Scritti politici e autobiografici/Fuga in quattro tempi/Terzo tempo

../Secondo tempo

../Quarto tempo IncludiIntestazione 12 febbraio 2022 100% Autobiografie

Fuga in quattro tempi - Secondo tempo Fuga in quattro tempi - Quarto tempo


[p. 42 modifica]Terzo tempo.

Il 17 novembre 1928 siamo stati in acqua venti minuti. Il giorno abbiamo disperatamente zappato il giardino per convincere amici e nemici della stabilità della nostra dimora. Per arrivare al luogo di appuntamento siamo costretti a scorticarci sugli scogli che affiorano. I sacchetti impermeabili coi vestiti si riempiono d’acqua. Fatica orribile, freddo birbone.

Quadro degli evadendi: Lussu, appollaiato su una roccia, con un binocolo. Esce da una pleurite ed è bagnatissimo. Con la sua prepotente fiducia dichiara di non sentir freddo: «Ho la maglia, ho la maglia», [p. 43 modifica]diceva. Come se non avesse nuotato con la maglia.

Dolci faceva il colosso di Rodi tra la roccia di Lussu e un’altra roccia. Nitti stava aggrappato per modo di dire. Ad ogni lieve ondata piombava sulla gamba sinistra di Dolci, il quale a sua volta si sedeva sulla mia testa e mi cacciava sott’acqua. Nitti più freddoloso per natura faceva un involontario concerto coi denti. Io galleggiavo emettendo lievi proteste ogni qual volta la democrazia nittiana (repubblicana) mi spingeva indirettamente sott’acqua.

Trenta minuti sono mille e ottocento secondi. Chi ha atteso un motoscafo che non arriva può dire di aver percorso tutta l’èra cristiana.

Ci scambiavano poche parole rapide. «Vedo un’ombra laggiù».

È la roccia di una punta vicina. — «Sst, sento un rumore». — Tratteniamo tutti il respiro. I denti di Nitti cessano di tambureggiare. — «È un motorino fuori bordo». A cento metri, attraccato alla banchina, sta il piroscafo Messina-Napoli. Luci, ombre che sfilano, urla di facchini, divise di militi.

— Forse non osano avvicinarsi per via del piroscafo.

— Ma no, al contrario. Le luci abbagliano chi sta a terra.

— Ma la prenderanno per una torpe....

Paff. Il gruppo Nitti-Dolci è crollato di nuovo.

— Porca miseria, non puoi star fermo? [p. 44 modifica]

— L’onda mi butta giù. I sacchetti mi tirano giù. Maledetti sacchi.

Silenzio di cinque minuti. Guardiamo gli orologi che sono tutti guasti (meno quello di Lussu). Dio come il tempo passa presto. Siamo alla fine.

Ancora tre minuti, due minuti, un minuto. Ultimo lacerante sguardo. Nulla. Finito. Tutto finito. Lussu, l’esplosivo Lussu, da quando è in azione è diventato di pietra. Sta sulla roccia come un vecchio guerriero della sua terra.

E il binocolo sembra un fucile.

Solo suo commento: «È penoso. Dopo sei mesi è penoso». Lussu è calmo, calmissimo.

Non ci sono dubbi. Torniamo. Ma l’aratro del mondo — come amava dirci spesso — gli è passato sul cuore.

Ciaf, ciaf, ciaf. I tre sono in acqua. Rosselli, balenottero veloce, precede con i sacchi. Si fila presto.

Nuotiamo veloci. Arriviamo a riva, stracciamo i pacchi, i vestiti sono completamente inzuppati. Mentre a fatica li infiliamo suona la tromba fatale. Sono le otto. Bisogna correre a casa.

Partiamo come briganti che han fallito la preda ma son decisi a non farsi acciuffare.

Lussu si avvolge attorno al collo un pantalone bagnato. Ricorderò finché vivo il gesto maestoso con il quale l’avvolgimento fu fatto. Gesto da capo, che si getta la mantella sulla spalla prima di lanciarsi all’attacco. Ma l’epica precipita. Incontriamo un Tizio [p. 45 modifica]che Lussu suppone sia un pescatore. Gli pare una bellissima trovata dire ad alta voce, rivolto a Dolci: «Ma che pescione, ma che pescione!». E accompagna le parole con un largo gesto. Lussu, decisamente, non è un pescatore. E il suo accento non è liparuota. E il pescatore è un confinato. Ci lasciamo al primo vicolo. Gli amici sono impensieriti per il mio ritorno.

Prenderò la via dei campi.

Ma gli occhiali sono perduti, ma gli occhi sono pieni di sale. Non ci vedo.

Tiro via, incespicando spesso. Corro. Casco in pieno su una siepe di filo spinato. Quattro punte mi bucano sopracciglia e zigomi, e, mi pare, un occhio. Orgasmo. Sangue. Mi stropiccio per sapere se vedo. Vedo. Allora via. Nell’ultimo tratto infilo un viottolo. Una bambina guarda — spaventatissima — questo gigantesco coso bagnato. Entro in casa ansante. Corro allo specchio.

La faccia è tutta rossa di sangue. Ora capisco la paura della bambina.

Lavoro febbrile per nascondere i corpi del reato. Anche la carta di permanenza è ridotta a una poltiglia. Mi rivesto. Viene, dopo quindici minuti, la pattuglia.

La mattina dopo ci rivediamo. Come se le avessimo buscate. Lividi di qua, lividi di là. I miei occhi stanno bene, solo la cornea lievemente offesa. Il medico si congratula per il miracolo e crede a una avventura amorosa, mia moglie assente. Nonostante [p. 46 modifica]ch’io viva ritirato o cammini leggendo attentamente un giornale, i compagni ammiccano. C’è chi mi dice: «Le hai prese, eh?».

Io sorrido dolcemente e rispondo: «No, no, sono caduto ieri, in giardino».

Il secondo appuntamento va pure a vuoto. Dolci solo rifà la nuotata e torna ubriaco. Per vincere il freddo s’era bevuto mezzo litro di cognac.

Siamo a terra, letteralmente «a terra». Le tempeste succedono alle tempeste. I nostri nervi, già provati da cinque mesi di attesa, sono percorsi dalla corrente elettrica.

Finalmente sappiamo. La tempesta, un quasi naufragio. Poi guasti.

Sia fatta, Destino, la tua volontà.

Un altro anno di confino ci aspetta.