Santippe/VII
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VII.
La cena dell’amore.
Non si deve credere però che la buona società di Atene, non istimasse Socrate. In questo caso sarebbero stati Beoti, ed essi erano Ateniesi! Certo spendevano più alla bottega di Protagora che a quella di Socrate; ma, oh, buon figliuolo di Sofronisco, come potevi tu pretendere che la gente venisse da te a comperare la Dike, la Enkrateia, la Noùs, quel tremendo esplosivo che è la Noùs? Vendere la Noùs per le strade, sono cose, figlio di Sofronisco, che fanno strabiliare! Sono cose che non poterono avvenire che in Atene, la città della giovinezza del mondo.
— Signori Ateniesi, questa merce si vende per nulla. Si vende per nulla, non perchè non sia preziosa, chè la è preziosissima! Ma è che uno dei due sfuma, o il denaro o la merce! — così diceva Socrate.
E gli Ateniesi lo ascoltavano con curioso piacere: naturalmente, non comperavano.
— Se comperiamo codesta merce, — dicevano, — noi temiamo, o Socrate, di diventare brutti come te! — Lo ascoltavano però volentieri: spesso lo invitavano a cena, e mai gli fecero delle beffe: la qual cosa gli sarebbe certamente accaduta se fosse vissuto in Fiorenza, la città delle beffe. Naturalmente, quando era invitato a cena, il buon uomo si ripuliva alquanto, perchè la società ateniese ci teneva molto all’eleganza: non però sino al grado di noi moderni, in cui i venditori di eleganza — camiciai, sarti, scarpai, ecc. — costituiscono un sindacato della rispettabilità.
E fu così che un giorno Apollodoro vide Socrate tutto ripulito, e siccome questa cosa gli accadeva di rado, Apollodoro meravigliò forte. Non mancava a Socrate che di essere profumato come costumavano tutti allora indistintamente gli Ateniesi.
Allora non c’era il precetto: «Amate il vostro prossimo!» e si suppliva con quest’altro: «Profumate il vostro prossimo!» E così l’uomo accostando il naso al suo prossimo, sentiva subito qualcosa di piacevole. Ma, Socrate preferiva il profumo della verità.
Apollodoro che lo vide così azzimato, meravigliò forte. Apollodoro era un’anima candida e quindi un poco irosa.
— Dove vai, Socrate? Perchè così vestito? Che sollecitudine è la tua di questa pomposità mondana e superflua? Non carichiamo e scarichiamo oggi la Noùs, la Dike?
— Caro, — disse Socrate, — io, come vedi, mi sono fatto bello perchè oggi sono chiamato a cena da persone che sono tutte belle.
Egli era in quel giorno invitato da Callia, un giovane signore, uno sportman — diremmo noi oggi — il quale aveva vinto il grand prix delle Panatenaiche.
— Vieni anche tu, Apollodoro, — disse Socrate.
— Ma non sono invitato! — rispose Apollodoro, il quale appunto come anima candida ed irosa, era anche anima timida.
— E se non sei invitato? Ti invito io. Una persona per bene è sempre ospitata con piacere da un’altra persona per bene.
Così parlò Socrate, e così si avviarono, lui e Apollodoro, alla casa di Callia.
*
Callia abitava una villetta, un po’ fuori di Atene, sulla riva del mare. Una piacevole passeggiata! E i sandali di Socrate e di Apollodoro andavano allegramente.
Appena Socrate fu in vista della villa di Callia, vide molti e bei giovani che lo attendevano.
Callia si fece incontro a Socrate e lo salutò con queste parole:
— Ben venuto, Socrate: noi ti abbiamo invitato a cena, perchè tu, essendo libero da cure mondane, farai più onore a noi che se avessimo invitato Anito, il presidente della Repubblica, o Meleto il basileo, o qualsiasi altro arconte o generale.
(Mai uno sportman dei nostri tempi sarebbe stato capace di così intelligenti e graziose espressioni!)
*
E quando tutti si furono acconciati ne’ loro divani attorno alla mensa, data l’acqua rosata alle dita, disse Callia bonariamente ai servi: — Fate da voi, ragazzi, e fate le cose per bene, perchè noi vogliamo mangiare e bere in pace.
«Ma, e le signore? non c’erano al banchetto di quel gentleman le signore?» potrà domandare qualche signora, se qualche signora sarà lettrice di questo libro.
«No! a quei tempi le signore erano escluse dai banchetti. Servivano soltanto come decorazione; muta, però.
Ma è imaginabile, signora, Socrate che va alla cena di Callia con Santippe a braccetto? È stato Cristo, signora, che ha introdotto le signore nei banchetti: una marsina nera ed uno scollato bianco, in gran contegno. Gli Ateniesi non usavano nemmeno il contegno, perchè stavano sdraiati sui sofà, ed i fiori, anzichè sulla tavola, erano collocati sulle teste.
«Oh, gli orribili Ateniesi, sdraiati sui sofà senza l’intervento del sesso gentile! Chi sa quali scostumatezze!»
«Pur troppo, signora! L’uomo, o signora, è in alcuni rari casi di tipo apollineo, qualche rara volta di tipo dionisiaco, ma più spesso di tipo faunico, cioè bestia, e allora ruzzola sotto la tavola tanto oggi come allora.»
*
La cena passò lietamente. I piatti erano d’argento e non usava la seccatura di mutarli.
Finita la cena, fu fatta entrare una leggiadrissima giovinetta, vestita di un semplice kiton, che null’altro era che un quadratello di stoffa, come un vessillo, ma messo con garbo: allora le Ateniesi belle vestivano tutte così, con molta semplicità; come oggi, che le signore portano certe toilette, come dire? semplici.
Un giovane aulete, o suonatore di flauto, accompagnava la fanciulla.
Questi intonò il suono, e poco dopo, ella, come indolente, slegò e scosse le membra della sua statua: le animò un po’ per volta, poi furentemente, freneticamente. Ora ella, lieve, si trascinava dietro il ritmo dell’aulete che, a fatica, con il collo turgido, la seguiva zufolando.
I signori, sdraiati sui loro sofà, contemplavano.
D’improvviso la fanciulla ricompose le membra della sua statua; cessò la danza: l’aulete potè allora trarre il respiro dal petto profondo.
— Quella fanciulla pare vuota di dentro come la locusta! — disse ammirando più d’uno.
— Signori, — disse Filippo, uno dei commensali, — questo è effetto della danza, esercizio utilissimo e graziosissimo. Io ho il ventre grosso, e voglio diventare grazioso e leggero. Piglierò lezioni di danza. Anche Socrate ha il ventre grosso e pesante e deve ballare, se vuole diventare grazioso.
— Tutti i giorni, o Filippo, — disse Socrate, — sta certo, io faccio in casa esercizi di ballo.
— Così, vedi, convien fare, — disse Filippo. — Tu, fatti in costà, — e accennando alla donna che si scostasse, Filippo balzò dal sofà e si mise a ballare col suo grosso ventre.
Spumeggiò di risa la gioia del convito.
— Da bere, — ordinò Callia.
Tutti avevano gran sete.
— Portate i cratèri più grandi, — ordinò Callia ai servi.
— Callia, se permetti, — disse Socrate, — ordina i bicchieri più piccoli. Il vino è cosa miracolosa come la pianta della mandragora: addormenta il dolore, e sveglia la gioia, come l’olio sveglia la fiamma. Ma in piccole tazze. Noi siamo come la sementa della terra. Se l’acqua diluvia, la sementa marcisce; se invece scendono piogge soavi, ecco tutta la bella fiorita della primavera.
I servi recarono in giro piccole tazze.
Disse per primo Callia: — Io bevo alla Ricchezza, alla mia dolce e docile Ricchezza, dispensiera di libertà. Essa mi concede di onorare con bei simposi, in questa bella casa, con tanti servi, con questo inebriante vino, i cari amici.
Disse un altro dei convitati: — Ed io, o Callia, propino e bevo — perchè tu ci offri questo nobile vino — alla mia grande, vergine, libera Povertà. Divina cosa, amici, la Povertà! Già tu la custodisci senza forzieri, con la dolce negligenza essa fruttifica, il dente dell’invidia non la morde; i figli non ti augurano di andar presto a ritrovare Caronte. Anch’io sono libero, o Callia, io con la mia povertà!
(Queste cose si potevano dire allora quasi sul serio, per tante ragioni per le quali la povertà non aveva l’odore così cadaverico che ha oggi).
Un giovanetto non ancora segnato nel volto di alcuna lanugine, inghirlandata la breve fronte di rose come un nume, fissando Callia con ferme pupille, parlò così per terzo e come devotamente: — Io mi glorio e mi esalto della mia, oh fuggitiva bellezza! la quale mi concede di essere caro a te, o Callia, o unico, o solo mio bene!
(E anche ciò poteva a quei tempi esser detto, se è permessa la contraddizione, naturalmente. Le signore non potevano protestare).
— Permettete allora, signori ed amici, — disse quel tal Filippo, — che anch’io dica la mia. Io mi esalto e glorio perchè son nato buffone. Socrate nostro non può profferire parola che non sia seria; io invece non posso dir cosa che non sia buffonesca. Dire una cosa seria è per me impossibile: come diventare immortale. Socrate dice di sentire l’ambrosia di non so qual Nume o Demone di dentro. Io sento dentro di me un onesto suino che annusa l’ambrosia delle buone pietanze....
— Ehi, ehi! — interruppe d’un tratto il buffone Filippo. — Si può sapere che cosa fanno quei due laggiù? Ma quella è la danza, diciamo così, del ventre!
Infatti la bella donna ed il giovane aulete, rimasti senza occupazione, avevano per conto loro attaccata una danza, una danza.... Come dire? Un’abbominevole danza: quella che è detta oggi la danza degli Apaches, la danza dei selvaggi che piace anche alla nostra buona società. Io credo che sia una riproduzione dell’antica danza che i due primi selvaggi, Adamo ed Eva, danzarono la prima volta ed ebbe per conseguenza Caino ed Abele: una specie di tango.
La donna era di un verismo assai perturbante.
— Smetti, ragazza, — gridò Filippo. — Mi si desta Afrodite, e sorge Eros.
Cosa strana! In tutti si destava Afrodite, ed anche Eros.
E poichè i due smisero, furono mandati via.
— Per Giove, — esclamò Callia, — sapete, amici, che Eros, Amore, è un dio misterioso anche lui! Misteriosa certamente è Demetra: misteriosa è Minerva, ma anche Amore non ischerza!
— E il modo come si manifesta!
— E come è invincibile!
— E come è indomabile!
— Il più giovane ed il più bello degli Iddii, perchè chi può imaginare, signori, Amore non dirò con la barba bianca, ma con la barba?
— E nel tempo stesso, signori, il più vecchio fra gli Iddii, perchè come sarebbe nato Giove se prima non c’era Amore?
— E il più corroborante fra gli Iddii! Più assai di Dioniso di cui poco fa parlava Socrate! Non ci fu che quel vile di Paride, che quando era preso da Eros, si sdraiava sul letto: ma io allora sbranerei i leoni, lotterei coi centauri, coi Lapiti, pur di arrivare all’oggetto che concupisco!
— La più bella istituzione del mondo è Eros!
— La più piacevole!
— La più esilarante!
— Sparsa dovunque: dovunque ci si volta, ecco Amore!
Così dissero i convitati di Callia in lode d’Amore.
*
«Oh, gli indecenti maschi avvinazzati! gli orribili Ateniesi!» — potrebbe qui esclamare la mia ideale signora — «I profanatori, non i lodatori d’Amore!»
«Ecco, signora: io credo piuttosto che tutto provenga da un diverso modo di giudicare l’Amore. Per noi moderni l’Amore è una cosa così complicata, così difficile, così piena di conseguenza! E poi troppo ideale: e spesso l’ideale se ne va, e non rimane, pardon!, che il pitale d’Amore.
Per gli Elleni invece era una cosa più semplice. Essi volevano soltanto conoscere che cosa era quel delizioso furore di Eros: un problema scientifico! E perciò i nostri convitati stanno per dire cose un po’ sciocchine, un po’ puerili specialmente per chi è abituato alla nostra così spaventosa psicologia dell’Amore; e, forse, un po’ invereconde: ma tutto il loro discorso non fu inverecondo perchè nella loro mente Eros si presentava come un problema scientifico.
*
Disse, dunque, uno dei commensali:
— Come si spiega, o amici, l’arduo problema che c’è l’amore degli eroi e l’amore, diremo così, dei suini?
— È semplicissimo, — rispose un altro dei commensali. — Afrodite, la mamma di Amore, ha avuto due figliuoli; cioè due Amorini, un Amorino eroe e un Amorino maiale, in quanto che la nobile dea ha creduto di non far torto a nessuno....
— Ma, e perchè, — chiese un terzo, — due putti, uno maschio ed uno femmina, sono a un dipresso uguali, sino ad una certa età: ridono, scherzano insieme; poi viene un bel momento che la puttina trema davanti al maschio; ha paura e fugge; fugge, ma lascia andare tutte le chiome lunghe lunghe per essere presa, e quando è presa, non piange ma ride? Se poi giungono alla vecchiezza, perchè tornano uguali, tornano a giocare in pace innocente ancora, come Filemone e Bauci?
— E perchè, — disse un altro, — questa caccia furibonda e continua; e perchè, questo è ben un mistero! perchè qualche volta avviene che un maschio rincorre un altro maschio; e qualche volta una femmina corre dietro una femmina?
— Oh, — disse un altro, — la spiegazione è abbastanza semplice: Giove quando creò la creatura umana, si pensò di congegnarla nel modo più compiuto e dilettevole; e perciò la combinò per tal guisa che in un solo individuo ci fosse maschio e femmina insieme. In principio, dunque, non esisteva l’uomo e la donna: ma soltanto l’androgìno, cioè l’uomo-donna.
Chi sa come andarono le cose? Giove dice che l’androgìno era prepotente, cattivo ed ingrato. V’è chi dice che Giove si stancò dell’androgìno, nello stesso modo che i gran signori si stancano dello stesso balocco. Il fatto è che Giove si mise a spaccare tutti gli androgìni in due, come si fa con le acciughe, e diceva: Se non siete buoni, vi spaccherò in quattro, ed anche in otto! Ed ecco che, fatta appena questa operazione, la metà maschia si mise a cercare la sua metà femmina, spasimando come tante biscie tagliate. Questa cosa è tanto vera che anche oggi la moglie è chiamata la mia «metà». Ma chi sa dove si trova la sua metà? Ed è per questo che quasi nessuno è contento della sua metà, ma desidera molto di mutare la propria metà, per vedere se trova quella che già combinava con lui. Spesso poi avviene che una metà maschia si attacca ad un’altra metà maschia, ed una metà femmina si appiccica con un’altra metà femmina, tanto è il cieco furore della caccia!
Così spiegò uno dei convitati, e tutti furono soddisfattissimi.
Tutte queste spiegazioni non erano propriamente la verità: ma è necessaria agli uomini la verità quando basta agli uomini una fola?
Ora siccome ognuno aveva detta la sua, così si volle sentire anche Socrate: ed ecco, quest’uomo, dissimile da tutti gli altri uomini, venir fuori, non con un’altra storiella piacevole, ma con una di quelle cose lugubri che si chiamano verità.
— Perdonate, signori ed amici, — disse, — la mia dappocaggine, la mia inguaribile dappocaggine, per effetto della quale non mi è possibile dire altra cosa che non sia la verità. Vi devo dire che cos’è Amore? Amore è una volontà di vivere, un disperato e oscuro bisogno che ogni essere mortale sente di generare la sua immortalità. Perciò ogni essere creato combatte e vive in difesa del suo germoglio, cioè de’ suoi figli, che formano la sua immortalità.
— Ma allora, — esclamò con dolce stupore il giovanetto che si era vantato della sua bellezza, — i miei amori sarebbero riprovevoli amori perchè io non germoglio.
— Allora, Socrate, — disse Callia, — Amore non sarebbe precisamente il Piacere!
— Il Piacere, — ripetè Socrate, — serve per la vita, caro Callia, ma non è la vita.
— Permettimi, caro Socrate, di osservarti, — disse Filippo, — che le tue opinioni sono piuttosto melanconiche e restrittive. Io per me mi sento perfettamente suino o faunico che tu voglia dire; io non ho alcun bisogno di immortalità; anzi ho paura dell’immortalità. Da bere, da bere, Callia, e in grandi crateri, questa volta, anche se a Socrate non pare. Tu ci vuoi far digerire male la gioia del convito!
*
Povero Socrate, così buono e intelligente! Egli non aveva nessuna intenzione di disturbare la gioia di quel convito: era quella malattia della verità!
E chi non beve il dolce vino della favola, ma si ostina a bere l’acqua cruda della verità, corre il rischio di rotolare e far mala fine, come San Francesco gran bevitore d’acqua, che, per contemplare l’alta verità, rotolò dal monte della Vernia.
*
Sul far dell’alba ognuno se ne tornò alle sue case.
Ma Socrate era ancora lì con il suo buon Apollodoro sulla riva del mare.
Parlò allora Apollodoro, che per timidezza mai aveva parlato durante il banchetto.
— Quale splendente verità tu hai detto, Socrate mio, — esclamò Apollodoro con venerazione, — più bella e luminosa dell’occhio del sole che ora sorge e accarezza l’Acropoli.
— Considera, considera, Apollodoro mio, — diceva Socrate, — anche queste altre verità.
— Quali, Socrate.
— Ecco: sai tu, Apollodoro, quanti figliuoli abbia avuto Giove?
— Impossibile, Socrate. Chi li può numerare?
— Vero! I figliuoli di Giove sono innumerevoli. Però osserverai una cosa: che, fatta una sola eccezione per la dea Minerva la quale venne fuori da per sè dal cervello di Giove e non succhiò latte di donna, tutti gli altri figliuoli Giove li ha generati dalle più belle femmine del mondo, tutte bianche, tutte docili, tutte devote, tutte silenziose: Elettra, Europa, Leda, Alcmena! È strabiliante, Apollodoro, ma è così, proprio così! Il termine più alto della bellezza che la nostra mente contempla, è la donna; e noi cerchiamo appunto di procreare nella maggior bellezza per creare la immortalità più bella.
— Sublime verità tu hai detto, o Socrate, — rispose l’estatico Apollodoro. — Oh, ecco che spiego ora a me stesso perchè anch’io, che disprezzo tutte le cose mondane, pure non so staccare questi peccanti miei occhi dalla bianchezza della donna! E anche tu la guardi, Socrate.
Socrate sospirò profondamente.
— Ah, perchè — proseguì Apollodoro — le belle donne allontanano invece lo sguardo da te? Perchè tu, come Giove, non puoi ingannare la loro stupidità, trasformandoti in cigno, in pioggia d’oro, in bianco toro come fece quel Dio? Chi sa quale generazione immortale verrebbe fuori! Altro che Ercole! altro che Achille! altro che Castore e Polluce! Oh, ecco Minerva, vedi, o Socrate, — esclamò Apollodoro, — la divina Minerva dovrebbe congiungersi con te.
— La quale sventuratamente — disse Socrate sorridendo — è nata sterile.
Apollodoro, col capo in giù, pensava alla singolare fatalità che Minerva era sterile, e solo quella bianca oca di Leda fu capace di covare quattro ova per volta!
— Però, — disse Socrate levando la faccia camusa e sorridendo alquanto, tu puoi generare anche con Minerva!
— Generare con Minerva? — chiese Apollodoro. — E che nascerà?
— Nascerà l’idea! disse Socrate.
(Beatrice, l’amante di Dante, infatti, non soltanto fu sterile, ma non aveva che due grandi occhi ed un manto; eppure generò la Divina Commedia).
— Sublime, generare l’idea! Questa è la grande immortalità! — esclamò Apollodoro.
Ma ora anche Socrate ritornava col capo all’ingiù.
Forse pensava, come fosse complicato quel problema di Amore, che egli aveva al banchetto di Callia enunciato un po’ troppo semplicemente. Dall’Amore del suino per la bella suina allo scopo di immortalare la razza dei suini, all’Amore di Dante per la scarnificata Beatrice, è tutta una scala indefinita: ma una femmina è indispensabile: o suina o Beatrice.
Ahimè! forse la fola dell’androgìno valeva quanto la verità enunciata da Socrate.
Essi così si stavano muti sulla riva dell’azzurro mare al mattino, e il sole indorava l’Acropoli, quando Apollodoro esclamò:
— Socrate, guardati! ecco viene Santippe.
— Fuggiamo, figliuolo mio, — disse Socrate.
— Impossibile! Ti ha riconosciuto. Senti già le alte strida?
Era Santippe, infatti. Ella si era imbattuta nella comitiva dei convitati di Callia, che ritornavano in Atene. Aveva chiesto di Socrate e quelli ridevano.
— Maledetti bardassi! cinedi porci! — aveva detto contro le loro risa, ed aveva seguitato a girare per ritrovarlo quel vagabondo di suo marito.
— Eccolo qui, — disse, — che non si accontenta di aver persa la notte; ma anche il mattino! A casa, dico, che tu sei ubriaco fradicio!
E presolo per la mano se lo trascinava dietro a gran passi. — Ma che proprio tutto io, tutto io? io accendere il fuoco? io scopare? e tu in giro a far gozzoviglia, muso da cane?
*
E quando Socrate fu giunto a casa, un visetto, un po’ camuso anche lui, si levò dadi stracci della sua cuna: due occhietti luccicarono, due manine batterono a palma a palma: File pappos, Papà mio!
Era il suo ultimo germoglio.