Santippe/IX
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IX.
Oh, povera Santippe!
Non a pena Santippe venne a sapere che suo marito era stato messo in prigione, ne fu molto perturbata.
«Lo dicevo io che una volta o l’altra ci sarebbe capitato addosso qualcosa di serio! Eh, avessi io sposato un onesto trippaio! Suvvia, figliuoli, vestitevi con i peggiori abiti che avete (già di buoni non ne avete) e andiamo a metterci sulla porta per dove devono passare i giudici».
I signori giudici giurati passavano gravemente in lunga fila di cento giurati, tutti vestiti coi manti bianchi. Essi si recavano al dikasterio, che vuol dire la casa di Dike, quella tale vergine e troppo delicata Giustizia, la quale vedendo che non c’era modo di salvare il suo onore, tornò su ancora in cielo: e allora ci andò ad abitare al dikasterio una buona donna più accomodante, la quale non essendo niente affatto vergine, era corazzata contro gli oltraggi degli uomini, da ogni parte, con triplice cuoio, come le navi di Anito.
Ora Santippe all’angolo del dikasterio, faceva insieme coi figliuoli, gran corrotto, e tutti quei suoi cappellacci rossi e quelle sue strida mettevano quasi paura, anche ai signori giurati.
— Meschini noi! — urlava. — Or che faremo noi, deserti del nostro uomo? Adess’adesso vengo su anch’io nel dikasterio, e ci mettiamo tutti noi, insieme con lui, a piangere!
Ma tutti i signori giurati erano di una gravità nera ed impressionante benchè vestiti di bianco.
Mostravano verso Santippe la palla bianca degli occhi e le palme delle mani ai due lati degli occhi come per dire: «È una cosa grave, grave, grave!»
E qualcuno pur le diceva: — Pare si tratti di un delitto contro lo Stato. Crimen lesae maiestatis!
— Proditionis insimulatus! — diceva un altro.
— L’arconte basileo, oimè, sostiene l’accusa! — diceva un terzo.
— Mah! — sospirava un quarto.
— Sentiremo quello che risponde lui! Ma non sa nè parlare nè star zitto!
— Voi, ad ogni buon conto, la mia buona donna, tenetevi qui pronta con questi marmocchi; al momento opportuno, quando si farà la votazione, vi manderemo a chiamare....
E qualcuno più disposto a pietà, diceva piano ai colleghi: — Se non fosse una cosa sì grave, potrebbe costei tentar di inviare qualche donativo ad Anito....
— Infatti, — rispondeva ancor più piano il collega, — mùnera placant hominesque deosque.... Ma che può mandare costei?
— Che vai dicendo? — chiedeva Santippe.
— Diciamo, buona donna, che Anito è di animo sensibile.
Così dicevano, nei primi giorni del processo, i giurati alla buona donna, e lei si stava tutto il dì alla porta del dikasterio. Bene avrebbe elevato nell’aula le strida, e fatto gran corretto non appena l’avessero chiamata!
Mai però Santippe si sarebbe imaginata una simile tragedia, la quale avrebbe travolto anche il suo umile nome nella rivista della storia!
Ma passavano i giorni, e Santippe non era chiamata su in tribunale. L’aspetto dei signori giurati era sempre più nero ed enigmatico.
— Bisogna che vi armiate di coraggio, la mia donna, — disse uno dei giurati; — ma le cose si mettono al male, e quel disgraziato si vuol rovinare! Invece di star zitto e lasciar parlare il suo avvocato, parla lui! Invece di lacrimare o di strapparsi quei quattro cernecchi che gli avanzano in testa, sorride, sorride proprio in faccia all’arconte basileo, o in faccia ad Anito...., e in faccia a noi! Pare che si sia come fissato; e i suoi occhi spenti guardano cose lontane! Mah! — e le teste dei giudici più pietosi crollavano compassionevolmente sopra i candidi manti.
— Ma lo sapete pure che è un insensato! — urlava Santippe. — Quando vennero a casa a prenderlo, sorrideva anche allora, e si lasciò portar via come un pecorino. Io gli volevo sformare il muso a quei sicofanti, ma lui mi disse di stare cheta e di non contrastare.
— Non è una buona ragione essere insensato, — rispondevano gravemente i giurati. — Certo parla come insensato. Egli ha dichiarato che è dolentissimo; ma che per far piacere ad Anito e Meleto non può, specialmente alla sua età, mutare la sua vita. Lo vorrebbe anche, ma il suo Dio non vuole, il suo Dio, capite voi? che per quello che anche noi se ne può capire, è più misterioso di Demetra, più intelligente di Minerva, più autorevole di Giove stesso. È l’accusa di Meleto! E lui, infelice, la ribadisce!
— Meleto e Anito allora hanno ragione!
— Crimen impietatis, oltre che crimen lesae maiestatis! — mormoravano i giudici del popolo e non volgevano più nemmeno il bianco delle pupille verso Santippe.
E venne un nunzio quando fu sera e disse: — Santippe, Socrate vostro fu giudicato reo.
— Oimè, oimè, deserta, — urlava Santippe fuggendo per le vie d’Atene, — me l’hanno condannato quel povero uomo. L’hanno giudicato reo! Ma reo di che? Disoccupato, scioperato, mentecatto, ma reo di che?
— Datti pace, Santippe, — diceva la gente per le vie, — ogni speranza non è perduta.... L’hanno giudicato reo: questo è vero, ma la maggioranza è di soli tre voti. L’ultima parola non è ancor detta. Domani è l’ultima seduta. Meleto, sì, è vero, proporrà domani la pena; ma Socrate ha il diritto di fare una controproposta. È per legge! E allora sappi, Santippe, che sono ancora i giurati quelli i quali devono stabilire la pena.
*
Or dunque, quando venne l’ultimo giorno, grande fu la trepidazione di Santippe.
Ma il dikasterio pareva quel dì muto come la casa dei morti. Declinava ancora il sole.
Ad un tratto fu udito un gran tumulto, un urlo di cento voci, poi silenzio ancora, poi, dopo alquanto, furono spalancate le porte e tutte le cento toghe bianche dei signori giurati si precipitarono fuori in gran tumulto. Travolsero Santippe.
Ultimi, lentamente, uscirono Meleto, Anito ed i notari e fiscali.
— Noi abbiamo salvato la Repubblica! — diceva gravemente Anito.
— Nel presente e nel futuro, — diceva Meleto.
I notari, loro intorno, facevano reverenza, e si ripetevano l’un l’altro: — Una pervicacia inaudita, signori! Il disprezzo di ogni tradizione, di ogni legge!
*
Che cosa dunque era accaduto nell’aula del dikasterio?
Questo era accaduto: I signori giurati avevano il giorno precedente approvato l’accusa di reità. Ma la maggioranza dei voti era stata assai scarsa. Tre voti appena!
E Anito e Meleto uscirono dal dikasterio in quel dì con accigliato cipiglio squadrando i cento giurati, fra cui quarantasette (certo) erano quelli che giudicavano Socrate, non reo.
Tutta notte Meleto, al lume della lucerna, meditò nel nero cuore la sua requisitoria. E come spuntò il dì, la recitò, e rimbombò l’aula del dikasterio. Egli, l’arconte basileo, domandava la pena di morte, pro crimine impietatis!
— Ma perchè, signori giurati, — proseguì Meleto, — nulla la democrazia ateniese fece e farà mai contro la legge, prima che voi diate sentenza, a te, Socrate, spetta proporre di quale pena ti giudichi meritevole.
— In verità, Meleto, in verità, Anito, e tutti voi, signori di Atene, — cominciò allora Socrate, — io ben considerando di avere speso tutta la mia vita in pro’ vostro e di avere per questo trascurato gli interessi miei e quelli della mia famiglia, domanderei invece un premio. Ma sono vecchio oramai, ho settantacinque anni e perciò io mi restringo a chiedervi una tenue pensione; e quanto a voi, Meleto ed Anito, io chiedo la nomina nel Pritaneo, dove lo Stato onora e nutre i suoi cittadini più benemeriti.
(Noi oggi diremmo la nomina a membro del Senato.)
E fu allora che un clamore immenso si levò fra i giudici: — Quest’uomo schernisce la maestà della legge!
— No, membro del Pritaneo? — continuò Socrate. — Voi mi volete condannare ad ogni modo? Ebbene: io allora ubbidirò e pagherò una multa: tutto quello che io vi posso dare, vi darò, signori giudici!
E così dicendo, Socrate levò e presentò alta una moneta: un obolo!
(Noi diremmo: due centesimi.)
E fu così che quegli onesti bruti votarono la pena di morte a totale maggioranza.
Tutti quei cento bruti da molti giorni soffrivano di una cotale prurigine alla pelle, come se le parole di Socrate fossero stato un’invisibile, un’impalpabile polvere vescicatoria.
— A morte! — gridarono i giudici.
— A morte, signori Ateniesi? — domandò allora Socrate senza mutar voce. — Ma ci potremo intendere benissimo, giacchè il Dio solo sa e conosce se la morte è un male od un bene.
*
E fu così che Socrate, per profumarsi col profumo della verità e più specialmente per non poter tacere, fu condannato a morte.
Avete ucciso, o Ateniesi, l’usignolo dello Muse, il savio vero, l’innocente, il miglior uomo che fosse tra voi.
E gli uomini giudicarono savio l’insensato, ma soltanto dopo che l’insensato era morto!