Sotto il velame/Il vestibolo e il limbo/I

Il vestibolo e il limbo - I

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La selva oscura - VIII Il vestibolo e il limbo - II

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I.


Una porta è, senza serrame.1 Dopo la porta un grande spazio dove l’aria è tinta e il lume è fioco.2 Quello spazio, che digrada, ha per limite una riviera: un fiume grande, da parer palude, con acqua limacciosa e opaca. Una nave s’appressa per lo stagno livido. Fiammeggiano da essa, come uniche scintille in tutta questa opacità d’acqua e d’aria, due occhi di bragia. Sono d’un nocchiero vecchissimo.3

A ogni momento nella ripa s’affolta gente. Il nocchiero appressa la barca, gridando parole d’eterna sanzione. Nella gente, cioè tra le anime, sorge uno strepito di denti e di bestemmie e di pianto. E s’avanzano in quel barlume verso la riviera e verso i due occhi di fuoco. Formano quasi un grappolo, un ramo, un albero. Da esso si staccano a una a una le anime, foglie che appena si tengano al ramo per il picciuolo mortificato, cui assalgano i primi venti freddi dell’autunno.

Guardando verso la palude, si scorge però che non si staccano da sè, ma via via per cenni del [p. 52 modifica]demonio barcaiuolo. E allora non sembra più quello lo sfogliarsi e il mondarsi d’un ramo. Quel formicolìo d’anime sembra uno stormo di uccelli, dei quali ognuno, l’un dopo l’altro, si butti a terra per il richiamo di quell’orribile uccellatore.

La nave s’allontana su per l’acqua opaca e nera. Non è di là quella nave, nè sono ancora discese quelle anime, che di qua s’affolta nuova gente. E la barca ritorna, e suonano le grida di quel dimonio, si vedono nell’oscurità quei due occhi simili a carboni accesi che ruotino; e si forma di nuovo quell’albero di foglie caduche, e di nuovo si monda.

Così Dante ha veduto la morte:4 la morte di quelli che muoiono nell’ira di Dio.

Ora tra la porta aperta e la livida palude, in quel grande spazio, c’è, direi quasi, un mulinello perpetuo di foglie secche, che nè escono dalla porta aperta nè si gettano nella barca. Questo mulinello che non si ferma mai, è una lunga tratta di gente, una turba infinita d’anime, che corre, piangendo, urlando, guaendo, dietro un’insegna, che gira, come da sè, in quell’aria oscura. E quella tratta, quel groppo vorticoso, gira e corre perpetuamente come in un aperto e ventoso vestibolo.

               Diverse lingue, orribili favelle,
               parole di dolore, accenti d’ira,
               voci alte e fioche, e suon di man con elle,
               
               facevano un tumulto, in qual s’aggira
               sempre in quell’aria senza tempo tinta,
               come la rena quando a turbo spira5

[p. 53 modifica]Passata la riviera, ecco la proda della valle d’abisso. Da essa esce un lamento infinito. E infinita è la sua oscurità. Si scende e si entra nel primo cerchio.

               Quivi, secondo che per ascoltare,
               non avea pianto ma’ che di sospiri,
               che l’aura eterna facevan tremare:
               
               ciò avvenìa di duol senza martiri,
               ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
               e d’infanti e di femmine e di viri.6

In questo cerchio non c’è altro pianto, che di sospiri; il che Dante altrove conferma e dichiara, dicendo che in esso7

                                                          i lamenti
               non suonano come guai, ma son sospiri

E questa e quella espressione sono così formate da richiamare e correggere quella usata per il vestibolo, dove oltre i sospiri sono pianti, e i lamenti sono guai e alti guai:

               quivi sospiri, pianti e alti guai.8

Inoltre i sospiri nel limbo sono l’effetto “di duol senza martiri„, il che non può dirsi nei correnti nel vestibolo che9

               erano ignudi e stimolati molto
               da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

               Elle rigavan lor di sangue il volto,
               che, mischiato di lagrime, ai lor piedi,
               da fastidiosi vermi era ricolto.

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Vero è che questi martirii hanno in sè, come un cotale spregio, così una tenuità relativa a’ terribili tormenti del vero inferno; sì che Dante che forse non s’è accorto delle noiose bestiole che stimolano quelli sciaurati o a ogni modo crede quei lamenti e quell’avvilimento effetto troppo grande di così piccola causa, domanda:10

               che gent’è che par nel duol sì vinta?

e torna a domandare:11

                             Maestro, che è tanto greve
               a lor, che lamentar gli fa sì sorte?

E il maestro (cosa notevole) assegna del forte lamentare cioè del loro guaire una cagione spirituale:12

               Questi non hanno speranza di morte:

il che si riscontra con la cagione dei sospiri che traggono quelli del limbo; perchè il loro duolo non nasce da martirii, ma sol di questo, che, come Virgilio dice anche di sè,13

               che senza speme vivemo in disio.

Nè questi nè quelli hanno speranza. E hanno tra loro altre somiglianze. Sono gli uni e gli altri moltissimi. Dietro l’insegna veniva14

                                                  sì lunga tratta
               di gente, ch’i non avrei mai creduto
               che morte tanta n’avesse disfatta.

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Nel limbo erano turbe di quei sospirosi, e le turbe15

                                  eran molte e grandi,
               e d’infanti e di femmine e di viri.

Ma Dante avanti i lamenti e le moltitudini del vestibolo aveva sì la testa cinta d’orrore, pure il suo maestro non gli lascia concepir pietà di quelli sciaurati; mentre nello scendere al limbo il poeta è tutto smorto, e non d’orrore ma di pietà.16 E Dante appena sa il duolo di questi ultimi, è preso subito al cuore da gran duolo anch’esso. E se nel vestibolo sente dire che quelle sono17

                                     anime triste di coloro
               che visser senz’infamia e senza lodo,

e se là incontanente intende, ed è certo,18 che quelli formano la setta dei cattivi e sono19

               sciaurati che mai non fur vivi,

qua invece conosce che in quel limbo sono sospesi20

               gente di molto valore.

Il che è proprio un’antitesi, chè valente nel Convivio e nella Comedia è il proprio contrario di vile. E mentre Virgilio professa di volere risparmiar parole, in proposito degli sciaurati del vestibolo, “Dicerolti molto breve„, e infatti conclude il breve discorso con le parole, [p. 56 modifica]

               non ragioniam di lor ma guarda e passa;

e Dante riconosce sì tra loro alcuno, e vede e conosce21

                                      l’ombra di colui,
               che fece per viltate il gran rifiuto,

pure il nome non mette e di quelli e di questo nell’eterne sue pagine; nel limbo, al contrario, Virgilio a lungo ragiona e nomina sì quelli che furono salvati, sì quelli che restano sospesi; e Dante ricorda tanti spiriti magni, eroi e filosofi, e se si limita, dice anche perchè:

                         sì mi caccia il lungo tema,
          che molte volte al fatto il dir vien meno.22

E Dante, in un’altra occasione, riprende il novero, e altri fa nominare ed esaltare.23 In nessuna altra contrada del suo oltremondo, nemmeno nel Paradiso, Dante ha tanti nomi quanti del limbo. Pur grande è il suo studio di farci pensare questo limbo in relazione del vestibolo, e non in sola relazione di contrasto. Quelli del nobile castello hanno bensì24

                               onrata nominanza
                   che di lor suona,

e sono onrevol gente e sono spiriti magni; mentre di quelli del vestibolo25

                   fama... il mondo esser non lassa;

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ma come assomiglia questa espressione26

                         incontanente intesi e certo fui
                         che quest’era la setta dei cattivi,

a quest’altra,27

               gran duol mi prese al cor quando lo intesi
               però che gente di molto valore
               conobbi che in quel limbo eran sospesi;

e la conoscenza non è, qui, seguita da alcun nome, come nè l’altra:28

               poscia ch’io v’ebbi riconosciuto,
               vidi e conobbi l’ombra di colui
               che fece per viltate il gran rifiuto.

C’è, mi pare, un grande studio per far vedere che sono simili e dissimili nel tempo stesso; e quanto simili e quanto dissimili! Simili: quelli sono un turbine di rena, questi una selva29. Simili: quelli sono nel vestibolo perchè visser senza infamia e senza lodo; questi sono nel limbo, non per fare, ma per non fare30. Simili: quelli sono sdegnati dalla misericordia e dalla giustizia; e questi hanno sì mercedi, ma non basta, per ottener la misericordia; e non peccarono, perciò la giustizia non aggiunge martirii al loro duolo;31 e hanno gli uni e gli altri un eterno desiderio, che invidia è chiamato negli sciaurati, e disio nei sospesi, ma un desiderio senza speranza;32 e gli uni e gli altri vivono nell’oscurità; [p. 58 modifica] la quale pure non si direbbe intiera e perfetta per nessuni dei due; chè nel vestibolo è, fioco sì, ma lume, e nel limbo è un fuoco....

E con tutte queste somiglianze, c’è tra gli uni e gli altri la differenza e il contrasto che è tra un parvolo innocente e un vile; e quella e quello che è tra Enea e colui che fece il gran rifiuto, tra il primo degli eroi e l’ultimo degli sciagurati.