Santippe/VI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | V | VII | ► |
VI.
Come Santippe ferì Socrate nel cuore.
Santippe lo aveva ferito nel cuore.
Non perchè aveva detto: «O tu sei un impostore, o tu sei un vecchio rimbambito»; ma perchè la buona donna aveva detto: «Fa, almeno, come Protagora!»
Il nome di Protagora era l’ombra nella mente di Socrate.
Protagora era, prima di tutto, un signore molto irreprensibile; la sua clamide era fluente, i suoi calzari erano eleganti, la sua chioma era profumata. Socrate, invece, benchè gli piacessero le chiome fluenti, non possedeva la chioma; i suoi calzari erano in uno stato deplorevole, come abbiamo osservato; ed il suo mantello non teneva più i punti, come aveva dichiarato Santippe.
Protagora era un personaggio straordinariamente affascinatore e simpaticissimo; la sua parola scendeva giù per le orecchie di tutti come una musica facile ed uguale.
Poteva forse Protagora sembrare orgoglioso, in quanto che affermava di essere sapiente in ogni scibile e de quibusdam aliis; mentre Socrate affermava con quella sua aria melensa, come aveva notato anche Santippe, di non sapere niente.
Sì, ma il vero è che Protagora si sarebbe ben guardato dal prendere in giro il prossimo come faceva Socrate e di obbligare la gente a furia di domande, a confessare che anche essi non sapevano niente.
Il linguaggio di Socrate era piano e le sue imagini erano sensibili ad ogni intelligenza. «Ma se io ti comprendo, tu sei uguale a me.» Il linguaggio di Protagora era spesso artificiosamente drappeggiato. «Ma se io non ti comprendo, tu sei superiore a me!» Ma Protagora aveva tutti i ferri del mestiere nel suo arsenale dialettico; tutti, fuorchè l’ironia: ma Protagora era squisitamente gentile, e se egli era sapiente, «Tutti, tutti, signori Ateniesi, ornatissimi signori Ateniesi, potete — diceva Protagora — diventare sapienti come me».
Ah, sì; quel signore fece alle dottrine di Socrate la più implacabile delle concorrenze, e bisogna ben confessare che questa concorrenza dura anche oggi.
Protagora poteva aver press’a poco l’età di Socrate, ma non era Ateniese. Siccome però Atene era la città più intellettuale della Grecia, così vi capitava spesso.
E quando egli vi capitava, non aveva bisogno di sbarcare ad un hôtel, perchè tutti i signori di Atene andavano a gara per averlo ospite nelle loro case.
Egli faceva anche, qualche volta, dei graziosi giuochi di prestigio.
«Intelligentissimi signori Ateniesi. — diceva, — io prendo questa pallina nera che, supponiamo, rappresenta la Giustizia. La prendo con la mano destra, delicatamente così! Passa, passa, pallina! La pallina è passata nella mano sinistra. Adesso prendo la bacchetta magica, dico: un, due, tre! Pallina, scompari! E la pallina è scomparsa!».
Tutto ciò si ripete anche oggi: ma bisogna conoscere il trucco.
Ora il popolo Ateniese era molto giovane. La generazione precedente si era affaticata, in una lotta spaventosa: aveva sparso fiumi di sangue combattendo contro una barbarie immane che lo aveva minacciato di soffocazione. Ne era uscito vittorioso, perciò ora amava divertirsi e di imparare i giuochi di prestigio, e il loro piacevole trucco.
Per queste ragioni, tutti quelli che avevano figliuoli, pregavano Protagora perchè desse loro delle lezioni private. Molti che aspiravano alla carriera politica offrivano grosse somme per sapere fare anche loro bene quei giuochi così graziosi delle palline. I giovani di Atene buttarono via dei capitali per potere imparare a parlar bene come Protagora.
Ed è vero che Protagora era un uomo onestissimo, al punto da dichiarare: «Cari signori, fissate voi la ricompensa che credete di darmi; ma non negatemi la ricompensa, perchè chi mi toglie il denaro, mi toglie l’onore».
Fu allora che il ministro della Pubblica Istruzione in Atene propose a Protagora un grosso stipendio, se si fosse degnato di fissare la sua dimora in quella città. Sventuratamente egli non potè aderire perchè era aspettato in Italia; nelle città d’Italia del sud, e ciò unicamente perchè a quei tempi non esistevano le città dell’Italia del nord.
*
Un giorno Socrate aveva trovato che le strade di Atene erano spopolate. Era arrivato Protagora, e tutti erano andati a sentirlo.
Anche gli amici di Socrate erano andati a sentirlo.
Platone, che aspirava, sino dalla nascita, a diventare sopra tutto un illustre sapiente accademico, era andato a sentirlo.
Alcibiade, che aspirava all’alta politica, era andato a sentirlo.
Socrate non incontrò che Apollodoro, che era un’anima candida; e Fedone, l’adorabile adolescente che adorava Socrate, perchè Socrate gli aveva trasfuso di dentro il divino martirio dell’anima.
— Che tristezza, — diceva Fedone, — pensare che tu, Socrate, la devi quasi fermare per il petto la gente perchè ti stia ad ascoltare; e quello lì, invece, basta che arrivi in Atene perchè tutti mettano da parte i loro affari per andare alle sue conferenze. Eppure tu dici le cose come veramente sono. Come sono spregevoli e vani questi Ateniesi!
— No, — disse Apollodoro ancor più tristamente. — È che il popolo ateniese è un popolo gaio. La bellezza, l’illusione, la gioia, ecco quello che il popolo ateniese sente: qui tutti sono d’accordo. Ma tu sei melanconico senza fine, Socrate.
— Ma se, amici miei, — disse Socrate, — voi stessi mi chiamate Sileno il buono, l’allegro giullare!
— No, Socrate! Triste è la tua anima, tristi sono le tue parole. Tu dici di rispettare le leggi della nostra città, ma io sento che tutto l’edificio fabbricato dagli uomini trema con sinistri rumori dalle fondamenta alle tue parole.
— Io sono l’uomo mansueto, — disse Socrate.
— Ma sotto la tua mansuetudine, c’è un terrore di ribellione. Sai che spesso ho paura per te, Socrate.
— Paura? di che? degli uomini? della morte, forse? Temere la morte null’altra cosa è che sembrare di essere saggio, senza essere.
*
Ma così conversando, essi erano oramai giunti alla casa di Callia, il quale aveva l’alto onore di ospitare Protagora. L’atrio ora pieno della più eletta società di Atene: nelle prime poltrone sedevano gli Arconti, e Protagora non era solo, ma aveva con sè alcuni suoi mammalucchi, dacchè il ventre di Protagora era fecondo. Esso seguita a generare anche oggi.
Il silenzio era meraviglioso, tanto che Socrate, Apollodoro e Fedone poterono ascoltare assai bene.
— Socrate? Oh, ecco Socrate! Salute a te, Socrate, — disse, con ben paludata parola, Protagora non appena scorse Socrate in fondo alla sala, — salute a te, Socrate! Anche noi, onorevoli signori Ateniesi, intendiamo, come il vostro concittadino Socrate, informare il carattere e l’intelligenza dei nobili giovani Ateniesi, educarli nelle virtù pubbliche e private. Anche noi adoriamo la verità. Ma dove è la verità? Intelligentissimi signori Ateniesi, se gli Dei non abitassero troppo lontano, se la nostra vita non fosse così breve e così incerta, noi potremmo benissimo sapere che cosa è la verità! Ma non tutti noi, umanissimi uditori, abbiamo, come il vostro fortunato concittadino Socrate, la rara fortuna di possedere un dio suggeritore, un demone buono, nelle proprie tasche. La verità dunque bisogna che ce la fabbrichiamo noi, secondo noi, tagliata sulla nostra misura! Che vale, intelligentissimi signori Ateniesi, possedere l’arco di Ulisse se nessuno lo può tendere? Che vale un grappolo d’uva, se è perennemente acerbo? Una cosa si deve da noi chiamare vera, o signori, in quanto che, messa in pratica, rende. E se non rende, non è verità. E perciò non esiste nel mondo reale una verità unica, ma esistono due verità, tre verità, molte verità, anzi tante verità quanti sono i gusti ed i capricci degli uomini; e così non esiste una sola virtù ma esistono molte virtù. Non esiste un solo Diritto, ma esistono molti Diritti. V’è il diritto dell’agnello; ma vi è anche il diritto del lupo! Esiste evidentemente la virtù di chi muore per la patria; ma esiste anche la virtù di chi canta i morti per la patria, come esiste la virtù di chi si conserva in buona salute per la patria. Esiste certamente, come dice l’illustre cittadino vostro, Socrate, la glandola della coscienza; ma non stimolàtela! Anzi, se avete coraggio, estirpatela, e canterete tutte le mattine vispi come canerini, e vi sembrerà ogni mattina di tornare gioiosamente a vivere!
Dopo di che tutti, cominciando dai signori Arconti, andarono a congratularsi per la bella conferenza col signor Protagora.
— Ma è evidente, — disse Meleto, l’arconte basileo, che era assai adiposo e rappresentava la suprema autorità religiosa e giudiziaria di Atene, — che se tutti avessero la sola virtù di morire per la patria, chi resterebbe per fare gli elenchi dei morti per la patria, chi resterebbe per fare le commemorazioni e le poesie pei morti per la patria?
Anche Socrate andò a congratularsi con Protagora.
Disse Socrate: — Voi commerciate splendidamente al minuto nei commestibili dell’anima.
— E voi, disse di rimando graziosamente Protagora a Socrate, commerciate un po’ troppo all’ingrosso. Sono partite colossali. Scusate, chi volete che le comperi? Soltanto gli Immortali Iddii le potrebbero comperare. Ma gli Iddii non ne hanno bisogno. Agli uomini, — bisbigliò a pena l’insigne Protagora, — occorre vendere bagattelle, possibilmente piacevoli. E poi, in confidenza, virtù e vizio, rose e cipolle sono tutte produzioni del suolo. Credo che voi soffriate di esaltazioni liriche, Socrate carissimo.
*
Strano! Dal tempo di Protagora e di Socrate i sistemi filosofici si sono susseguiti come le onde del mare: erti di idealità sino alle nuvolo, cupi di pessimismo sin giù negli abissi! Gli uomini come tante navicelle di carta, hanno seguitato a ballare su e giù per quelle onde della filosofia, felici di essere giù, felici di essere su.
Non ci fu che qualche individuo stravagante a dichiararsene insoddisfatto, come per esempio Messer Lò, professore medievale nell’università di Parigi, il quale, dopo essere stato sballottato a lungo in cerca della perfetta letizia, finì col dire: Linquo coax ranis (lascio il gracchiare alle rane), e terminò col farsi frate, secondo il costume di quel tempo; come Arrigo Heine, il quale dichiarò che, dopo avere amoreggiato con tutti i possibili sistemi filosofici senza rimanerne soddisfatto, — come Messalina dopo una notte di orgia, — si veniva a trovare sullo stesso fondamento su cui si trovava il povero negro, lo zio Tom.
Ma non c’è dubbio che fra i tanti sistemi filosofici, quello dell’illustre Protagora è il solo che gli uomini abbiano coscienziosamente capito ed anche applicato.
Gli Arconti e i Lucomoni vanno sempre a congratularsi con Protagora e coi suoi mammalucchi.
I servizi di Socrate non furono niente affatto riconosciuti dallo Stato; e quella volta che il Governo si occupò seriamente di lui, fu per fargli bere la cicuta.
*
Certo, Socrate, lui come lui, non ha l’onore di aver costruito nessun edificio, nessun sistema filosofico, anche perchè non gliene lasciarono il tempo, avendogli fatto bere la cicuta.
Di lui non rimase che una pietra quadrangolare di marmo.
Ma io lo vedo ancora col suo melanconico sorriso di Sileno, quel povero figlio di Sofronisco scultore e di Fenarete, la levatrice. Egli sta presso la sua pietra quadrangolare. Io lo vedo ancora. Dal convito d’amore escono gli amici alquanto ebbri e con le rose sfiorite oramai; gli amici e le amiche fra cui stanno le belle cortigiane. Essi vanno a riposare. Socrate va alla bella fontana, si lava e si purifica. Sorge il sole sull’acropoli. Egli riprende il suo dialogo eterno: «Di’, o uomo meraviglioso, vogliamo noi diventare belli e buoni?»
E gli uomini, da tanti secoli, non hanno sovrapposto una pietra su quella pietra.
Ma vero è anche che molti uomini, vicini a noi, dopo l’esperimento della vita, vollero morire per quella terra, ed in quella piccola terra che fu la patria di Socrate, considerandola come uguale al vasto mondo.