Satire di Tito Petronio Arbitro/Avvertenza degli editori

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Avvertenza degli editori
Satire di Tito Petronio Arbitro Prefazione del traduttore
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AVVERTENZA


DEGLI EDITORI.



Se avessimo voluto illustrar Petronio, avremmo ricorso al Giornale degli scavi di Pompei, e trovatovi gli esempj di quel raffinamento della depravazione romana, che intonacò la sua laidezza di qualche eleganza, finchè seguì i Greci, e sprofondò in ogni scelleraggine e bruttura quando si lasciò andare alle abiezioni asiatiche. Da Caligola a Commodo, da Nerone a Eliogabalo il progresso è forte; e, per ventura, dei tempi neroniani è Petronio, secondo consentono i migliori critici col nostro Vincenzo Lancetti, e tra gli altri Francesco Bvechelero nella sua bella edizione di Petronio (Berolini apud [p. viii modifica]Weidmannos, 1862); di che se abbiamo le sozze inventive di Elefantide, le abbiam almeno di mano di Giulio Romano.

Il Burmanno dà lode a Petronio di avere rappresentato con parole onestamente velate le cose disoneste che aveva a mano; ma ci pare sollecitudine d’ingegno, che raffina le idee del piacere, non studio di modestia. Sarà quella nube di lino, quell’aer tessuto, (nebula linea, ventum textilem), com’egli chiamava il velo onde si velavano le saltatrici, che il Dufour dice essere state le stesse che quell’almee, le quali hanno conservato nell’Indie la tradizione dell’antica voluttà. Nube che non nascondeva la bellezza, ma ne facea maggior bramosia. Anche questo velo è tolto nella presente versione, e l’idioma italiano, meno sfrontato del latino, ne sente rossore. [p. ix modifica] Vincenzo Lancetti nacque a Cremona nel 1767 e venne a Milano co’ suoi nel 1780. D’ingegno facile e versatile ebbe quella curiosità che lo trasporta per tutti i sentieri della scienza e talora nol lascia mai fermarsi in uno studio e riuscirvi eccellente. Giovanni Gherardini, prima d’essere un gran filologo fu medico; il Lancetti prima d’essere un polistore fu chirurgo. Curioso anche di novità o meglio desideroso del progresso politico consentì co’ novatori francesi e ne seguì la fortuna. Nel 1799 emigrò in Francia; tornò con loro in Italia, s’impiegò in cose di governo e singolarmente presso il Ministero della guerra del primo regno italico. Caduto Napoleone, e venuta questa nobile terra in man dell’Austria, il Lancetti fu custode dell’Archivio militare del caduto governo, e come quel deposito fu trasferito a Verona, [p. x modifica]l’archivista ebbe riposo e pensione. Ond’egli prese più che mai gli studj ad occupazione e conforto, e s’abbandonò alla mania del bibliofilo, mania che pare innocente anche ai despoti. Egli spendeva il tutto in libri, e ci narrano che la moglie gli votasse le tasche prima ch’uscisse di casa, perchè trovandosi senza denaro si temperasse. Egli morì pieno d’anni in Milano il 18 aprile del 1851.

Nel beato rifiorimento delle lettere classiche nei troppo brevi anni del bello italo regno il Lancetti si volse a Petronio, e lo ritrasse, come direbbero i pittori, di colpi, con franchezza e disinvoltura singolare, non lasciando però talora d’essere spada alle scritture, torcendole a suo modo, accettando per buoni e genuini i supplimenti del Nodot, e sciabolando, ci si permetta questa parola che come si vede deriva [p. xi modifica]da Dante, i verbi assai crudelmente, e scegliendo nelle colonne del Mastrofini, le forme ch’eran per l’appunto biasimate o reiette. Onde il dissimo, il posimo, e con doppio barbarismo fecimo de’ baci; e lombardeggiando senza un rispetto al mondo; ma facendosi perdonare i suoi trascorsi con la sua facilità e grazia, come si perdonano i suoi peccati ad un libertino di spirito. Sicchè noi, sebbene ci sentissimo accapponare la carne da tutti i suoi solecismi, non toccammo il dettato seguendo solo a puntino l’edizione bresciana del Bettoni 1806 e resecammo le note che non contenessero spiegazioni del testo e giustificazioni della versione, ma solo raffronti volgari e altre cose inutili. Levammo la dedica ch’egli fece della sua versione a Giuseppe Luoso gran giudice e ministro di giustizia del regno d’Italia, in data di Milano [p. xii modifica]1 dicembre 1806, che ci parve altresì inutile, ma lasciammo intera la sua prefazione, la quale con vivacità e chiarezza dà ragguaglio dell’idee del suo tempo sulla satira di quell’epicureo, che morì come uno stoico, e si vendicò di Nerone con spirito mandandogli forse in questo libro medesimo il racconto delle sue occulte lascivie.

Forsechè il perdono di colpa e pena non si può concedere ai versi, come alla prosa del Lancetti, massime che egli scriveva sotto il regno di Monti e Foscolo, re doppi, come a Sparta e discordi come tutti i re doppi. Ma, sommato tutto, crediamo che questo suo tradurre piaccia più che non quello del Cesari, sì puro e talora a detto dei fiorentini sì improprio; a detto di tutti sì caricato che sarebbe parso un pedante anche a Firenze nel cinquecento.

[p. xiii modifica] Abbiamo aggiunto i frammenti di Petronio che trovammo nella Biblioteca degli scrittori latini di Giuseppe Antonelli (Venezia 1838) tradotti da Marcello Tommasini, e due saggi di traduzione di Luigi Carrer e di Antonio Cesari.

Quel gentile ingegno del Carrer aveva pubblicato nella Strenna Italiana la versione dei primi paragrafi della Satira, e datala poi rivista e corretta all’Antonelli, e il Cesari a petizione del Dottor Carlo Bologna, buon filologo, tentato la Matrona efesina. L’erede del Bologna concesse all’editor veneto il saggio che ora noi ristampiamo, perchè, se errammo a dire che il Cesari piacerebbe al presente meno del Lancetti, possa, com’egli direbbe, riscuotersi, notando però che lo stile affaticato più affatica quando si distende non solo per una breve novella ma per tutto un libro.

[p. xiv modifica] Noi non intendemmo dare un’edizione critica di Petronio; sibbene una versione che lo facesse gustare. Ci parve che il Lancetti potesse ben valere a questo fine, e che il latino non v’avesse luogo. Ammettendo il testo, avremmo dovuto seguire in assai parti l’edizione già citata dal Bvechelero, e rifare il lavoro del Lancetti, peso non dalle nostre braccia, nè ovra da polir con la nostra lima; anche mutilarlo nelle parti che i migliori giudici non credono genuine. Se non che ci parve di dover servire al facile diletto di coloro che d’un libro piacevole non voglion farsi un rompicapo. È vero che a tal ragguaglio avremmo dovuto lasciare parecchi frammenti che non hanno utilità che per la lingua latina, e tradotti non servono. Ma non volemmo mutilare il lavoro del Tommasini, e i belli e gli arguti acquistino grazia o perdono agli altri.

[p. xv modifica] Speriamo che questa ristampa non ci tiri addosso gl’incerti che toccarono ai versi d’Eumolpo. Che siano le Satire di Petronio Arbitro,

Assai la voce lor chiaro l’abbaia.

Nè v’ha luogo l’inganno della vecchierella che guidò male Encolpio: Subinde ut in locum secretiorem venimus centonem anus urbana reiecit et hic, inquit, debes habitare. Senzachè tutto non è osceno in Petronio. Egli è il critico più fine della corruzione romana; ei la dipinge con tal verità che muove più stomaco che riso. Scendiamo in questa tomba come Andreuccio in quell’arca dell’arcivescovo di Napoli per trarne il caro anello; involiamone il bello stile, e le curiose notizie dell’antichità, turandoci il naso.