Sole d'estate/I diavoli nel quartiere

I diavoli nel quartiere

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I DIAVOLI NEL QUARTIERE

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Per oltre un anno, la pace più celestiale regnò nel quartiere che si abitava prima di venire in questo. Fra la nostra e le case dei vicini sorgeva un villino a due piani, con una striscia di giardino davanti, completamente disabitato. I proprietari lo avevano fatto ripulire, da cima a fondo, con l’intenzione di venderlo; ma poiché ne pretendevano un prezzo esagerato, nessuno si presentava a comprarlo. Padroni, per adesso, ne erano i gatti del vicinato, che, dopo le loro feroci lotte amorose, si sdraiavano sulle gramigne delle aiuole o s’arrampicavano fino alla loggia del pian terreno. Scacciati dagli altri giardini, convenivano tutti lì, e i loro baccanali notturni erano il solo chiasso che disturbava i nostri pacifici sonni: ma un bicchiere d’acqua, lanciato dalla finestra dalla nostra intrepida cameriera, li metteva in fuga, destando, in quelle prime chiare notti di marzo, le tremule risate delle altre giovani ancelle, che coglievano ogni pretesto per affacciarsi in camicia alle loro finestre. [p. 132 modifica]

Di giorno, invece, un silenzio quasi campestre allietava i nostri dintorni; e tutti si guardava come un’ara di pace la casetta tranquilla, col suo giardino inselvatichito, le imposte chiuse, sulle quali il sole s’indugiava spiando.

Verso la fine di marzo si venne però a sapere che era stata venduta: e l’incanto cessò. Chiassosi operai la invasero: il segreto delle finestre fu rudemente violato; scale, corde, carrucole la cinsero con un assalto devastatore.

Intervenne anche un giardiniere che, con grandi arie, circondò le piccole aiuole di frammenti di mattoni, vi piantò le banalissime viole del pensiero, e sui viali ripuliti dalle gramigne sparse uno strato di volgare sabbia gialla che, quando cominciò a piovere, diede al già poetico giardinetto un aspetto fangoso e triste. I nuovi proprietari ancora non si vedevano: erano in viaggio, diceva la nostra bene informata cameriera: venivano dall’America o dalle Indie (per lei era lo stesso) con molti quattrini in tasca.

E già prima del loro arrivo, e precisamente a proposito della loro ricchezza, e sopratutto della loro identità, cominciarono i dissidi e le questioni fra i nostri vicini di casa, o meglio fra le rispettive donne di servizio e i ragazzini e le ragazzine che erano [p. 133 modifica] al loro seguito. Si discuteva sulla nazionalità dei personaggi che dovevano arrivare, e alcuni mettevano in dubbio la loro ricchezza (se veramente facoltosi, avrebbero dovuto far costruire anche un «garage» e una scala di servizio); persino sulla loro religione si farneticava, sul loro linguaggio, sul colore della loro pelle. Grande fu quindi lo stupore di tutti quando una mattina si vide arrivare una preistorica botticella, dalla quale scese, con una sola valigia coperta d’una fodera gialla, un uomo di mezza età, smilzo, con uno spolverino molto usato e le scarpe impolverate. A dire il vero, dal suo profilo scuro e camuso, e dal corruscare degli occhi bianchi e neri, si sarebbe detto un mulatto; e uno studentello, dopo averlo sentito parlare col vetturino, affermò che il suo accento era spiccatamente brasiliano. Accento, aggiunse la nostra saputella cameriera, che si rassomiglia molto a quello napoletano.

*

Per alcuni giorni rimase delusa la legittima curiosità dei vicini di casa del brasiliano: così il nuovo proprietario del villino fu denominato. Neppure una scimmietta egli [p. 134 modifica] aveva portato con sé: neppure un pappagallo. E i galli continuarono a godersi il suo giardino, fatti adesso silenziosi dall’amore appagato e dai primi calori primaverili. Ma fu come il silenzio che precede la tempesta. Ritornarono gli operai impertinenti, fu aperto un nuovo cancello nel giardino, e questo venne diviso in due da una rete metallica. Si capì subito che il presunto milionario affittava il piano superiore della sua casa, concedendo agli inquilini un ingresso libero. E ben diverso fu il loro arrivo da quello di lui: un camion rosso, che pareva il carro del diavolo, portò i loro mobili sgangherati, in mezzo ai quali, come un idolo di popoli antropofago stava una ragazzina negra, negra autentica, con in grembo un bambino di pochi mesi, sul cui visetto gonfio ella chinava la testa scarmigliata quasi a volerselo davvero mangiare. Era la bambinaia della famiglia che veniva ad abitare il villino, e, manco a farlo apposta, si chiamava Fatima.

In breve questa Fatima fu in realtà l’idolo del quartiere: tutti la fermavano, mentre ella portava in giro la carrozzella a mano con dentro il bambino che si succhiava i pugni: e lei rispondeva a tutti con un linguaggio strano e gutturale che ricordava i gridi delle scimmie. [p. 135 modifica]

Nessuno capiva le sue parole, ma dovevano capirle bene i suoi padroni e il proprietario della casa, perché fu da certi suoi pettegolezzi che scaturì la prima scintilla di un loro dissidio fatale: dissidio che una mattina di maggio scoppiò in lite volgare e violenta. Fu da prima, giù nel giardinetto, da una parte e dall’altra della rete di divisione, un bisbiglio lento e sommesso: poi una voce di donna si sollevò, con timbro di soprano arrochito: solo che la collana dei suoi versi era composta dei più classici vituperî che possano villanamente concepirsi. Allora le voci degli uomini rombarono impetuose, e il pianto del bambino, che la donna teneva in braccio, unì il terzetto selvaggio col filo del suo lamento.

Con sadica curiosità, i vicini di casa stavano ad ascoltare: seppero così i miserabili fatti di quelli che avevano creduto grandi e ricchi signori: e la vicenda, una volta tanto, sarebbe stata divertente se non si fosse ripetuta spesso, per lo più nelle ore quiete del mattino, disturbando il sonno dei nottambuli, dei malati, delle signorine dormiglione. Fu quindi un inveire, un protestare, un comune allacciarsi per parlare male dei molesti intrusi; con la solidarietà della servetta negra, che aveva appreso le più caratteristiche [p. 136 modifica] imprecazioni romanesche e le indirizzava senz’altro ai suoi padroni e al proprietario del loro appartamento.

Una domenica, nel pomeriggio, dopo che la mattina quei signori, invece di recarsi alla santa messa, avevano litigato più aspramente del solito, sputandosi attraverso la reticella del giardino, buttandosi sassi, minacciandosi di querela, di sfratto, persino di morte, Fatima, tutta vestita di rosso, andò al cinematografo con la nostra elegante cameriera. Al ritorno, questa sorrideva diabolicamente, con gli occhi di solito cattivi, adesso lieti di una beatitudine perversa. Dice:

— Fatima, che poi non è stupida come pare, avrebbe trovato il modo di far cessare lo scandalo. Vedrà, signora, che spasso. Ma non bisogna dirlo a nessuno. E poi, se la cosa riesce, lei, signora, dovrebbe regalare a Fatima il suo cappellino verde.

Vada pure per il cappellino verde, sebbene io ci fossi affezionata, perché lo possedevo e me lo godevo da ben quattro primavere. [p. 137 modifica]

*

Quasi prevedessero il giusto castigo, per alcuni giorni i litigiosi nostri vicini di casa non si fecero vivi: o, meglio, sì, la mattina presto si sentivano nella parte destra del giardinetto gli strilli argentini del bambino, che la sua mamma portava in braccio per fargli respirare l’aria buona; ed erano piccoli gridi che invero facevano piacere a sentirli; si confondevano col canto degli uccelli e rivelavano la gioia istintiva di un essere che si apriva all’ebbrezza di vivere. Ma si udirono un’ultima volta quella fatale mattina del Corpus Domini, quando le campane della chiesetta del quartiere squillavano come sonagli, diffondendo un’allegria villereccia nelle nostre strade quiete; e nell’insolito prolungato sonno della vacanza gli stanchi impiegati sognavano di trovarsi ancora nel paesetto natio, con la bella fanciullezza chiusa nei roridi pugni. Da strilli di gioia si mutarono in gridi di spavento: vibrarono ancora fra gli urli dei forsennati litiganti, e infine tacquero. Tacquero anche le voci folli dei grandi e, nel silenzio impressionante, si sentì come uno scroscio violento di pioggia. [p. 138 modifica] Poi fu di nuovo la voce del brasiliano, a urlare con un ruggito di belva; ma non gli rispose che la risata beffarda della nostra cameriera, di dietro le persiane della sua finestra.

*

Più tardi si seppe che qualcuno, collocato sul parapetto della terrazza il catino per il bucato, riempito d’acqua, al momento opportuno, con un’abile spinta, lo aveva fatto diluviare sulla testa dei litiganti.

Chi ne andò di mezzo fu il povero piccolino, che per lo spavento e il bagno freddo si prese una polmonite e dopo tre giorni morì.

Allora fu vista Fatima, che si era nascosta nella soffitta, uscirne arruffata e nuvolosa e, piegato il viso unto sulla carrozzella vuota, piangere tutte le sue lagrime di coccodrillo.