Scritti politici e autobiografici/Fuga in quattro tempi/Quarto tempo
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Fuga in quattro tempi - Terzo tempo | Le dichiarazioni di Carlo Rosselli al processo di Lugano | ► |
Quarto tempo.
Quattro dicembre. Dolci parte. È duro il distacco. Si porta via un lembo di cuore nostro. È deciso che a marzo fuggirà per aiutarci. Bravo Giovacchino, qua la mano. I suoi occhi profondi, su cui le palpebre calano con lenta sapienza, sono tanto tristi. Addio, addio. Dove, quando ci rivedremo? In acqua, speriamo.
Sbarca Bartellini, socialista di Trieste, ottimo acquisto. Torna anche mia moglie dalla lontana Inghilterra, dove era vissuta aspettando. Fiasco totale, senza speranza.
Lussu vive rinchiuso nella brutta buia casa. Dalla terrazza, come la Niobe, «le braccia tende su’l selvaggio mare». È inavvicinabile. Esce un’ora, non vuole nessuno, cammina sino alla Marina Lunga a grandi passi furiosi. Quando ci vediamo, tono elegiaco o bestemmiatore.
Passano, lenti, i mesi invernali. Con grande sforzo ci mettiamo tutti al lavoro, a un lavoro qualsiasi. Faccio i miei conti con il marxismo, getto giù la trama di un libro. Nuovi amici sopraggiungono, altri partono.
Monotonia, monotonia. Nulla di nuovo.
Ambrosini zuppifica l’universo con le sue tesi sindacaliste-fasciste-comuniste. Ci parliamo dieci minuti in tutto. «Io aspiro a diventare il Marx delle classi medie», mi dice. Cioè vuol diventare l’anti-Marx. Ha l’agilità intellettuale di un bisonte. Lo dicono in buona fede, ma è atrocemente bottonaro.
Porcelli, anima candida di romantico, anarchico «desenchanté», raffinato esteta, ci vogliamo un gran bene. Penso alla «Sensitiva» di Shelley. Catalogato come anarchico pericoloso, non lo molleranno. Da quattro anni al confino.
Silvestri, magnifico combattente antifascista, caro amico e compagno di cella. Fabiani, entusiasta e puro, consolante coi suoi vent’anni. Dorè comunista, Chiossi, Molinari, Pagani, Bruno e cento altri che dovrei ricordare. Galleani, nobile figura di vecchio, che cela, sotto la cortesia esteriore, la più fiera delle intransigenze. Paolinelli, focoso e leale, bella tempra romana. Kralj, sloveno e cristiano, giornalista e studioso, che ci apprende il tedesco. Lorenzo Da Bove — lo zio ammiraglio — colui che con Oxilia guidò la barca di Turati, Savona-Calvi. Bibbi, Guadagnini, Penna, Trebbi, Morea, solidale nelle ore difficili.
Gli amici sono molti, ma l’inverno è lungo a passare. Gennaio e febbraio, pioggia e vento furioso. La piccola casa è come percorsa dal rombo.
Qualche giorno passa lieto. È quasi bello non dover pensare alla fuga, perché «non si può» fuggire. Ma poi l’idea fissa ritorna. Fuggire, fuggire, fuggire.
La tela spezzata si ricompone pazientemente (la più dura vittoria è quella sul tempo). Chi non ha più pazienza è Lussu, cui pare manchi la terra sotto i piedi. L’idea di aspettare sino a giugno-luglio lo mette talvolta in furore. Sfoghi segreti, perché di fronte al piccolo mondo confinato, Lussu è una sfinge e rispetta il feroce orario di uscita, necessario a spistare gli agenti.
Ci avviciniamo al gran giorno. L’«Almanacco Bemporad» reca le fasi lunari. Fissiamo i periodi possibili: 5, 6, 7 luglio; 26, 27, 28 luglio. Di agosto non ci occupiamo; non ne vogliamo sapere di attendere. Arrivano frattanto confortanti notizie. Il motoscafo è acquistato — 26-30 miglia orarie; — più veloce di quelli polizieschi. Lussu raccomanda: armi a bordo, fucili, bombe a mano.
Amerebbe una battaglia navale.
Il progetto è perfetto nei suoi particolari. Tutto è calcolato al minuto. La strada già nota.
Parte mia moglie col Mirtillino ammalato. 23 giugno. Il 5 luglio partiremo noi.
Sera del 4 luglio; ancora ventiquattr’ore e ci siamo. Mi proietto nella sera dopo, seguo già tutti i miei passi. Il mare è quieto, il cielo è terso. Steso sulla poltrona a sdraio, ora inseguo calmo i pensieri. Questa sera c’è «lui» a bordo. Ci troverà. Verrà, non può ritardare. Conosce i rischi dei viaggi a vuoto.
Passi affrettati sulla scala. Telegramma. Maledizione. È il telegramma di rinvio (convenzionale).
Giro due ore intorno alla tavola, bestemmiando, almanaccando. Poi mi rassegno.
Rinunzio alla descrizione di Lussu.
Nuove notizie. È fissato per il 26.
26 luglio: bis del 17 novembre. Mare divinamente placido, miliziotti tranquilli, noi tranquillissimi. Le esperienze passate ci hanno insegnato a prevedere il fiasco. Lasciamo perciò i panni all’asciutto. E il ritorno — come cani bastonati — non conosce incidenti.
27 luglio: sabato. Com’è vero che Dio paga il sabato. Stasera fuggiremo. Nella notte ho sognato un leone che mi insegue su un «tapis roulant». Sogno a conclusione lieta. Lussu interpreta fulmineo: tapis roulant-fuga. Leone-Africa. Finalmente ci siamo.
Ma all’ora dovuta non ci sono. O se ci sono, non si sono visti i segnali. L’annunzio è tardivo e a questo punto c’è sotto un mistero che almeno per ora non si può rivelare. Il nostro gruppo è spezzato. Procediamo in ordine sparso. Io giungo tardi, divoro a passi di lupo la banchina, mi getto completamente vestito in acqua. Credevo di aver fatto un tuffo in stile, invece batto in pieno la pancia. Constato che nuotare con le scarpe e tutto è tremendamente difficile, tanto che arrivo al luogo dell’appuntamento quasi sfinito. Ho la sensazione di poter essere inseguito. «Lussu, dov’è la barca?». Lussu, che al vedermi si è illuminato, mi grida pianissimo: «La barca non c’è; non ci sono. Ma dove sono?». Impreca. Mi hanno detto che erano già qui. Non ci sono. Ma dov’è Nitti?... Minuti d’angoscia, i più angosciosi di tutti. Non c’è che dire: siamo fregati.
Le nove sono passate da un pezzo, la visita passerà tra pochi minuti. Anche volendo non si fa più tempo a tornare. Rassegnazione. Gli incidenti occorsi rendono pressoché certo l’arrivo dei militi. È questione di minuti.
Vorrei levarmi i calzoni, che mi stringono maledettamente. No, no, ci rinunzio, non sarebbe dignitoso percorrere in camicia il paese inquadrato tra i militi.
La ritirata è suonata da un pezzo, siamo già teoricamente in galera. Ma non ci muoviamo. Succeda quel che vuol succedere, bisogna giuocare tutto per tutto.
Bum bum: nella calda notte di luglio si odono dei rumori sordi, come di martellate provenienti dal fondo marino. Un’ombra nera si profila, là a ottanta metri verso il porto. Cosa sarà? Non può essere, quello non è il luogo dell’appuntamento. Eppure il cuore ci dice che sono loro, che non possono essere che loro.
Il rumore si fa più distinto, ma ancora non riusciamo a vedere. Aggrappati alla roccia, fissiamo l’ombra fino ad incorporarvicisi. Lussu stende una mano, miracolo, ha trovato una lampadina. La lampadina dimenticata ieri sera sulla roccia. Facciamo segnali, l’ombra si muove, sì, sembra muoversi verso di noi, sono loro, sono loro, i nostri fratelli venuti a liberarci, presto presto. Via a nuoto, ogni tanto drizzando la testa per convincerci che non ci sbagliamo. Ma perdio, vanno alla deriva, verso il porto. Sulla piazzetta del porto c’è il «Signor Direttore» con tutte le autorità a sorbire il gelato. Gli amici tentano, invano, coi remi di contrastare la corrente. La deriva continua, non c’è tempo da perdere. In moto i motori sotto il naso dei miliziotti di guardia. Una corda gettata da bordo si impiglia nell’elica, cerco di salire con l’altra. «Issa», da bordo mi aiutano. Ci sono. Ci siamo. Nitti è là. Lussu non ha ancora scavalcato il bordo che chiede: «Avete armi?». Sì. Lussu sorride.
Il sorriso di Lussu ricorda stranamente Lenin.
Qualche sbuffo sordo, poi il motore riprende. Il rumore ci sembra enorme, tutti debbono sentire (lo sciacquìo era lieve come una carezza, stasera).
Un ultimo sguardo ansioso. Via, partiamo lenti e guardinghi, poi veloci. «Paul, quanti giri?» «1400». «Metti 1800». L’imbarcazione ha un balzo, sgusciamo velocissimi. Nessun segno d’allarme.
L’audace timoniere passa a 45 all’ora in mezzo a una fitta serie di barche da pesca. Le barche danzano furiosamente, i pescatori ci ingiuriano, i bagliori intensi delle lampade illuminano ad ogni poco la barca. Lussu è accovacciato in un angolo con Nitti che batte i denti e sorride. L’equipaggio è raggiante.
Sfiliamo lungo Vulcano, sotto il faro viriamo: i suoi equi raggi investono a intermittenza noi pure. Ci lanciamo nel grande mare Tirreno. Lipari e Vulcano sono ormai grandi ombre ornate di luci.
Una grande tristezza mi prende dopo la tumultuosa gioia iniziale. Contemplo la scia fosforescente, i piccoli lumi, penso a tutti i compagni, agli amici, di noi meno fortunati. Diamo l’ultimo addio a Lipari silenziosamente. A quest’ora l’allarme è dato.
Si ama la cella, si ama il confino, si ama l’antica trincea. Rivedo il mio arrivo all’isola due anni fa.
Vulcano sparisce esso pure e infine il suo faro. Sorge la luna: gialla, immensa, beffarda, accompagnerà noi e gli inseguitori tutta la notte.
Più che la gioia per la liberazione vale in quest’ora il fazioso compiacimento per la beffa giuocata. La natura dell’uomo è maligna. Ci divertiamo a ricostruire le scene. Cannata, col cappello sulle ventitré, ansante, esaltato, ha già perso la testa. Quel vecchio arnese di Questura del maresciallaccio Allò, aguzzino dei confinati, è certo verde di rabbia e gira per il paese mordendosi le mani. Lo abbiamo visto trionfante riaccompagnare in prigione cinque nostri sfortunati predecessori (Canepa, Magri, Domaschi, Michelagnoli, Spangaro) e poi commentare, fregandosi le mani: «Da Lipari non si scappa». Sì, signor «maresciallo», si scappa.
L’ultima isola, Alicudi, cono emergente sul vasto mare, ci accompagna per lungo tratto. Grandi pensieri si accavallano fantasticamente, mentre piccoli ad ogni poco si sovrappongono. Giuoco di luci e di ombre, vita cerebrale che dà le vertigini.
Triangolo di luci tricolori davanti a noi: sono i lumi di posizione di una nave mercantile italiana. Il nocchiero vuole perfezionare la beffa e passa a cinquanta metri. Utile beffa, ché il capitano dissuaderà più tardi i nostri inseguitori dal proseguire. Pare abbia detto: «Inutile insistiate. Vanno come diavoli».
Ascoltiamo la voce amica dei motori Hispano. La barca è bella, il mare continua a essere calmo.
Alba caliginosa su un’acqua smeraldina e palpitante.
Sorge il sole a tenerci compagnia. Lontano, a sinistra, appare Marittimo, ultimo branco di terra italiana. Dietro c’è la base navale. Vorremmo brindare ma ecco, laggiù, la sagoma di una nave da guerra. Allarme a bordo, dodici occhi «per fila sinistra», la rotta è spostata. Qualche minuto d’ansia, poi la nave lentamente scompare mentre ricompaiono le due bottiglie. Si brinda alla libertà del nostro paese, ai nostri cari.
Così continua la corsa per il grande mare. La gigantesca riserva di benzina (300 litri alla partenza), scompare.
A mezzodì l’Africa appare. L’idea di sbarcare su un altro continente seduce. Resti di geografia infantile. La costa viene ora verso di noi con esasperante lentezza. Fa caldo e ora si vorrebbe arrivare. Seduti a poppa, ascoltiamo lo scroscio dell’acqua squarciata, sotto la protezione della bandiera inglese. Alle 15 gettiamo l’ancora a ridosso di un promontorio deserto e tormentato. Primo contatto con la terra libera, terra d’esilio.
Eccoci infine, salvi. I cuori scoppiano, le labbra sorridono involontarie. Come avessimo cambiato pelle. Diciotto ore fa eravamo a Lipari, eppure sembra già tanto lontana nel tempo. Nuovi interessi, nuove speranze, urgono. Il confino è fulmineamente entrato nel reparto ricordi.
Siamo tutti protesi verso l’avvenire. Vogliamo lavorare, combattere, riprendere il nostro posto. Un solo pensiero ci guiderà nella terra ospitale: fare di questa libertà personale faticosamente conquistata uno strumento per la riconquista della libertà di tutto un popolo.
Solo così ci par lecito barattare una prigionia in patria con una libertà in esilio.