Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VI/Capo V
Questo testo è completo. |
◄ | Libro VI - Capo IV | Libro VII | ► |
CAPO QUINTO.
Partenza del re. Ultimi tempi del suo regno.
LII. Avveratosi ciò che la fama da parecchi giorni divolgava, il re partì; e i lasciati provvedimenti indicavano che non tornasse. Indi ad un mese, da Bajona bandì per editto esser chiamato da’ disegni di Dio al trono della Spagna e delle Indie; lasciar noi dolente; sembrargli di aver fatto poco se mirava ai bisogni dello stato, molto se al suo zelo, alle sue cure, alle fatiche di regno; concedere a documento di amore un politico statuto raffermativo de’ beni operati per suo mezzo. operatore di maggiori beni.
Il quale statuto componevasi di undici capi. Il 1°. della religione dello stato, confermava la cattolica apostolica romana. Il 2°. della corona, il 3°. della reggenza, il 4°. dalla famiglia reale, provvedevano a’ casi di morte del re, alla discendenza, alla minorità; era parte del quarto capo la dote della corona; e fu visto che al re Giuseppe e alla poca sua famiglia erano dati ogni anno, fra pagamenti del tesoro pubblico e demanio regio, due milioni o poco meno di ducati, ottava parte della finanza: modestia forse per antico re, esorbitanza di nuovo, scandalo e danno nelle presenti strettezze. Il 5°. capo, degli uffiziali della corona, tanti ne stabiliva quanti erano nella corte di Napoleone imitatrice in largo della più antica de’ re di Francia. Il 6°. del ministero, il 7°. del consiglio di stato, rendevano costituzionali que’ due già formati collegi.
L’8°. capo, del parlamento, statuiva un’ adunanza di cento membri, divisa in cinque sedili, del clero, della nobiltà, de’ possidenti, de dotti, de’ commercianti: ottanta de’ cento scegliersi dal re; i venti possidenti, a tempi e forme prescritte, da collegi elettorali nominati dal re: gli ecclesiastici, i nobili, i dotti essere a vita; i possidenti e commercianti variare in ogni sessione: il parlamento adunarsi una volta almeno in tre anni; e il re, che il convocava, prorogarlo a piacimento e discioglierlo: trattare delle sole materie date ad esame dagli oratori del governo; nulla da sè proporre; ciò che voce moderna chiama iniziativa delle leggi, non essere che regia: le sessioni segrete, i voti e le deliberazioni in verun modo palesate; la pubblicazione surrettizia, punirsi qual ribellione.
Il 9°. capo, dell’ordine giudiziario, il 10°. dell’amministrazione provinciale assodavano costituzionalmente le già pubblicate leggi sopra quelle materie. L’11°. (ch’ era l’ultimo), disposizioni generali, diffiniva la cittadinanza, i suoi diritti, il modo di concederla a’ forestieri, confermava l’abolizione della feudalità, garentiva il debito pubblico, manteneva le vendite de’ beni dello stato, rimetteva ad altro tempo le provvidenze per la seconda Sicilia. Non faceva motto di popolo, di sovranità; di libertà civile. di personal sicurezza, che pur sono le pompe, quasi che vane, delle moderne costituzioni.
Quella legge, detta statuto di Bajona perchè avea data di Bajona del 20 di giugno del 1808, era garentita al regno delle due Sicilie dall’imperatore Napoleone, che allora vantava liberalità verso i popoli per meglio ingannare la Spagna; legge poco intesa nel regno e mal gradita, rimproverando ai reggitori lo sfoggiar nomi di libertà e di pubblico bene fra le catene e le miserie di quei tempi. Ed invero costituzioni, convenevoli forse alla civiltà del diciassettesimo secolo, sconvenivano al decimonono dopo che tanto e troppo erasi parlato di libertà, di eguaglianza, di ragioni de’ popoli. Ma frattanto fu errore non senno, e sdegno non consiglio ciò che ritenne i Napoletani a non curarne l’adempimento; perocchè cento notabili si adunavano in parlamento quando, estimavasi virtù parlare a grado del popolo, sotto re nuovi, fra timori di regno. L’indole delle numerose congreghe, qualunque sieno i congregati, è sempre quella del tempo; e lo attestano i secoli della feudalità, delle libertà municipali, del papato, delle crociate; tal che i Napoletani, meglio conoscendo la loro età, avrebbero trovato nella qual si fosse costituzione di Bajona un ritegno al dispotismo.
LII. In luglio di quell’anno 1808 partì verso Francia la famiglia del re Giuseppe, la moglie e due figliuoli, tre mesi avanti senza pompa regia e quasi senza grido giunte in Napoli. Ma non così modesta ne fu la partenza, che, appena divolgata, andarono in corte a fare augurii di felicità i grandi uffiziali della corona, i ministri, i consiglieri di stato, la municipalità, i generali, i magistrati, le società, le accademie: era la regina di Spagna che partiva. Nel giorno della mossa le milizie francesi e napoletane si schierarono a mostra nella strada di Toledo; la regina uscì del palazzo, il maresciallo dell’impero Jourdan precedeva a cavallo la carrozza regia; gli ambasciatori de’ potentati stranieri e numeroso corteggio la seguivano; l’immenso popolo spettatore accresceva magnificenza allo spettacolo; e benchè fosse a calca raccolto per curioso talento, appariva riverenza pubblica. A molti cavalieri e dame si diè commiato da Aversa; ad altri da Capua; i ministri, i consiglieri di stato, altri segnalati personaggi furono congedati alla frontiera del regno; tre dame, la duchessa di Cassano, la marchesa del Gallo, la principessa Doria Avellino ed un cavaliere, il principe d’Angri, accompagnarono la regina in tutto il viaggio e ne tornarono ricchi di doni.
Queste pompe richiamavano alla memoria le sorti più spesso infelici delle passate regine di Napoli. La prima Costanza, stirpe de’ Normanni, moglie dell’imperatore Arrigo, tradita in Salerno e fra catene mandata in Sicilia al re Tancredi suo nemico. Indi a poco Sibilla tradita anch’essa, assediata e presa in piccolo castello, condotta prigioniera in Alemagna col suo tenero e sventurato Guglielmo ed altre due misere figliuole. Elena moglie di Manfredi ansia, dopo la perduta Battaglia, delle sorti lungamente ignote del tradito re; infelicissima quando il cadavere fu trovato sozzo e straziato da’ nemici e da’ sudditi; assediata in Lucera; cattiva di Carlo nel castello dell’Ovo, ed ivi per ventura morta prima che vedesse le miserie estreme de’ tre suoi figli. Sancia vedova di Roberto, oppressa in cento modi dalla fortunata Giovanna sua nipote, costretta a chiudersi e morire nel convento di Santa Croce. Questa Giovanna, poco appresso, svergognata, avvilita, assediata due volte ne’ suoi stati da’ suoi soggetti, pubblicamente adultera, pubblicamente giudicata, tre volte vedova, scacciata dal trono, fuggiasca, rinchiusa, strangolata ed esposta morta a pubblico ludibrio. Dopo di lei Margherita vedova del re Carlo Durazzo, ucciso per man di schiavo in Ungheria, ed ella rifuggita col figlio confinata in Gaeta. Indi la misera Costanza di Chiaromonte, voluta in moglie per le sue ricchezze da Ladislao, cagione a lui di ristabilirsi in trono, e subitamente ripudiata e ridotta a private povere sorti, in presenza di fortunata rivale e di suocera superbissima. La seconda Giovanna che a Giacomo dà mano e trono e nè ottiene in mercede guerra domestica e prigionia; liberata per tumulto di popolo, è costretta ad assediare il marito, farlo prigione, scacciarlo dal regno; senza prole e senza speme di averne adotta Alfonso, che per gelosia d’impero le fa guerra; adotta Luigi, e (sventurata ne’ suoi benefizii) lo soffre ingrato e nemico; vede il capo mozzo al suo caro Pandolfello e ’l cadavere strascinato; sente tradito ed ucciso nella reggia il favorito Sergianni; ella stessa muore addolorata. Isabella moglie di Renato fugge co’ figliuoli dal regno; raggiunta dal marito pur fuggitivo, sente sicuro e felice in trono ’l inimico Alfonso. Altra Isabella moglie di Federigo di Aragona profuga prigiona in Francia; ricoverata in piccolo convento di Ferrara, e colà mantenuta poveramente per carità di alcuni frati. Io rammento nella piccola rocca della sassosa Ischia, travagliate, avvilite, prigioniere, due regine, e tutti i resti della superba progenie aragonese. E vedo Carolina d’Austria, a’ di nostri, fuggitiva tre volte dal regno, morta in esilio, maledetta.
E tali donne, delle quali ho adombrato i tristi casi, erano di stirpe regia e potente; mentre l’avventurosa Giulia Clary moglie del re Giuseppe, cagione di questi ricordi, era nata in Marsiglia di casa mercatante, onesta ma oscura: la fortuna aspettava anco lei che dopo felicità breve cadde dal trono, ma serbandosi modesta ed innocente. I quali tutti e giuochi e ludibrii della sorte sarebbero insegnamenti alla umana superbia, se a superbe nature giovassero gli esempii.
LIV. Ai 2 di luglio si pubblicò l’editto di Giuseppe annunziatore del suo passaggio ad altro impero, ch’egli chiamava peso, e tale divenne; ai 31 del mese istesso, per decreto dell’imperatore Napoleone, fu noto il re successore; ventotto giorni durò l’interregno, e reggevano lo stato, senza nome di re, le antiche leggi, l’autorità dei magistrati, la potenza degli eserciti, la pazienza dei popoli. E poichè il re Giuseppe da questo istante non più appartiene alla storia di Napoli, io dirò quanto posso più breve l’indole di lui, e lo stato del regno al suo partirne. Dotto e cultore delle lettere francesi, italiane, latine; ignorante delle scienze, esperto della politica ad uso francese e moderno, prudente nei pericoli, e, se crescevano, timido e dispietato; giusto nelle prosperità, qualora non lo agitasse speranza o sospetto; lodatore del vivere modesto e privato; sollecito dei piaceri e delle lascivie di re; nei discorsi sempre onesto; nelle opere come voleva il bisogno; avido di ricchezze, quanto esige fortuna nuova ed incerta; desideroso di lauto vivere; al fratello imperatore obbediente, devoto; studioso di piacere a lui più che giovare al suo popolo. E perciò bastante all’uffizio di antico re, minore al carico di re nuovo.
Riformava lo stato, spesso per imitazione, sempre costretto ad introdurre nel regno le leggi e pratiche reggitrici della Francia; e quindi nelle opere di governo talora mancava la spinta del pensiero, e tali altre volte al concepimento non rispondeva l’effetto. Abolita, per esempio, la feudalità, buoni feudi si fondavano; pubblicato il sistema giudiziario crescevano le commissioni militari e i tribunali di eccezione; detestati gli spogli del governo borbonico, spogliavansi i possessori di arrendamenti, i compratori degli uffizii civili, le antiche fondazioni di pubblica pietà; abborrite le pratiche dli polizia del Vanni, esecrati i giudizii dello Speciale, giudizii peggiori, peggiori pratiche si adoperavano. Pareva che sopra le rovine degli errori distrutti nuovo edifizio di uguali errori si ergesse.
Ma senza contrappeso di mali si vedevano disciolti i conventi, divise le proprietà, cresciuto il numero dei possidenti, abbassato appieno il papato, stabilita la eguaglianza fra’ cittadini, premiato il merito, ristorate le scienze, venerati i dotti, avanzata la civiltà. Gli stessi errori, che di sopra ho narrato, trovavano scusa nelle licenze della conquista, nelle sollecitudini della guerra e delle ribellioni, nel fastidio delle novità; disastri gravi ad un popolo ma passeggieri. Le instituzioni e le leggi, sole cose che durano, erano conformi ai bisogni della società ed alle opinioni del secolo.
La riforma fu perciò imperfetta, spregiata dall’universale sotto Giuseppe, non pregiata (come dimostrerò) sotto Gioacchino; ma tale che per corso d’anni acquisterà forza e favore. Si vede in Enropa procedere, benchè respinta, la nuova civiltà, e dai lodatori dell’antico se ne fa troppo debito ai governi legittimi, incusandoli timidi o imperiti al maneggio degli uomini: mentre quella civiltà cresce come quercia nella foresta, che non muore dal perdere le foglie per asprezza del verno, nè dal troncar dei rami per forza di scure o di fulmine, avendo nella sua natura cagione e necessità di vita e d’incremento.