Sotto la tenda/Attravreso il Kloht

Attravreso il Kloht

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Quelle carte geografiche Azila e Alilasci

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ATTRAVERSO AL KHLOT.

Siamo passati in vista della residenza del Sid Raissuli, governatore della regione tangerina.

E una residenza che somiglia ad un nido d' avvoltoio. Fra le alture che circondano Tangeri e che hanno per sfondo le alte vette dei monti di Tetuan, ve n'è una che sovrasta le altre con quell'aria presuntuosa e superba che è propria delle colline che vogliono sembrar montagne. Il suo declivio, molle e tondeggiante dalla parte del sud, scosceso e dirupato verso il mare, le dà un profilo di gran bestia accovacciata — una bestia apocalittica dalla groppa erbosa, e dalla testa rocciosa eretta e vigilante sulla città lontana. Questa testa vede il golfo, domina la strada di Fez, quella di Azila, quella di Tetuan; non si muove carovana da Tangeri senza passare sotto il suo sguardo. Là è la fortezza, il rifugio e la capitale dell'illustre governatore. Sul fianco dell'altura nereggia un gruppo di capanne di sterpi — il villaggio di Zinetz — e fra le capanne si distingue una casa bianca — la casa del grande uomo. Intorno al villaggio sono scavati dei fossati, eretti dei bastioni, s'intrecciano delle [p. 32 modifica]zeribe; e sulla testa di roccia v’è una perenne vedetta: un assalto da parte degli amministrati è fra le più probabili in queste regioni di montagnoli berberi. Il Raissuli, potentissimo e popolarissimo quando era un semplice brigante, ha perduto molto della sua autorità — dopo che è diventato anche governatore — in seguito al noto sequestro dell’americano Perdicaris, la cui liberazione ebbe per prezzo la nomina imperiale. Ora il Raissuli non ha più quell’aria di ribelle che tanto piace ai Gebala, perennemente ribelli. Somiglia troppo a tutti 4 gli altri kaid del Marocco; egli è un brigante-governatore e gli altri sono governatori-briganti; non c’è più ragione di rispettarlo. Fa quello che i suoi colleghi fanno: deruba una parte degli abitanti colla complicità dell’altra. Questa operazione è sopportabile da parte di un uomo che per compirla rischia di aver la testa tagliata, salata, ed esposta sopra una porta di Fez — i marocchini ammirano e rispettano il coraggio sotto qualunque forma — ma quando il brigantaggio diviene legale per l’approvazione del Governo (il quale divide le spoglie), allora somiglia troppo ad un qualsiasi sistema di amministrazione marocchina per godere ancora le simpatie dei Berberi.

Per di più si dice che a Fez siano molto soddisfatti del Raissuli, il quale è uno dei governatori che versano più danari nelle casse del Maghzen. Non ci voleva tanto per mettere la metà dei governati in aperta rivolta. I rivoltosi sono quelli della tribù degli Angera, che abitano fra Tangeri e Tetuan, ed i fedeli sono quelli della tribù dei Fhas, alla quale Zinetz e i territori circostanti appartengono. I Fhas formano l’esercito di Raissuli, e compiono il servizio d’esattoria. Questo servizio è semplicissimo: a raccolto finito gli esattori, a piedi e a cavallo, armati di fucili, piombano all’improvviso sopra un villaggio tributario, e impongono il pagamento delle imposte; se insorge qualche discussione, “parla la polvere” — per usare la frase del paese — cioè i fucili dicono le loro ragioni, e, siccome sono fucili a ripetizione, le ripetono diverse volte, finchè l’eloquenza delle bocche da fuoco diviene irresistibile e gli abitanti fuggono. Allora gli esattori si tolgono di dosso le loro gellabe e le [p. 33 modifica]riempiono ben bene, cappuccio compreso, di granaglie, gettano questi sacchi in forma umana sui muli e sugli asini rimasti nelle stalle del villaggio abbandonato, saccheggiano le case migliori cercando le otri piene di danaro nascoste secondo l’uso sotto al pavimento, e tornano trionfalmente alla capitale Zinetz fra canti e suoni spingendo avanti a loro il bestiame rub..., volevo dire riscosso. Intanto dietro a loro, lontano, delle capanne vuote bruciano nella solitudine, e le colonne di fumo servono alle popolazioni limitrofe da annuncio di pagamento.

A poca distanza da Zinetz, nella valle, si vedono biancheggiare le tende coniche d’un vasto accampamento militare. È una mahalla. La mahalla è la colonna di spedizione che il Governo manda nei territori turbolenti per affermare l’autorità del Sultano. La mahalla non combatte; il combattimento è l’ultima ragione di essere del soldato marocchino. Essa mangia. Si accampa in benigna aspettativa, e amichevolmente " mangia il paese, come dicono gl’indigeni, cioè vive sul paese e lo doma impoverendolo. Il sistema è senza rischi, più civile e più umano della repressione violenta, e più sicuro. I ribelli vicini alle truppe, spogliati di tutto, si rifugiano, sempre più numerosi, presso i ribelli lontani; la mangiata si allarga; [p. 34 modifica]i ribelli lontani e quelli vicini la pace non dura a lungo, l’ospitalità e la pazienza hanno i loro limiti, gli uni rimproverano agli altri la venuta delle cavallette militari, e finiscono per battersi fra loro di santa ragione. A questo punto, si capisce, la ribellione è domata; e la mahalla non ha più che da minacciare un attacco con molto rumore di fucilate, per indurre i frazionati rivoltosi ad un solenne atto di sottomissione ed all’accettazione d’un buon governatore che li spremerà per qualche tempo in pace, in nome e per conto del Sultano. Dopo ciò l’armata ritorna a Fez vittoriosa.

La mahalla di Zinetz però non segue per ora la tradizionale tattica vorace degli eserciti sceriffiani. Essa è stata inviata col pretesto di mantenere libere le comunicazioni fra Tangeri e l’interno, ed ha un sok, nel mezzo dell’accampamento, dove i contadini vanno a vendere alle truppe i loro prodotti e dove dei soldati economi e ingegnosi smerciano zucchero, tè, tabacco e frittelle ai loro colleghi proletari. La realtà è che il Governo, vista la malsicura posizione del Raissuli, minacciato dagli Angera, ha mandato questi soldati, non per rinforzare l’autorità del governatore, e nemmeno per rivendicare i diritti dei suoi nemici oppressi, ma per appoggiare il più forte in caso di conflitto, e assicurare così la continuazione di quei versamenti nelle casse del Maghzen, le origini dei quali poco interessano a Fez. Il Governo marocchino considera i lauti tributi dei governatori come il segno [p. 35 modifica]indubbio della prosperità e della pace delle popolazioni, e sente perciò il paterno dovere di imporli e di mantenerli con ogni mezzo.

Il Raissuli, che vede sempre sotto i suoi occhi quella benedetta mahalla, comprende il significato della sua presenza, e raddoppia di zelo per compiacere il Governo, ed anche per arrivare presto ad una ricchezza che lo consoli della eventuale perdita del governatorato.

Infatti i suoi esattori sono ora sempre in moto, ed operano con tanta energia che i contribuenti (nella loro ignoranza in materia economica) quando li vedono arrivare, dicono: " Oggi c'è la guerra!,. In conseguenza di questa attività, delle piccole carovane cariche d'argento prendono due volte al mese la via di Fez, e la regolarità di tali viaggi prova quanto la presenza d'una mahalla sia utile a mantenere libere le comunicazioni.

I soldati che il Raissuli mi aveva mandato per scorta appartenevano naturalmente alla fedele tribù dei Fhas. Ve nivano dal villaggio di Buguduar, ed erano parenti fra di loro, tutti hulad Hahadar genti della famiglia Hahadar. Alti, snelli, vigorosi, col succinto gellaba di lana di capra che lasciava libere le gambe muscolose, e col capo nudo, senza scesciya e senza turbante, davano l'impressione d'una

L. BARZINI. Sotto la Tenda. 3
[p. 36 modifica]semplicità ardita che manca agli arabi, tardi e solenni. La testa avevano rasata, ma un ciuffo di capelli lunghi era lasciato crescere ad un lato della nuca — caratteristica delle popolazioni berbere — e dava alla loro fisionomia quella espressione aspra e selvaggia che una analoga acconciatura conferisce ai mongoli.

Formavano una singolare scorta, disordinata e chiassosa, che si fermava a bere a tutti i rivoletti e raggiungeva la carovana di gran corsa urlando — simulandosi forse di assalirla, — che si sparpagliava improvvisamente fra le palme nane e le ginestre brandendo in alto i fucili come giavellotti, e che di tanto in tanto apriva un buon fuoco di fucileria verso dei nemici immaginari, con grande spreco di munizioni e grande paura dei muli e dei cavalli della spedizione. Quando i miei Hahadar erano stanchi di assalti e di battaglie, ritornavano per un po’ a camminare tranquillamente vicino alla carovana, con la cinghia del fucile sulla fronte e l’arma gettata di traverso alle spalle.

Ogni tanto vedevamo luccicare fra le piante o fra gli scogli canne di fucili di gente che pareva in agguato, e al nostro appressarsi degli uomini armati ci venivano incontro. Erano delle nzala, cioè corpi di guardia disseminati nelle vicinanze delle vie carovaniere con l’incarico di riscuotere dei diritti di pedaggio in compenso di un preteso servizio di polizia.

È il Raissuli che ha organizzato questa lucrosa industria nelle sue regioni. Una volta i suoi uomini rendevano la campagna mal sicura, saccheggiavano delle carovane e sequestravano e mettevano a taglia quei personaggi che potevano avere un valore commerciale; ma il sistema aveva degli in convenienti. Prima di tutto le carovane si facevano meno frequenti e più armate; poi le genti delle città s’indignavano al punto da reclamare delle spedizioni militari contro i briganti; infine il Governo si mostrava furibondo di dover pagare delle taglie per liberare gli europei catturati.

La nzala rimedia a tutto; i briganti diventano poliziotti, e invece di spogliare una carovana di tanto in tanto, mettono a contribuzione tutte le carovane che passano; il furto si [p. 37 modifica]trasforma in imposta, il malandrinaggio assume l'austera apparenza di una funzione sociale, e ognuno è soddisfatto. Il Raissuli è soddisfatto perchè guadagna lo stesso, le genti delle città perchè la regione è sicura, il Governo perchè le Legazioni non lo seccano più, e perchè aumentano le entrate d'un governatore, e, indirettamente, anche le sue. Se qualche carovaniere trova il pedaggio esorbitante, gli uomini della nzala gli sottraggono un cammello o un mulo a titolo di multa, come di giusto; se protesta lo bastonano per insegnargli a rispettare la legge. Io ero esente da ogni dovere di pedaggio possedendo un kiteb-resmi rilasciatami dal commissario imperiale, con la quale si ingiungeva a tutti i governatori e a tutti i capi di tribù di lasciarmi libero il passo, e di proteggermi e aiutarmi in caso di bisogno, sotto pena di rispondere personalmente al Sultano “che Allah protegga!” come diceva il documento di ogni male o danno che avessi potuto soffrire sui loro territori.

Nel kiteb-resmi ero onorato del titolo di Sid (non campeador) e qualificato rappresentante del Geridet-el-Ascia (Corriere della Sera), che i funzionari di secondo ordine prendevano per un nuovo potentato cristiano. Ad ogni nzala Selham Dukhali.... Ma io ho dimenticato di presentare al lettore Selham Dukhali, il comandante militare della mia carovana. [p. 38 modifica]gli è un vecchio mokhazni, uno di quei caratteristici soldati della cavalleria imperiale, superbi nell’ampio burnus bianco e fra i drappeggi dei loro leggeri ksa — quei manti che nella furia del galoppo si sollevano e formano una nube di svolazzi candidi, — insomma uno di quei cavalieri che corrono la fantasia in tutte le pitture e in tutte le incisioni relative al Marocco. Dukhali mi era stato dato per scorta e per guida da Sid Hagi Mohammed El-Torres, commissario imperiale e rappresentava nella carovana la autorità governativa. Egli parla spagnuolo come un Morisco redivivo, e nel suo vecchio fronte pensoso e raccolto si direbbe che debba rimanere ancora un crepuscolare ricordo dell’Andalusia abbandonata. In marcia precedeva tutti, forte sull’alta sella rossa ornata d’argento, i piedi oscillanti nelle ampie staffe damaschinate, il fucile attraverso l’arcione. Non v’è pietra, sentiero, ruscello, o tribù del Marocco che non sia noto a quest’uomo. Ad ogni mzala Selham Dukhali s’avanzava dignitosamente e mostrava alle guardie il kiteb-resmi.

Gli uomini della nzala salutavano con ossequio, ci auguravano la pace, la protezione divina, la riuscita della nostra impresa, la prosperità, e molte altre cose, e in cambio si contentavano di chiedere una piccola mancia che il capo [p. 39 modifica]della carovana - il comandante civile della spedizione – pagava con un gesto grande ed una moneta piccola.

Mustafà Saidi El-Mukenni El-Fahafa — questo è il nome completo dell’ottimo capo carovaniere – è un moro che essendo qualche volta andato a Gibilterra, conosce a fondo l’Europa, cioè il Bled en-Nazara la Terra dei Cristiani. Parla un inglese abbastanza comprensibile per chi ha una certa pratica dei vari idiomi anglo-indigeni del mondo; è gentile, abile, molto pratico del servizio, e s’intrattiene volontieri di politica. – Vedete – mi diceva per riassumere le sue idee sulla Conferenza d’Algesiras la cosa è così: i marocchini hanno la testa dura, e gli europei hanno le mani lunghe; più gli europei allungano le mani, e più la testa dei marocchini si fa dura.

È stata mai data una migliore definizione della questione marocchina?

Un altro personaggio importante della carovana è Alì El-Gautzi, il cuoco, un vecchietto di settant’anni, secco e arzillo, fornito di una barbetta da capra e di due occhietti da volpe. Ha una certa abilità gastronomica, ma non è capace di esercitare la sua arte fra i muri d’una cucina; ama troppo [p. 40 modifica]la vita nomade, la libertà, le lunghe marcie, i fornelli scavati fra l’erba, sotto alla tenda aperta ai venti i quali portano lontano, per la campagna vergine, l’odore degli intingoli. Se trova da occuparsi in qualche casa, egli scappa dopo una settimana e riprende il suo vagabondaggio. Ed anche in una carovana, se una parola lo offende, egli sparisce, sia pure in mezzo al deserto, e lascia in asso paga e casseruole. Naturalmente io lo trattavo con una deferenza in proporzione della sua suscettibilità, ed ogni volta che gli ero vicino gli chiedevo, anzi gli urlavo perchè è un po’ sordo:

Ebbene, Alì, siete contento?

Tutto va bene, signore, per la grazia di Allah! – rispondeva sorridendo.

E provavo la vile gioia di chi ha dissipato ogni dubbio relativo al proprio pranzo.

Il resto della carovana era composto di quattro mulattieri e di un giovane armato di fucile, il quale formava la retroguardia, e prendeva la sua parte molto sul serio.

Tutta questa gente correva e urlava al fianco delle bestie, cantava talvolta in coro dei versetti del Corano – la Fatiha, – e nei passi difficili invocava a gran voce Mulei Idris, il fondatore di Fez e della dinastia degli Idrissiti, divenuto un gran santo islamitico e speciale protettore dei viaggiatori.

Da lontano, col suo biancheggiare di gellabe e di tarbush fra le erbe alte, in mezzo all’oscillare confuso delle grandi some coperte di tappeti, e l’agitazione della scorta berbera, e il luccicare delle armi, la carovana non mancava d’una certa pittoresca imponenza; ma, con tutta la protezione di Mulei Idris e le mie premure, procedeva molto lentamente sfilando giù per i greti e serpeggiando nelle vallette del Khlot.

Il Khlot è un labirinto di colline.

Il Khlot. Non è facile definire questa regione nella quale si faranno forse le prime prove della coltivazione europea. La terra marocchina si allunga e si assottiglia verso la Spagna; forma una vera penisola che ha l’Atlantico da una parte e il Mediterraneo dall’altra. Nella penisola s’ingolfa un [p. 41 modifica]tumulto di montagne, come una disordinata cavalcata di Titani, che va a precipitarsi a picco nel mare dall’estrema punta, di fronte a Gibilterra, quasi che l’Africa avesse lanciato avanti un’avanguardia di roccie per raggiungere l’Europa. Questi monti, alti e dirupati sul Mediterraneo, digradano mollemente verso l’Atlantico accompagnando, direi quasi scortando, in numerevoli corsi d’acqua che scendono ad inverdire le ultime collinette ed i piani nei quali si spegne tutto il movimento orografico del paese. Tale regione, non più alpestre, ma il cui profilo è ancora tutto ondulato e vario, è il Khlot.

Nel nome stesso vi è un non so che di rude che pare, al suono, la designazione d’una cosa selvaggia. Il Khlot, non è ancora fertile per gli uomini. Esso dispone a capriccio della sua fecondità, e si copre della splendida ed arruffata veste delle terre ricche ed incolte. Vicino a Tangeri vi sono dei villaggi bordati di aloe gigantesche — simili a strane bestie dai tentacoli grigi, muscolosi e unghiati — e quei gruppi di misere abitazioni coperte di sterpi rappresentano il primo attaccarsi al suolo di popolazioni nomadi, la nascita di una agricoltura. Intorno s’infoltiscono gruppi d’alberi fruttiferi, e ondeggiano al vento le [p. 42 modifica]biade come sotto la carezza d’una gran mano invisibile. I contadini solennemente arano piccoli campi con biblici aratri; e delle cicogne li seguono passo passo familiarmente lungo il solco lieve, beccando i vermi con una certa loro aria comicamente riflessiva e magistrale che le fa sembrare dei severi censori intenti ad una accurata ispezione del lavoro umano. Ma allontanandosi dalla città cessano i villaggi, e non si incontrano più che pochi duar arrampicati sulle colline in posizioni strategiche.

I duar sono accampamenti nomadi di tende tessute con pelo di cammello e fibra di palma. La loro disposizione risponde ad una necessità di difesa. Le tende sono piantate in giro, circondate ognuna da siepi di sterpi o di cardi secchi, e tutto il duar è cinto da una zeriba. Alla notte il bestiame comune è rinchiuso nel mezzo, le sentinelle vigilano dietro alla zeriba, e i cani — d’una razza nella quale il sangue del lupo si mescola ancora — lasciati liberi fuori del duar, abbaiano furiosamente all’appressarsi di un uomo o di una fiera. In poche ore si è risaliti alle origini della società umana.

Sulla campagna soleggiata si vedono rari pastori immobili, appoggiati con grazia statuaria al lungo fucile, i quali sorvegliano mandrie di piccoli buoi fulvi ed irsuti, e greggi di pecore lanose, simili a batuffoli bianchi con un muso nero ed ebete.

Sul bordo dei fiumi, ombrosi e cupi boschetti di antichi olivi selvaggi offrono riposi deliziosi alle carovane, ed ognuno di essi è conosciuto con un nome che parla di leggende o di storie dimenticate: Bosco dei due Re, Bosco del Sonno, [p. 43 modifica]Bosco della Mano. La marea, che risale le correnti, dà un orario a certi guadi; il mare impone la sua volontà ai cammelli come alle navi. Insensibilmente si scende; l’Oceano non si vede più, scompare come un miraggio avvicinandosi a lui.

Si arriva a pianure più vaste, a valli più ampie, si bordeggiano paludi dalle quali si levano voli d’anitre e di aironi bianchi. È quasi con sorpresa che ad un certo punto si rivede il mare, vicino ora, e girata una duna ci si trova sulla spiaggia, investiti dalla brezza fresca e salata.

Per qualche ora la riva dell’Atlantico è stata la nostra strada; profittando della bassa marea, dovevamo camminare rasente l’acqua per evitare le dune impraticabili. Gli ampi ed alti marosi oceanici s’infrangevano con un rombare ed uno scrosciare di cateratte lungo la riva, e il profilo della costa s’annebbiava nel pulviscolo iridescente sollevato a nembi dal tumulto di spuma. Da quel furibondo assalto del mare alla terra, eternamente rinnovato e respinto, delle piccole onde domate, basse e lente, venivano gorgogliando ad agitare la loro bordura bianca fino fra le zampe dei cavalli, e ritirandosi esse cancellavano con rabbia gelosa le nostre orme sulla sabbia.

Così siamo giunti ad Azila.