Sotto la tenda/Quelle carte geografiche
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QUELLE CARTE GEOGRAFICHE!
II Marocco non possiede strade, sia pure sferrate. Ciò contribuisce a mantenere il paese allo stato selvaggio, poichè la Civiltà per camminare ha bisogno principalmente di strade. Essa non valica sentieri da capre, non passa fra roveti e brughiere, non attraversa pantani a guado, non va nè a piedi, nè a cavallo. La Civiltà non può veramente progredire che sulle ruote. La Civiltà, anzi, non è che un turbinare di ruote, ruote che corrono e ruote che girano sul posto e trasmettono i loro giri ad altre ruote, ruote che lavorano, che creano, che misurano il tempo, che servono l’uomo in mille modi in un tumultuare vorticoso, tremendo, incessante. Il Marocco3non ha ancora scoperto la sua prima ruota — o l’ha dimenticata.
Mancano dunque le gambe al Progresso. Gli eventi non hanno ancora spinto il genio marocchino all’invenzione del carro, che è l’applicazione primitiva della ruota. Non oso esporre le profonde considerazioni che suscita fra gli eruditi questo problema: se qui manchino veicoli perchè non ci sono strade, o se manchino strade perchè non ci sono veicoli. Certo è che le due mancanze sono egualmente deplorevoli, considerando i danni che esse arrecano agl’interessi del mondo civile rappresentato dagl'importatori e dagli esportatori. Ma per chi viaggia il Marocco a piccole tappe, nella stagione dei fiori, la mancanza di strade è deliziosa.
Dirò una grande eresia, ma la strada rappresenta il primo vincolo che l'uomo ha imposto alla sua libertà. Quando un paese comincia a lasciarsi avvincere dalle strade come da una gran rete, significa che gli abitanti si muovono per affari ed hanno fretta: non sono più padroni del loro tempo; principia quella grande schiavitù che si culmina nell' obbedienza ad un orario ferroviario.
Non più corse folli sul vergine tappeto delle praterie, emigrazioni verso l'occidente, viaggi simili a caccie attraverso boschi silenziosi e chiusi ed a montagne piene di luce e di echi; la strada dice all'uomo: Tu devi passare di qui — e lo condanna a camminare con regolarità accasciante sopra una striscia eguale, sterile e senza fine. Un'ora di viaggio è simile all'altra, un giorno è simile all'altro. Si perde l'abitudine dell'osservazione, il senso dell' orientamento, la facoltà di comprendere gli avvenimenti della Natura, quel linguaggio eloquente delle cose che fa divinare i passaggi e i pericoli, che fa leggere nelle orme della terra la vicinanza d'un nemico, che nelle ombre degli alberi dice l'ora del giorno, che nel colore delle acque indica la possibilità di un guado. A poco a poco la strada ci priva di questo grande dialogo fra l'anima nostra e il Creato; camminiamo tristemente su quel- l'infinito nastro di melanconia che è la strada, il quale non ci lascia altra occupazione se non quella di meditare — causa di tutti i nostri dolori.
Ma, come ho detto, al Marocco non ci sono strade; vi sono al più dei sentieri tracciati dal largo piede dei cammelli. E questi sentieri sono capricciosi, girano, s'intersecano, si perdono, aiutano a smarrire la via più che a trovarla. Si seguono letti di torrenti montani fra roccie bizzarre pulite dalle acque, si va per steppe immense zigzagando in mezzo a rigogliosi ciuffi di palme nane e di iris fiorite, si attraversano pianure ubertose tinte da vivide fioriture, striate dal bianco delle margherite, dal giallo delle primole, dall'azzurro delle campanule, pianure tutte piene della vita silenziosa e fervida — 21— delle piante i cui folti allacciamenti fanno pensare ad una lenta e sterminata lotta per sopraffarsi, per levare ognuna più in alto il suo fiore come una bandiera smagliante. Per ore ed ore si cammina senz’altra guida che le cime dei monti lontani, si taglia dritto verso un punto dell’orizzonte, come navigando nel verde. Pare di sentire sul viso l’alitare caldo della terra appena calpestata dai cavalli, il cui passo si at tutisce nella morbidezza profumata delle erbe. E si è presi da un’ebbrezza nuova, dalla gioia d’un risveglio, dal senso di una libertà riconquistata. Al guado del fiume El-K harrub. Certo in fondo alle nostre memorie istintive v’è qualche incosciente ricordo di una vita nomade, addormentato da se coli, che si ridesta talvolta; v’è una corda ignorata della no stra sensibilità, che all’improvviso, in mezzo alle vaste soli tudini luminose d’un paese primitivo, torna a vibrare e ci riempie l’anima della sua voce selvaggia. Il mio itinerario era questo: da Tangeri ad Azila, pic cola cittadina sulla costa atlantica; da Azila a Laraishe, porto alla foce del fiume Lukkos, una volta famoso covo di pirati; da Laraishe ad Habbesi, villaggio della tribù dei Beni Melek non lontano dal fiume Sebù; da Habbesi, passato il Sebù, attraversare la regione della potente tribù dei Beni Hesen fino al gruppo montagnoso che sta al nord di Meknes (Mekines); poi, passando per la gola di Bab Tsiuka, raggiungere il fiume Mikkes, sboccare nella pianura dei Sais e, seguendo il fiume Fez, arrivare a Fez. Per compire questo tragitto erano pre veduti otto giorni di viaggio. Il mio itinerario aveva il van taggio di condurmi per regioni meno note; la strada con sueta per Fez passa per El-Ksar-EI-Kebir (Alkazar), ossia molto più all’est. Da quattro anni la regione dei Beni Melek e dei Beni Hesen era evitata a causa delle guerre di queste tribù, che si sono battute fino al principio dell’inverno.
Difficilmente il lettore potrà seguire il viaggio sopra una carta geografica. Le carte del Marocco si sono contentate finora di mostrare delle linee punteggiate al posto dei fiumi principali e di accennare alla presenza delle maggiori catene di montagne con delle ingegnose traccie a spina di pesce per indicarne la probabile direzione. Fiori e miseria. Mentre le più intime regioni equatoriali cominciano ad essere definite e spariscono sugli atlanti le grandi lacune del l’inesplorato, mentre attraverso il vero cuore dell’Africa si delinea il preciso tracciato d’una immensa ferrovia, e tutti i corsi d’acqua e le valli e le vette del Continente Nero, sono 23- doa poco a poco rilevate e rappresentate sulla carta con esattezza scientifica, questa nostra ignoranza del Marocco dovuta, soprattutto, ad un terrore storico dell’Europa per la Terra dei Mori - è sorprendente. È stato un terrore storico. La forza morale dell’Impero Arabo ha sopravvissuto all’Impero. Le Nazionionì Cristiane hanno rispettato con una specie di superstizine questo nido di dominatori, questa culla d’invasioni, anche quando la culla era divenuta piuttosto una tomba. Sono state troppo cantate in tutte le lingue le sofferenze e le inutili fatiche sanguinose dei crociati perchè non si radicasse nell’anima europea una paura ereditaria degl’infedeli, e la folla occidentale ha sempre confuso Mori, Arabi, Saracini e Turchi in un solo popolo terribile. I maomettani hanno vinto i tre quarti delle loro battaglie in virtù di questa fama spaventosa, la quale sgominava le file dei Credenti prima dell’urto delle armi — gl’Infedeli, si sa, avevano l’aiuto del demonio ed in materia militare il demonio è stato sempre ritenuto d’una competenza indiscutibile.
Quando dopo le ultime vittorie di Mulei Ismail la potenza militare dell’Impero s’è sfasciata, è rimasta al Marocco una grande difesa: la paura altrui. Essa lo ha mantenuto impenetrabile, cioè ignorato, cioè forte. Tutte le slealtà, tutte le infamie sono state perdonate a questo temuto paese. Pensate che non sono trascorsi ottant’anni da che le nazioni europee pagavano ancora al Sultano dei tributi per affrancare le loro navi di commercio dai pirati marocchini. La pirateria era, così, riconosciuta ufficialmente come l’esercizio di un diritto del Marocco, come una legittima operazione marittima di Sua Maestà Sceriffiana. E i famosi pirati, ai quali i più grossi velieri si arrendevano senza lotta, obbedienti agli ordini della bandiera nera nella paralisi dello spavento, quei famosi pirati non possedevano che poche barche a remi, male armate, mentre su queste spiaggie avevano echeggiato le cannonate di Trafalgar, e dalla costa gl’indigeni potevano tutti i giorni veder passare in squadra, gigantesche sul mare e bianche di velature aperte, le poderose navi da battaglia del mondo occidentale, tenute al largo da una tradizione religiosa.
Al Marocco, dove tante popolazioni rifiutano al Sultano ogni pagamento di sangue e di denaro, l’offerta del tributo è il segno del vassallaggio. L’Europa pagava il suo tributo, dunque l’Europa era sottomessa. Ciò risponde alla logica del paese. Le ambasciate furono sempre ritenute atti d’omaggio, e il Sultano, da sovrano onnipossente, non rispettò in ogni occasione la libertà e la vita degli ambasciatori; in ogni caso non rispettò mai i trattati. Considerò le nazioni europee quasi come sue lontane tribù, ora fedeli e ora ribelli. Richiamato alla osservanza dei patti Mulei Ismail esclamava: "Sono forse un cane Rumi (Cristiano) che debbo mantenere la parola data? Il Marocco ha vissuto, come potenza, dell’omaggio europeo. "
Il fanatico orgoglio islamitico e la fierezza araba si sono ingigantiti nella coscienza d’una superiorità all’apparenza indiscutibile. Il Cristiano era un vinto. In una terra dove il diritto della forza è il solo diritto, il vinto è fatto schiavo. Le razzie sul mare procuravano schiavi cristiani, come le razzie verso il deserto — il mare di terra — procuravano schiavi negri. Mekines fu costrutta da mani cristiani, gravate di catene. Forse v’è ancora quaggiù qualche vecchio che può ricordare d’aver udito a parlare nella sua infanzia degli europei captivi, relegati come in un ghetto nella via di Fez che porta anche oggi il nome di Derb Er-Rumi — via dei Cristiani —, o rinchiusi nella prigione che si chiama tuttora la Zebbalet En Nasara, cioè la " fogna dei Cristiani „. I tempi sono cambiati; la navigazione a vapore ha lasciato molto indietro le galere corsare, la vendetta europea è cominciata a giungere rapida dopo ogni offesa, e i cannoni delle flotte moderne hanno fatto le loro prove su quasi tutti i punti della costa. Il Governo marocchino riconosce ora la sua impotenza e non vive che per le nostre scissioni. Ma l’anima della folla è lenta alla penetrazione della verità; un popolo non è capace di pensare in pochi anni il contrario di quel che ha pensato per molti secoli; la paura può aver fatto nascere il rispetto, ma non può aver fatto morire il disprezzo.ì,
Agli occhi della massa noi siamo sempre degli esseri inferiori e immondi, forti in virtù di magie e di sortilegi; la nostra presenza in un luogo santo lo profana come la presenza d’una bestia, il nostro sguardo impuro sconsacra i santuari dove penetra, la pressione del nostro piede annienta le divine virtù d’una moschea. Le macchine nostre sono apparecchi infernali che portano flagelli; in certe regioni, guai al viaggiatore che senza scorta è sorpreso con misteriosi ordegni intento a delle osservazioni non meno misteriose (quali sarebbero le rilevazioni topografiche e gli appuramenti tri gonometrici). Egli è trattato da nemico preso con le armi alla mano.
Il sentimento popolare mantiene così in vaste contrade del Marocco delle barriere quasi insormontabili per noi. Ecco perchè le carte geografiche del Marocco sono tanto imperfette.
La sommaria rappresentazione del Marocco sulle carte geografiche, così cara allo studente il quale ama la sempli cità, ha delle conseguenze più vaste di quanto non si creda. Noi cominciamo a conoscere i paesi sull'atlante. Fino ad una decina di anni fa il centro dell'Africa era sulle carte un grande spazio bianco, e noi l' abbiamo creduto tutto un de serto. Dio mio, chi non ha, sulla fede della geografia, giu rato odio alle sabbie africane, sitibonde di sangue ? Per il Marocco l' errore continua ancora. Noi dobbiamo dissipare l'antico equivoco attraverso il quale da tanti secoli vediamo questo popolo e questa terra. Dobbiamo ridurre le cose alle loro proporzioni, dobbiamo cercare di conoscere e di giudi care giustamente i paesi e le genti che ci sono vicini, e che, volenti o no, subiscono il nostro contatto e la nostra influenza. I vuoti delle carte marocchine non corrispondono a deserti.
Il Marocco è uno dei paesi più belli e più fertili del mondo.
Esso potrebbe resistere alle armi, ma non può resistere al commercio: è troppo ricco. Non è terra di conquista, ma di affari. Sulla corazza del fanatismo e dell' ignoranza ma rocchina, rinforzata da un nobile e selvaggio amore di libertà e da una innata passione di battaglia, su questa corazza v'è un punto debole, v'è una giuntura, per la quale non potrebbe penetrare la punta della baionetta, ma attraverso la quale passano delle monete d'oro.
Il marocchino non è industrioso, ma è buon mercante, ed è abbastanza refrattario alla nostra civiltà da essere onesto negli affari ; il mal governo lo ha immiserito ; la corruzione lo ha reso venale. Un popolo venale, misero, e per di più dotato d' istinti mercantili, è un popolo domesticabile. Rifiuterà forse di trattare, ma non di contrattare. Non si farà vincere, ma si lascerà convincere.
Vi è un luogo al Marocco dove le lotte non arrivano, dove i nemici s’incontrano in pace, dove non è permessa la vendetta (ed è punito di morte chi infrange questa legge), un luogo di tregua e di rifugio: è il Sok — il Mercato. La tradizione ne ha fatto il sacrario degli scambi. In questo modo il commercio è stato messo di comune accordo al di fuori e al di sopra di tutte le agitazioni del paese. Tale fatto — che dimostra un rudimento di diritto commerciale — rivela un po’ l’indole marocchina. Si riconosce solennemente una im munità in chi vende e in chi compera. Il detestato ebreo esce dal suo Mellah ed è padrone nel Sok. Mani arabe, more, berbere, ebree, negre, vi si stringono fraternamente a solenne impegno di affari conclusi. Ebbene, l’Europa ha preso il suo bravo posto nel Sok.
Ed un grande posto. Non si poteva entrare che di lì, e v’è entrata. Il mercante, a qualunque razza appartenga, è stato sempre considerato qui come un amico; anticamente le navi dirette per commercio ai porti marocchini erano rispettate dai pirati — e ben lo sapevano le flotte mercantili di Pisa, di Genova e di Venezia, le quali vi approdavano sotto il privilegio di trattati che furono i primi conclusi dal Marocco con paese straniero: il nostro paese. Anzi, in qualcuno di quei trattati vi erano delle singolari clausole di reciprocità sulla questione dei pirati, le quali dimostrano l’esistenza d’un commercio marittimo marocchino e di pirati nostrani....
Oggi, la rapidità dei trasporti e l’abbondanza della produzione, dànno al commercio europeo una forza nuova, inaudita, irresistibile. Esso alletta, conquista, trasforma. Penetra e invade con la lenta e fatale regolarità d’una marea. Dove non può arrivare Io straniero arrivano i suoi tessuti, il suo zucchero, le sue candele, arriva il suo credito. Quello che manca sulla carta geografica, si può trovare sul libro-mastro. Nei "comptoirs„ europei di Rabat, di Tangeri, di Mazagan, di Mogador, fra i conti-correnti sono rinchiuse preziose indicazioni sopra tribù quasi ignote e su paesi inaccessibili, ai quali però giungono i nostri prodotti e dai quali altri prodotti vengono alla costa. Le ostilità perpetue, le scissioni, le guerre interne, non fanno trascurare i traffici; anche il medioevo italico offriva questo fenomeno. Ad onta delle vaste lotte di questi ultimi tempi le cifre degli scambi aumentano con meravigliosa progressione. Il Sok è l’unica istituzione marocchina che funzioni regolarmente, come il cuore in un organismo macerato e ferito.
Ma i tempi di Pisa, di Genova e di Venezia sono ben lontani: noi italiani siamo quasi estranei a questo movimento di ricchezze, al quale la nostra posizione e la nostra attività dovrebbero farci cooperare in larga misura. Siamo estranei perchè diffidiamo, e diffidiamo perchè ignoriamo. Ma ora mi accorgo che la mia divagazione sulle carte geo grafiche mi ha portato troppo lontano dal mio viaggio e dal relativo itinerario del quale stavo parlando ....
E ora che riprenda la mia strada (senza strada) per Azila, attraverso valli e colline piene di fiori, con la visione lontana dell’Oceano Atlantico, una gran striscia all’orizzonte tutta vivida e tremula, accecante di luce come se il sole declinando vi si dissolvesse a poco a poco. In sella, dunque! Il cammino è lungo!