed agli angeli nel V secolo, agli evangelisti, agli apostoli ed ai personaggi rivestiti d'autorità sovrana nel susseguente secolo.

Il grappolo d'uva, nascente forse da qualche vaso ansato, è impie[p. 52 modifica]gato come simbolo della terra promessa, ricordando i bei frutti che gl'inviati di Mosè portarono dal paese di Chanan, la terra, che per i cristiani simboleggiava il cielo e Gesù, secondo le parole che Giovanni mette in bocca al Salvatore: Io sono la vera vigna e mio padre il vignaiolo, aggiungendo poco dopo, Io sono la vigna e voi (gli apostoli) ne siete i rami (S. Giovanni XV).

Nell'altro bassorilievo due leoni hanno fra le zanne due cerbiatti, la Chiesa che annienta l'eresia, simbolo, che dopo il mille vedremo esplicarsi in quei poderosi leoni collocati alle porte delle cattedrali od a sostegno dei pulpiti medioevali.

Una bella fascia ornamentale, ricca ed in pari tempo elegantemente geniale, contorna la rappresentazione simbolica.

In questi due bassorilievi la decadenza scultoria è portata al più alto grado; s'incise il marmo invece di scolpirlo, si solcò la superficie invece di spezzarla in moltiplici piani. La figura di Daniele, rigido, stecchito fra i detti leoni disposti con uniformità bizantina, e quelle degli altri personaggi secondari. non potrebbero esser maggiormente scorrette di forma e di disegno. Esse non si staccano dal vivo dei piani con rotondità e rilievi, ma si stendono piatte, quasi che il marmo, invece d'esser scalpellato, sia lavorato, come il legno con la pialla.

La valentia dell'artefice non trovò altro sfogo se non nella fascia ornamentale, la quale è resa con vigore e preannunzia quella scultura decorativa dalle masse rilevate, dai fiori e dalle foglie distribuite, con vaghissimo senso d'arte, la quale due secoli appresso si svolse con fino magistero e con mirabile effetto scultorio.

Questi due bassorilievi, qualunque sia la destinazione avuta, hanno tali dimensioni da non poterli concepire in una chiesa di ristrette dimensioni. [p. 53 modifica]Alcuni scrittori, basandosi su ipotetiche dominazioni saracene, fanno cenno di forme costruttive musulmane: niente di più inesatto: attribuironsi ad un'arte, che pur con tanta ricchezza di forme si svolse in Sicilia, costruzioni romaniche o bizantine.

L'azione saracena esplicossi nell'isola nostra in scorrerie, in devastazioni, senza alcuna stabile dominazione, a cui sempre s'opposero i rudi e fieri isolani. Un annalista arabo colla concisione propria degli storici musulmani scrive — e qui riporto integralmente la traduzione fattane dall'Amari — che i Saraceni nel 821 movendo d'Africa fecero una scorreria nella Sardegna. Predarono, dettero busse agli infedeli e ne ricevettero ed indi tornarono in Africa. E questo ritornello di busse date, ma anche ricevute, si ripete spesso nelle loro storie. L'annalista Edrisi dice dei sardi: sono gente di proposito che non lascia mai l'arme.

Le cronache arabe lasciarono memoria di imprese piratiche effettuate contro la Sardegna, ma non di una vera e propria occupazione, il che è confermato anche dal fatto che noi non abbiamo alcun monumento, che sia manifestazione della loro civiltà e del loro sentire, mentre nella vicina isola di Sicilia la dominazione saracena diede caratteri e forme artisticamente e storicamente rilevanti.

  1. Ioannes Bollandus, Acta Sanctorum, Inuario I, pag. 32 45.
  2. Fr. Brandileone, Note sull'origine di alcune istituzioni giuridiche in Sardegna durante il Medio Ero in Archivio Storico Italiano, Serie V, Tomo XXX.
  3. Bonazza, Cond. di S. Pietro di Silchi, Cagliari-Sassari, Tp. Dessy.
  4. Tola, Cod. Dipl. Sardo, Vol. 1, pag. 196.