Sermoni giovanili inediti/Sermone XXIV

Sermone XXIV. I Ritratti

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SERMONE VENTESIMOQUARTO.


I RITRATTI.




Io poeta non son, non son pittore,
     Ma voi, che alla divina arte de’ carmi
     Consacrate l’ingegno, o alle dipinte
     Tele spirate della vita il soffio,
     5Voi qui venite; e della gente nova
     Si ritragga per voi l’immagin viva,
     Che all’occhio od al pensiero il vero parli.
Di effigïate tavole rimiro
     Dell’aule magne le pareti ingombre
     10Onde, ad un segno del maggior pianeta,
     Al popolo si fa mostra solenne.
     Ma che vi leggo? non degli avi illustri
     Le onorate sembianze e i fatti egregi.
     Ma i noti volti, che in eterno muti,
     15Quanto or loquaci per la vana istoria
     Di loro vanitade, un dì saranno.
Volgo altrove le piante, e un suono ascolto
     Che l’aure fende di lontano. Il canto
     Questo non è dell’inspirata schiera,
     20Che a magnanimi sdegni i petti accende,
     O mesta annunzi della patria i danni,
     O mesta pianga sulle sue ruine.
     Ma d’importune gazze e di civette
     Il grido sciocco e sciagurato è questo,
     25Che all’ira più che allo sbadiglio invita.
     O poeti, o pittori, a voi benigna

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     Non volgesi l’età, che non perdona
     A chi non sa come di nova vena
     Il pallid’oro si derivi, o come
     30Quasi tremula foglia lieve lieve
     Uomo secondi l’alitar del vento.
All’un, ch’agile e pronto a destra e a manca
     Innanzi e indietro scambiettando salta
     Al tintinnar dei lucidi sonagli,
     35L’altro, che a guisa sta di rupe immota,
     Se alle parole e al portamento credi,
     Bieco sogguarda; e con secura fronte
     I turbini invocando e le procelle,
     Attende che dall’onda furïosa
     40S’aprano i fianchi alla sbattuta nave,
     Ed ei ne aggrampi l’agognata preda.
Dei templi, delle sale e dei teatri
     Si schiudano le porte. Innanzi all’are,
     Spettacol venerabile alle genti,
     45Questi pago non è se non comincia,
     Tre volte percotendosi sul petto,
     La sua giornata, e non la compie a sera
     Senza che nell’altrui fama di piglio
     Dato abbia o nell’avere, e non sen vanti
     50Quasi ministro dell’ira di Dio.
     Quegli il capo scotendo, e col cipiglio
     Di rigido censor, varca le soglie
     Al volgo sacre, e le devote usanze
     Sprezza del volgo, e d’amistade in pegno
     55Dal cor gli strappa la radice prima
     D’ogni suo bene e nostro. A degna impresa
     Col consiglio e coll’opra il saggio intende,
     Mentre da larve ipocrite disgombra
     Del santo vero il sempiterno raggio,
     60Che illumina, conforta e rassicura

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     Il misero mortal, che alla sua meta
     Errando corre per la trista valle.
Nelle fulgide sale or si penètri,
     Se tanto lice a noi, dove la stampa
     65Dei cari baci omai logora e stanca
     Ai cari abbracciamenti e alle più care
     Strette di mano e ai misurati inchini
     Il luogo cede. La diletta amica,
     Anzi signora, festeggiando accolga
     70Le dilette compagne, anzi signore;
     E nel dolce pensiero assorta goda,
     Se intorno annoverandole, le dieci
     Dita col grave computo trascenda.
     Così di giorno in giorno in vario giro
     75L’amabile catena si rannoda
     Dell’affetto gentil, che non ha posa
     Pur nel settimo dì, che alle men degne
     Cure tregua concede. Al fido specchio
     La casta vedovella si consiglia
     80Come con bruna veste e in velo bruno
     Di sua mestizia accorto il mondo renda.
     Ma l’ora è tarda, e le segrete stanze
     Oggi non lascia, e indarno palpitando
     Oggi chiede di lei l’amata schiera,
     85Che su rapidi cocchi innanzi passa
     Alle neglette case, ove solinga
     Donna, vegliando i figli pargoletti.
     Alle pudiche ancelle equa comparte
     Con benigno sembiante i grati uffici.
     90Di lei non suona all’umile tugurio
     Ignoto il nome, chè tacita e sola
     Com’angelo di cielo ad ora ad ora
     Vi scende, e delle sue grazie lo allieta.
Ma del ricco Epulon fuman le mense;

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     95E quando il gozzo già pieno ribocca,
     E dal cervello fervido le idee
     Impazïenti sbucano scoppiando,
     Udresti come con facondo labbro
     Degli affamati Lazzari ragioni
     100Il pasciuto Epulone; e come i fati
     Dell’improvvida plebe accusi e danni:
     E ben le sta, gridando, altro compenso
     Fuor che i ceppi non trovi e la mannaia.
     Oh ben si attaglia all’animal coperto
     105Del vello d’oro il sermonare onesto
     Fra il vampo de’ bicchieri, o delle molli
     Tiepide piume accovacciato in grembo!
Il popolo è una belva, che si doma
     Col ferro, colle verghe e col digiuno,
     110I consorti rispondono; ma bada,
     Che a disperate imprese ancor trascina
     Spesso la fame. — Un obolo gli getto,
     Quando stringe il bisogno e la paura;
     E in pace vada. — L’obolo fomenta.
     115Ma non estingue la malnata sete;
     Risponde un terzo fra cotanto senno.
     Che farem dunque? Omai troppo ne grava
     Chi gli stringe la corda attorno al collo,
     Ma peggio fia se giù dagli occhi il velo
     120Gli cada, e guardi e sogghignando passi. —
Freme a quei detti un ospite novello,
     E imprende a favellare: Un gregge turpe
     Spesso è la plebe, il so; ma chi l’aiuta
     A sciogliersi del fango, onde s’impaccia
     125Più d’un cui ride la fortuna amica?
     E per colpa maggior, poichè si ammanta
     Di più splendido drappo, è fatto segno
     A minor biasmo, che scherzando vola?

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     O ch’io m’inganno, od ésca al foco accresce,
     130Onde una impura fiamma arde ed avvampa,
     Chi con esempi sciagurati e vili,
     E improvvido consiglio, avaro e falso
     All’istinto brutal del popol gramo
     Aggiunge lena, sì che alfin prorompe
     135Senza ritegno a’ danni nostri; e noi,
     Noi che fratelli.... A repentino scoppio
     Di mal frenate risa a bocca aperta
     Rimase, e tacque. — Nei palagi alteri
     Ora si educa la leggiadra prole
     140A leggiadro costume. Il Franco, e l’Anglo,
     E l’Alemanno coi nativi accenti
     Favelleranno all’itala donzella,
     Che nel patrio sermon balbetta appena.
     E il nobile garzone, o si scapestra
     145Innanzi tempo con ignota foga,
     O come cherichin pallido e smilzo
     Stecchito va, torcendo alquanto il collo.
Dopo le cure vane e gli ozi gravi
     Assistere ne giovi alle notturne
     150Scene, e lo spettator con novo incanto
     In novello spettacolo si muti.
     Ma chi ridir vorrà, s’anco il potesse,
     La commedia dei garruli palchetti,
     Ove si ride allor che il popol piange?
     155Tardi si giunga, e il varïato intreccio
     Delle figure mobili rinnovi
     Il prestigio di magica lanterna.
     La mano s’armi dell’acuto vetro;
     E l’occhio lento e grave intorno giri,
     160Quasi degli astri contemplando il corso,
     Alle partite zone, e non s’affisi
     Nel pianeta maggior quando nol chiami

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     Il bianco collo di canoro cigno,
     L’ardito fianco o il portentoso guizzo
     165Di silfide danzante. Al rovinío,
     Che allora scoppia, si confonde e mesce
     Del basso mondo e dell’elette sfere
     L’arcana un tempo e tacita armonia,
     Che i timpani spezzare or ne minaccia.
     170Anzi, o c’illude l’apparenza strana,
     Il signorino, che la man s’inguanta
     Di più morbide pelli e più gentili,
     Par che del trivio le selvagge usanze
     Nobilitare o vincere presuma;
     175Onde i modi che furono plebei
     Di signorili omai prendono il nome.
Il nuovo Sol ne’ fôri e nelle piazze
     Forse ci attende; ma la tua vaghezza
     Non ti seduca a figurar l’immago
     180De’ nuovi Scribi e nuovi Farisei;
     Inutile fatica, e di fastidio
     A un tempo piena. A più felice impresa
     L’intento volgi. La volubil moda
     Sai che tiranna ad una norma adegua
     185Unica e sola le discordi cose,
     E gli uomini diversi. Ancor si piace
     Che degli alunni suoi la miglior parte
     Sulla schiera volgar tanto si levi,
     Che in non creduto error tragga le menti.
     190Ora d’un velo candido e pudico
     A femmina procace il guardo adombra;
     Ed ora ad atti di viril baldanza
     La sconsigliata verginella educa.
     Un ignoto garzone, o noto forse,
     195Innanzi move a concitato passo,
     Con penzolante braccio, e col cappello

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     Giù per gli occhi rivolto. Al masnadiero
     Non griderai; chè un donzellin vezzoso
     A te s’accosta, e dall’accesa foglia
     Lento sorbendo con maestre labbra
     Un nembo manda d’innocente fumo.
Non dalle frange e dai mercati arredi,
     Ma dai volti t’inspira in cui natura,
     Come sè stessa d’un errore accusi
     E in parte emendi, ricordar si piace
     Qual anima di ciuco o di men degna
     Belva s’asconda sotto a quelle spoglie.
     Il rapido giudizio in fallo adduce
     Anco sovente. Andar colla test’alta
     Un uomo vedi, e di superbia a torto
     Lo noti; chè di pien meriggio pensa,
     Pensa alle fasi dell’amica luna.
     Così per la pietà ti discolori
     Del mercatante, a cui si rompa il banco,
     Onde lo credi stritolato e morto.
     Inutile pietade; egli d’un salto
     Balza nell’aureo cocchio, e dispettando
     Sogguarda al creditor pedestre e scalzo.