Sole d'estate/Leone o faina
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LEONE O FAINA
— È di moda, adesso, difendere il leone. Buono, generoso, non attacca, anzi fugge l’uomo, a meno che non si tratti di difendersi. Ha persino paura delle spine. La sua terribilità consiste nella forza strapotente che Dio, o la natura, gli ha donato. Non esiste, negli animali, forza maggiore. Ma vedi come la natura è provvida: quando per nutrirsi o per difendersi il leone dà l’assalto alla sua vittima, sia pure, mettiamo, un poderoso vitello gli rompe con una sola zampata la spina dorsale, in modo che lo uccide immediatamente, senza farlo soffrire: poi gli succhia il sangue dalla gola, perché, anzitutto, ha sete, la famosa sete desertica: inoltre, pare gli piaccia la carne dissanguata. La faina, invece....
— Non hai storie più allegre, da raccontarmi, stasera? — dice l’amico, un poco stanco per la lunga giornata d’ufficio, ma pur beato della sua pipa, della tranquillità della saletta da pranzo, e sopra tutto della presenza del suo grande, furbo, soddisfatto amico. Implacabile, questi continuò:
— La faina, invece, così piccola, malleabile, anche graziosa a vedersi, salta sul dorso della sua vittima, per lo più la mite amabile lepre, e le si attacca alla nuca, succhiandole il sangue, mentre quella continua a correre. Così si fa anche una bella galoppata. E adesso, mio caro Giovannino, ti racconterò, come tu desideri, una storiella più allegra. Tua moglie....
— Ah, — mugola l’altro, mordendo il cannello della pipa coi suoi detestabili denti guasti; — la zampata del leone? Mia moglie s’è preso l’amante?
L’amico sorride, un forzato sorriso di satiro, mostrando i grandi denti d’alabastro, sani e forti.
— Si tratta di meglio: di molto meglio.
— Succhia, succhia pure il sangue del povero vitello.
L’amico scuote la testa, davvero leonina, guardando in alto: segue un silenzio crudele, mentre il marito, d’altronde separato legalmente dalla moglie, ha l’impressione, beffarda, sì, ma in fondo anche penosa, che un fatto catastrofico gli stia per accadere.
L’amico batte un pugno sulla tavola ancora apparecchiata, poi, sporgendosi misteriosamente in avanti, dice sottovoce:
— Ha firmato cambiali per duecentomila lire. A favore di quell’esimio chiacchierone che è suo fratello, tuo eccellentissimo cognato; il quale, dopo tante altre imprese, ha presentemente assunto quella di costruttore: costruttore di case e villini, in una zona ancora tranquilla, sebbene relativamente centrale: e li fa abbastanza bene, con materiale autentico; ma appunto per questo ci rimetterà senza dubbio: ci guadagneranno invece i compratori. Tua moglie perderà le sue duecentomila lire, come ha perduto tante altre belle cose, nella sua ancora breve ma assai movimentata esistenza.
Il marito alzò le spalle; provava quasi gusto nel pensare che quella donna bisbetica, nata per tormentarlo, finalmente avesse un degno castigo.
— E allora, quando lei avrà perduto tutto, vedrai che il tuo illustre cognato vi farà fare la pace: in parole povere, te la rifilerà.
Adesso fu l’altro a battere il pugno sulla tavola; ma sul serio, tanto che gli oggetti che vi erano sopra sussultarono come spaventati.
— Ah, questo no, poi, per dio santo.
E rise del suo spavento, tanto era sicuro di sé: ma il suo riso rassomigliava al tremolio panico delle tazze e dei bicchieri davanti a lui. Rise e disse:
— In fondo, chi ci perde è l’imbecille che ha accettato la sua firma.
— Come? Come? Chi ha versato le duecentomila lire è un individuo che ha bisogno di un villino, e vuole averlo senza le noie della costruzione a conto proprio; e giusto in quella zona convenientissima: quindi ne ha già ipotecato uno, dei migliori, e se lo prenderà, guadagnandoci qualche diecina di migliaia di lire: se lo prenderà, sì, come un maccherone ben condito, in punta di forchetta. E infine, certo di farti piacere, ti dirò che quell’uno sono io in persona.
L’altro spalancò i tondi occhi bovini; e rise ancora, ma senza cattiveria né derisione: anzi, per un istinto che neppure lui avrebbe saputo spiegare a sé stesso, piegò la testa, come doveva piegarla il vitello sotto la benevola zampata del leone.
*
Entrò la cameriera, portando il vassoio col bricco lucentissimo del caffè. Il padrone non usava prenderne; all’amico, invece, piaceva molto l’aromatica bevanda, come del resto gli piacevano tante altre cose eccitanti: e mentre la ragazza, dura e dritta più di un giovane tronco, e come questo odorosa di campagna, versava il fumante liquido color d’onice, egli si piegò anzitutto a sentire il profumo di questo, poi cominciò a sorseggiarlo, tenendolo in bocca come una cosa densa, e infine seguì con gli occhi la servetta. Il suo sguardo era freddo, però, e non andava oltre la superficie delle trecce stoppose raccolte sulla nuca pallida della ragazza, scivolando poi sul dorso possente stretto alla vita della veste nera da una sottile cinghia di cuoio rosso.
— Eccellente, questo caffè. Dove l’hai pescata, questa bruna scabrosa sfinge?
— Ah, un mio segreto. E non ti mettere in mente di farle la corte, perché è infrangibile.
— Non c’è pericolo! Non mi piace l’odore dell’acquaio. E poi quelle enormi mani di pietra pomice! Però è brava, no? Vedo che qui intorno c’è un ordine inverosimile.
— L’ordine c’è, come c’è nei cimiteri, — ammise il marito, ma non con la dovuta tristezza. — La ragazza, sì, è bravissima. La mia tana, dopo che c’è lei, ha perduto l’odore e il subbuglio di quelle delle belve di lusso; dico volpi azzurre e lontre, poiché siamo in vena di parlare di bestie selvatiche. E la mia cameriera, a sua volta, è una bestia di servizio perfetta. Perfetta! — aggiunse l’infelice, beandosi della fortuna che il Signore, dopo tante traversie, forse appunto per ricompensarlo della sua lunga pazienza, della sua remissione, anche del suo nascosto dolore, gli aveva donato.
Con innocente malvagità, poiché sapeva che il suo amico era pur esso schiacciato da una famiglia e una casa disordinatissime, si compiacque di destargli invidia, raccontando le feconde virtù di Rosetta. Aveva anche un bel nome, la industriosa ragazza boschereccia; un nome primaverile: Rosetta Fiorelli; un difetto di pronunzia le impediva di cantare e chiacchierare: celava in corpo un bollente rancore contro gli uomini, scottata dal primo, dal secondo e forse dal terzo dei suoi infidi ricordatissimi innamorati: stirava magnificamente, anche a lucido: sapeva fare i cappelletti, i dolci ravioli; e poi religiosa, in modo che con lei non c’era bisogno di perdere la testa a fare i conti della spesa.
— Basta! — gridò imperiosamente l’amico. — Adesso sei tu che fai la parte della faina. — E si scosse tutto, toccandosi la nuca, come per liberarsi dal nemico.
L’altro rise un’ultima volta: rise tanto, che dovette togliersi i doppi occhiali d’alte diottrie, per asciugarsi gli occhi senza ciglia: da molto tempo non si era divertito così, con poco, con niente; sebbene sentisse che sotto quel tremolio di acqua luminosa si nascondeva un torbido fondo di pantano.
*
Poi parlarono di tante altre cose. L’amico era un uomo di affari: conosceva la vita, conosceva il mondo delle grandi città: o almeno credeva di conoscerlo; aveva passato l’estate nelle stazioni balneari e climatiche cosmopolite e sapeva quindi tante cose divertenti e orrende della gente oziosa; l’altro, anche lui, non scarseggiava di piccoli episodi utili da raccontarsi; e quando si trattava di attaccare un bottone all’amico, lo faceva senza pietà e senza scrupoli.
Tornò Rosetta, per portar via il vassoio col bricco lucente del caffè: e adesso l’ospite la guardò bene anche davanti: era brutta, sfrontatamente brutta, con un grande naso virile, il petto ossuto, le gambe, con le calze rossicce, simili a zamponi di maiale: ma quando egli, con la sua calda e sommessa voce sensuale, le domandò come si chiamava, ella socchiuse gli occhi che parevano due olive nere, e lo fissò; un attimo, come riconoscendo d’improvviso, in lui, un suo antico gradito domatore.
— È fatta. — pensò il disgraziato padrone. — Adesso l’amico mi piglia anche la serva.
E non disse nulla, ma di nuovo si sentì come succhiare lentamente il sangue alla nuca, e gli parve di correre, di correre, di perdere a poco a poco la forza vitale, senza poter neppure pensare a reagire, a fermarsi, a liberarsi dall’incubo ineluttabile, simile in tutto alla vittima naturale della faina.