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guardinghi, poi veloci. «Paul, quanti giri?» «1400». «Metti 1800». L’imbarcazione ha un balzo, sgusciamo velocissimi. Nessun segno d’allarme.

L’audace timoniere passa a 45 all’ora in mezzo a una fitta serie di barche da pesca. Le barche danzano furiosamente, i pescatori ci ingiuriano, i bagliori intensi delle lampade illuminano ad ogni poco la barca. Lussu è accovacciato in un angolo con Nitti che batte i denti e sorride. L’equipaggio è raggiante.

Sfiliamo lungo Vulcano, sotto il faro viriamo: i suoi equi raggi investono a intermittenza noi pure. Ci lanciamo nel grande mare Tirreno. Lipari e Vulcano sono ormai grandi ombre ornate di luci.

Una grande tristezza mi prende dopo la tumultuosa gioia iniziale. Contemplo la scia fosforescente, i piccoli lumi, penso a tutti i compagni, agli amici, di noi meno fortunati. Diamo l’ultimo addio a Lipari silenziosamente. A quest’ora l’allarme è dato.

Si ama la cella, si ama il confino, si ama l’antica trincea. Rivedo il mio arrivo all’isola due anni fa.

Vulcano sparisce esso pure e infine il suo faro. Sorge la luna: gialla, immensa, beffarda, accompagnerà noi e gli inseguitori tutta la notte.

Più che la gioia per la liberazione vale in quest’ora il fazioso compiacimento per la beffa giuocata. La natura dell’uomo è maligna. Ci divertiamo a ricostruire le scene. Cannata, col cappello sulle ventitré, ansante, esaltato, ha già perso la testa. Quel vecchio arnese di Questura del maresciallaccio Allò,

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