Sotto il velame/La selva oscura/VIII
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VIII.
Dante, dunque, adolescente e poco oltre la soglia della seconda età, essendosi chiusi quelli occhi giovanetti, che menavano al bene la sua anima sensitiva, la quale allora, come di adolescente, aveva bisogno di chi la guidasse e cui obbedisse, cominciò a essere ingannato dal cuore o appetito. Esso si faceva talora avversario della ragione, e vedeva il bene dove non era e non lo vedeva dove era. Lo vedeva nella fronte di altri e non lo vedeva più in Beatrice salita da carne a spirito. Minor bene preferiva a maggior bene: la donna gentile, per un esempio, alla donna gentilissima, Beatrice viva e di sì breve uso a Beatrice morta e immortale. Il cuore non andava più ver lei, quasi trovasse ostacoli per la sua via: ombrava, come cavallo restio: era vile. E si volgeva ad altri, come attirato dalla voce e dall'aspetto del bene e di Beatrice. Ma il bene e Beatrice non era là, dove il cuore andava. E allora si cominciava “dolorosamente a pentere de lo desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere„. Il dolore era sempre legato all’estremo della viltà. E il dolore era suscitato dal pensiero e dal ricordo e dal sogno della vera Beatrice. La viltà nasceva dal desiderare del cuore contro la costanza della ragione; cioè contro la prudenza, contro il lume di grazia che c’è dato per discernere bene da male, e maggior bene da minor bene. La prudenza, che in Dante era infusa col battesimo, di quando in quando riappariva; ed egli allora si ritorceva dalla falsa imagine di bene; ma tornava a seguirne altre.
Quando finalmente piena si rifece la prudenza, egli era nel mezzo del cammino di sua vita. Si sentì men vile e s’apparecchiò a più non essere.
Egli era stato, per tutto questo tempo, quasi morto; chè vivere è dell’uomo ragione usare; ed egli non usava ragione, perchè, a tratti soltanto, vedeva quel lume e ubbidiva a quel consiglio, che mostra e dà la prudenza, facendo al cuore discernere ciò che ha da fuggire e ciò che ha da cacciare. Or non era più morto. Ora egli cominciava a usare ragione. Il cuore fuggiva fuggiva dalla sua vita passata, e si avviava a miglior meta.
Fu come se ingombro di sonno si fosse smarrito in una selva; e vi avesse passato chi sa quanto tempo, ma che era quasi una sola notte. Ed egli, cercando la sua via si metteva per questo o quel tragetto, e poi se ne ritornava, e poi si cacciava per un altro; e di qua, dove forse era il buon cammino, si rivolgeva, come avesse incontrato fossi e catene, e per là, dove certo era il folto della selva, si metteva dietro qualche inganno di via agevole. Ma quand’era nel più profondo, ecco che un raggio della luna, che era tonda bensì essa, ma selvaggia e aspra era la selva, ecco che un suo bagliore gli mostrava che s’internava invece di uscire e si perdeva invece di salvarsi. E così finalmente verso l’alba si trovò avanti un colle illuminate dal sole nascente.
Quanta paura aveva fatto balzare il suo cuore nella selva! Ora la paura s’era quetata un poco. E anelando il cuore fuggiva fuggiva; mentre Dante posava un poco, per riprendere le forze: fuggiva il cuore dalla selva e tendeva al colle.
Così ogni uomo, che ebbe col battesimo il lume del discernimento, ha bensì in abito la prudenza, ma finchè è adolescente non l’ha in atto. Anzi il suo stato d’imprudenza dura spesso oltre l’eta in cui è perdonabile. La puerizia di anima continua un pezzo dopo che cessò la puerizia d’anni. La prudenza, che è in lui in abito, mostra bensì di quando in quando qualche raggio, ma tardi si svela piena e a lui rivela gl’inganni dell’appetito sensitivo. E allora si apparecchia a vivere la vera vita dell’uomo.
Così il genere umano che in Adamo ebbe il lume di grazia per il quale l’animo poteva discernere tra ciò che è da fuggire e ciò che è da seguire, in lui lo perdè. Brancolò al buio, senza poter meritare, finchè questo lume fu riacceso dal Redentore, e allora il genere umano uscì dalla selva del peccato originale, in cui non era luce di prudenza e perciò libertà di volere.
Questo il senso, che via via si chiarirà meglio, della selva: senso allegorico e anagogico. Ed è mirabile considerare, come le necessarie imperfezioni in tale figurazione unica di concetto molteplice, siano dal poeta dissimulate e sanate. A chi dicesse che non sta il figurare, nel senso allegorico, la notte dei sensi con una notte di plenilunio, risponderebbe il poeta, sì, che sta; chè per un battezzato non c’è notte buia, perchè il lume di grazia brilla per lui; ma che appunto a far vedere che il lume può non essere da lui veduto e usato a suo cammino, egli mise l’errante in una selva oscura per la sua foltezza, in una selva selvaggia. E a chi allora gli replicasse che la medesima figurazione non torna per significare la tenebra del genere umano dopo la colpa umana, perchè la luna non spuntò subito dopo il tramonto del sole; Gesù non venne subito dopo Adamo; egli anche risponderebbe, che sì, subito dopo il peccato spuntò la luce di grazia, e che Adamo appunto credè per primo al Cristo venturo.
E col senso morale è unito e fuso il senso politico o, vogliam dire, sociale. Essendo la luna la virtù che consiglia l’anima1 sensitiva, ella è anche l’autorità imperiale; perchè l’imperatore è colui che deve indirizzare al bene l’anima semplicetta del genere umano. Altissimo è questo uffizio che, a noi disavvezzi da certe idee e da certi raziocini, può parere strano e piccolo. Pensiamo. Dante ritiene bensì cancellata col battesimo la macchia originale; ma gli effetti di lei crede estendersi per gran parte dell’età degli uomini e anche per sempre. L’imperatore compie, per lui, il Redentore; e l’autorita imperiale è come la sanzione del battesimo. Senza essa il genere umano è invano redento, e vivrebbe, come avanti Gesù, nel peccato e nella tenebra.
E così ognun vede che se io sono stato, in tale interpretazione, più forse esatto dei miei antecessori, non però sono solo a vedere, piccolo omicciuolo, ciò che gli altri non videro. Siffatta solitudine mi farebbe diffidare d’ogni mio più severo argomentare. Ma no: tutti hanno nella selva veduto o intraveduto il peccato, e il disordine morale e politico, e la perdizione, e la morte. E tuttavia tutto ciò non è se non per il difetto di quella virtù che il battesimo infonde e a cui vedere gli occhi dell’adolescente si serrano immergendosi nel sonno; per il difetto o per l’oscurarsi della prudenza. Or la prudenza è tra le virtù morali virtù precipua, ed è loro conducitrice, come dietro i filosofi afferma Dante: “e senza quella esser non possono„.2 Sicchè nella selva non essendo prudenza, non è alcuna virtu. E così tutti gli interpreti hanno sempre pensato; ma errano se aggiungono che ci sono tutti i vizi. Chè lo stato di chi è nella selva, ed è pur senza alcuna virtù, e senza alcun lume, e perciò senza alcun freno, e pur servo e in peccato, e nell’inferno, e quasi morto; tale stato è più simile a quello d’un parvolo innocente che muore avanti il battesimo che a quello d’un uomo colpevole della più lieve delle reità. Ricordiamo la gradazione stessa quale Dante sente dire all’aquila, nel cielo di Giove:
è tenebra,
od ombra della carne o suo veleno.
L’ombra della carne è incontinenza, il veleno è malizia. Bene: la selva è tenebra e solo tenebra.3 È, per conchiudere con altro luogo della Comedia, è lo stato dell’animo che “confusamente apprende„ il bene, nel quale quietarsi. Egli non è ancora o non è più “diretto„, ma al bene aspira. I disiri di Beatrice, in vero, al bene menavano l’amatore. Ma egli non era “diretto„; era fuori della “diritta via„. Or ciò non vuol dire che il suo animo errasse “per malo obbietto„; poichè cercava il bene; nè “per troppo o per poco di vigore„; poichè il bene non lo trovava, e l’amor suo non era mai nel caso di misurar sè stesso, perchè non raggiungeva ciò che seguiva, e ciò che seguiva era un’imagine falsa e una vanità.4 Nella tenebra dove Dante errava, non era alcuna virtù, ma non era alcun vizio.
Note
- ↑ Ricorda de Mon. III 4: «Dicono... che Dio fece due grandi luminari, il maggiore e il minore, perchè l’uno presiedesse al giorno e l’altro alla notte. Nel che ritenevano per allegoria indicati questi due poteri, spirituale e temporale». Nell’Ep. V 10 è ben definito quest’uffizio dell’imperatore con la stessa imagine della luna: «Non camminate, come e le genti camminano, nella vanità del senso e nell’oscurità delle tenebre... dove il raggio spirituale non basta, ivi ne rischiari la luce del minor luminare». Dante in quel capitolo del de Mon. non sembra accogliere di buon grado il paragone dell’autorità imperiale al luminare minus, e l’accoglie solo ammettendo che questo abbia luce in proprio. Il che significa in Purg. XVI 107, chiamando sole anche quel luminare che fa veder la strada del mondo.
- ↑ Conv. IV 17. E vedi Summa, passim, per es. 1a 2ae 60, I; 58,3. La prudenza, qual condizione di qualsivoglia virtù, si chiama appunto discrezione.
- ↑ Par. XIX 65 e seg. Ci torneremo su. Il da Buti: «Senza la grazia illuminante d’Iddio noi siamo ciechi, o per lo dimonio che ci accieca, o per la concupiscienzia della carne che n’offusca o per piacere del mondo che ci corrompe». C’è qualche cosa di vero, ma non tutto è vero. Vedremo meglio che la tenebra è l’effetto del peccato originale, e l’ombra e il veleno, del peccato attuale, nella sua grande divisione d’incontinenza e di malizia. Per veleno uguale a malizia, cfr. la coda di Gerione, simbolo d’una specie di malizia, che ha venenosa forca, e ricordisi questo verso Par. IV (65) in cui veleno è accostato, come sinonimo, a malizia:
Ha men velen, perocchè sua malizia.
- ↑ Purg. XVII 95 e segg.
l’altro (amore) puote errar per malo obbietto
o per troppo o per poco vigore.
Mentre ch’egli è ne’ primi ben diretto
e ne’ secondi sè stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto.