Santippe/III
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III.
Socrate per le vie di Atene.
Andiamo, dunque, in cerca di Socrate. Egli non suole muoversi da Atene. Noi siamo certi di trovarlo in Atene.
E andando, io pensava: perchè Socrate prese moglie?
Si racconta che una volta gli amici domandassero a Socrate: — Come fai, o Socrate, a sopportare tua moglie?
— Perchè, — rispose gravemente il filosofo, — se io riesco a sopportare costei, riuscirò a sopportare qualunque altro individuo del genere umano. Anzi, — confermò, — la ho scelta apposta!
Eccomi, dunque, per le vie di Atene, ed ecco Socrate! Egli si riconosce subito: è diverso da tutti gli altri uomini; è brutto in mezzo a uomini belli; e a differenza dei filosofi che scrivono libri e svelano il loro pensiero nelle Accademie, Socrate non scrisse libri, e parlava per le strade.
Se, per così dire, io chiudo gli occhi, io lo vedo ancora, Socrate! Lo vedo per le vie della sua dolce Atene.
Anche la città era bella, non troppo grande, ma meravigliosa città; marmorea, sì anche. Ma i marmi di Atene erano screziati di azzurro, di oro, intermezzati da piante, animati da tante significazioni della vita che quei marmi rallegravano l’umanità, e non avevano l’aria di volerla soffocare. Atene non era nemmeno una delle nostre moderne città piatte e monotone. Si elevava nell’acropoli, sino all’asta e all’elmo di Minerva: poi declinava verso il mare.
Ora in una città così bella e fra gente così bella, Socrate doveva spiccare stranamente. È vero che i suoi pensieri erano bellissimi ed armonici come una musica, anzi; ma questi pensieri non si vedevano; si vedevano invece i suoi abiti che dovevano essere in disordine.
I suoi calzari certamente dovevano portare la traccia del suo perpetuo vagabondare per le vie di Atene, giacchè Socrate era un continuo andare e stare; e credo di non essere troppo lontano dal vero paragonando i calzari di Socrate a quelli dei nostri frati zoccolanti.
Ora guai agli uomini dalla calzatura in disordine; essi sono destinati in vita ad assaggiare il sapore della cicuta.
Al tempo di Socrate si portavano i sandali, e queste cose si capivano meno. Ma al tempo nostro in cui usano le scarpe, non sarà mai abbastanza raccomandata la maggior cura e la maggior spesa nelle scarpe. Gli Inglesi, dominatori del mondo, portano scarpe di eccellente modello. I Tedeschi, che vengono dopo gli Inglesi, hanno l’abitudine di portare scarpe solidissime. Gli Americani si affermano con la filosofia delle loro scarpe: american shoe!
La bellezza di Socrate era tutta di dentro. Ma ciò non poteva esser bene apprezzato se non da un Dio, ed infatti Apolline, uno dei più seri fra i dodici Iddii greci, lo aveva proclamato «il più savio fra tutti gli uomini», che in greco si dice sofòtatos!
Ma è pur vero che Apolline non vestiva mica come Socrate, ma con rara eleganza; le pieghe della clamide di quel Dio erano molto curate, i calzari stupendi, e la chioma la portava lucida e fluente come quella di una bellissima femmina.
Non si pensi per tutto questo che Socrate fosse, come i filosofi cristiani, un disprezzatore della bellezza. Lui non era bello ma era un entusiasta della bellezza, alla quale anzi non dava i confini ristretti che diamo noi. Le chiome bionde del giovanetto Fedone gli producevano un intenso piacere; ma lui era senza chiome e nel volto era piuttosto anti-estetico.
Tutti gli Ateniesi avevano una fronte diritta ed il naso regolare. Socrate, invece, aveva una fronte un po’ sfuggevole, ed una brutta insenatura si approfondiva tra la fronte ed il naso. Ciò oggidì sarebbe poco avvertito; ma a quei tempi, in cui tutti possedevano quella squisita conformazione, doveva produrre uno spiacevole effetto.
Il naso, poi, sarebbe sembrato brutto anche ai nostri tempi: lunghetto ed in avanti, con le narici scoperte e dilatate, quasi in atto di indagare, di fiutare, di cercare che cosa ci fosse dentro in ogni cosa, ti en ècaston, come si dice in greco. E questa era la sua passione.
Due baffi, lasciando scoperto il labbro inferiore, labbro tumido ed alquanto carnale, si accartocciavano, in giù per il mento, in due volute che si intrecciavano con altre grosse arricciature della barba, e con un pizzo sul mento; rigonfio il pizzo ed a punta caprina. Il tutto poi si confondeva con i folti cernecchi di una specie di tonsura naturale, perchè il cranio era lungo, bozzoluto; ma calvo del tutto. Un barbiere moderno si sarebbe trovato in grande impaccio per dipanare e mettere in ordine quella testa, e distinguere baffi, barba, pizzo, capelli. I suoi occhi erano grossi, intenti, sporgenti e come fissi nello stupore delle cose che lui solo aveva veduto indagando quel terribile ti en ècaston.
Sapientissimo, dunque, era stato proclamato Socrate, ma non bellissimo, e, pur troppo, neanche felicissimo.
Era proprio ellenico Socrate, o asiatico, o trace? Forse di tutto il mondo; e forse aveva dal deforme Esopo strappato, con la linea esterna, anche una scintilla di immortale gaiezza.
Già! Cadrebbe in errore chi imaginasse Socrate come un melanconico, oppure un infastidito. Era così bella la vita, e così splendente il suo pensiero! E poi come si poteva far amare la sapienza, se la sapienza ha il tristo privilegio di renderci melanconici?
Io non dico per ciò che fosse un ottimista, perchè ottimista vuol dire anche imbecille. Ecco: era un uomo allegro, che però non fu aiutato dal cielo, come dice il proverbio, che il cielo aiuta gli uomini allegri.
Anche quando Anito, un signore di cui parleremo più avanti, lo obbligò in fine a bere la cicuta, egli non era di cattivo umore verso l’umanità! Non disse come Cristo: «passi lungi da me questo amaro calice!» ma bevve la sua cicuta.
Ma era possibile che per un po’ di cicuta propinata dalla malvagità di Anito e compagni si dovesse spegnere del tutto questa bella lampada del sole? e tutta quella bella lampada ardente che era dentro di lui, dovesse scomparire? E allora dove andava a finire la logica?
*
Brutto, dunque, col mantello un po’ in disordine, gioviale, anzi pieno di spirito, come si dice noi, e piuttosto avanti con gli anni. Attorno poi a questo vecchio c’erano molti bei giovani. Sì, così! Ma per carità, non venga in mente un professore.
Perchè questo paragone è stato fatto, ma è erroneo per molte ragioni, fra cui non ultima è questa: che Socrate dichiarava apertamente di non saper nulla; e un professore che oggi dicesse così, verrebbe squalificato, nè alcun merito avrebbe per aver, forse, dichiarato il vero.
A me, dunque, pare di vedere questo vecchio Socrate per le vie di Atene. Egli conosceva tutti nella sua cara città e da tutti era conosciuto. Fermava la gente, ammiccava con quei suoi occhi grossi, sorrideva, si studiava di parere piacente, anzi allettatore. In quella città loquace come le sue cicale, egli era loquacissimo con tutti. Fermava la gente e diceva:
— Amico, bada a me, io sono un buon mezzano: sai che ci stanno di belle giovinette lassù? Di’, le vogliamo andare a trovare?
— Sì bene, o Socrate, e come si chiamano esse?
— Una si chiama Aretè (Virtù), l’altra Enkŕateia (Temperanza): e poi c’è Dike (Giustizia), c’è Sofrosine (Saggezza).
— Sta buono, Socrate; tu hai tempo da perdere: lasciami andare per le mio faccende.... Dike è un pezzo che ha abbandonato il mondo degli uomini. Lo dice anche Esiodo. Si vede che fra noi non ci stava troppo bene ed ha chiesto a Giove il passaporto.
— Ma di’, amico, non vogliamo noi diventare belli e buoni, e richiamare in terra la nobile Dike, anche se ella si è disgustata di noi, e promettere di non farle più oltraggio? E non ci piglieremo noi cura della bellissima Aretè, figlia abbandonata? E non ti pare ella cosa per cui noi saremmo superiori agli Dei, non fare mai oltraggio e torto a nessuno, nemmeno, sì, nemmeno ai nostri nemici?
— Sono cose troppo difficili. Io credo che sarà bene rimandarle per un’altra volta. Ora preferisco ragazze di più dilettevole genere che la non più giovane signorina Aretè. Sai che c’è in Atene Cleonetta, Socrate caro? È il più bel fiore che io abbia mai visto sbocciare nei giardini umani; essa poi è stata qualche tempo a scuola a Mitilene, nell’isola di Lesbo, ed è sbarcata, or non è molto, piena di sapienza e di entusiasmo.
— Oh, amico, — gli rispondeva Socrate, — pensa a questa cosa: le tarantole che sono ragni grandi non più di mezzo òbolo, se toccano l’uomo con la bocca, lo straziano e gli fanno perdere il giudizio. Se tanto arriva a fare una bestia così piccola, pensa che cosa può fare una bestia così grossa con i suoi baci! E poi, di’ un po’, dov’è la dignità dell’uomo, dov’è la libertà dello spirito, ed anche la sanità del corpo a star lì, appiccicato ad una donna, a domandare la carità dei baci come un mendicante?
— Avrai ragione anche qui, non ti dico di no. Ma se tu mi incominci a far della morale, ti saluto gioia della vita! Preferisco Cleonetta.
E quegli se ne andava.
E allora Socrate ne fermava un altro: — To’, senti: io ho una vergine, la più bella di tutte le donne...
— Più di Leena? più di Cloe?
— Più di tutte.
— Vediamo se la conosco. Si chiama?..
— Eleuteria (Libertà).
— Va, pazzerellone! Eleuteria? La libertà? Vergine costei? Vecchia baldracca ella è! Non c’è nessuna spia, vero? nessun sicofante c’è qui vicino che ci ascolti? Bene, senti, Socrate mio: io non ne posso più della libertà, siamo soffocati dalla libertà, qui in Atene. Come si stava bene quando il lacedemone Lisandro inaugurò coi suoi trenta Tiranni il sistema della cuffia del silenzio e delle verghe! I galantuomini potevano vivere in pace, in quei giorni di stato d’assedio. Oggi la libertà è tutta a beneficio dei politicanti e dei birbanti. Oh, ma non ti scappi mica per detto, sai.
— Ma io non ti parlo, o ammirabile uomo, di quella libertà; ma di un’altra libertà ben più vera: la libertà dell’animo io voglio dire.
— Bravo, Socrate, e di quella poi cosa me ne faccio? Mi dovrò regolare io con la mia testa e non con la testa degli altri? Ma sai che è una vaga fatica questa che mi vuoi far fare tu? No, caro Socrate, la libertà dell’anima sarà una cosa assai bella; ma, credi, non è pratica.
*
Non v’erano che i giovani, l’eterna purità della vita, non ancora contaminata dall’esperimento, che lo ascoltavano con entusiasmo.
La divina giovinezza ha sempre creduto, e crede anche oggi, che sia cosa facile rinnovare il mondo. E ci credeva probabilmente, anzi certamente, anche Socrate. Egli era vecchio, sì bene; ma il mondo era giovane; il mondo era piccolo, il mondo era Atene, utero dell’avvenire.
Oh, i giovani subivano il fascino dell’ammirabile favolatore. Essi venivano da lontano per ascoltarlo. Antistene di Tracia faceva quaranta stadi al giorno per poterlo ascoltare; Euclide di Megara si travestiva da donna per potere entrare in Atene, e le parole di lui accendevano tale ebbrezza che nell’udirle balzava a quei giovani il cuore come ai coribanti. E quali potenti ed ingenue imagini essi trovarono per esaltare il loro maestro! Memnone, un altro discepolo, paragonava Socrate ad una torpedine, che è un brutto pesce di mare, gelatinoso, tutto maculato e a bitorzoli; ma guai a chi lo tocca: dà una scossa e fa cader nel torpore. Così la parola di Socrate faceva cadere l’anima in un divino torpore.
Bisognava chiamarsi Anito per rimanere insensibili!
Ma il bell’Alcibiade aveva un paragone anche più folgorante e superbo. Egli diceva: «Tu, o Socrate, sei come un Sileno, buffone al di fuori con zampogne e con flauti in mano; ma divino dentro tu sei, e tutto pieno delle terribili imagini dei Numi».
Oh, incredibile paragone! Dunque attraverso la corporalità materiale di Socrate intuivano quei giovani alcunchè di divino e di terribile? Sì! Essi, attraverso la mobilità irrequieta dei gesti e delle parole di Socrate, vedevano una cotale impassibilità interiore, un che di incognito di dentro, proprio come quando noi riguardiamo negli occhi aperti, ma senza luce, di una statua di nume greco.
*
— Ma sai tu, o uomo, — proseguì allora Socrate, accendendosi di entusiasmo contro colui che non sapea che farsene della libertà, — sai tu il segreto degli Dei?
— Io no, ma se è bello raccontalo!
— Sai tu quello che il Dio ha detto all’uomo? Dio ha detto all’uomo: io non ti do un volto, non ti do una sede fissa, non ti do una speciale forza o istinto come agli altri animali; ma quello che vorrai, sarai. Tutte le altre cose ubbidiscono a leggi immutabili; tu, uomo, sei nell’arbitrio tuo. Tutto ha confine; ma tu, uomo, lo stabilirai tu il tuo confine. Ti collocai in mezzo al mondo perchè tu vedessi quello che è il mondo. Non ti ho creato nè terreno, nè celeste, nè mortale, nè immortale. Sarai quello che tu vorrai! Tu, tu potrai, se vuoi, degenerare giù sino ai bruti; potrai, se vuoi, trasformarti sino agli Dei...
— Bravo, — rispose l’allegro Ateniese, — e i miei affari allora? Ci badi tu ai miei affari? Dare la scalata all’Olimpo? All’Olimpo della ricchezza, del gran chic, eh, eh! ci starei. Ma all’Olimpo degli Dei, oibò, Socrate! Oh, ma guarda, Socrate, Socrate, già che tu mi costringi a pensare anche con la mia testa, guarda un po’: gli Dei poi in fin dei conti cosa sono? un gran chic, un gran snob. Te lo dimostro subito: noi andiamo a piedi o a cavallo, se abbiamo il cavallo: loro vanno in processione sulle nubi: noi soffriamo qualche volta di indigestione, essi no: essi godono il piacere della guerra, ma evitano la noia di farsi del male o di morire: essi si divertono a mettere al mondo figliuoli, ma hai visto mai Giunone fasciare ed allattare marmocchi o Giove condurli a scuola? «Gli Dei dinanzi al piacere posero il sudore!» hanno sentenziato gli Dei. Bella sentenza! Per i minchioni, però. Hai visto mai un Dio sudare? Mai! Bensì dall’Olimpo loro si divertono a veder sudare gli uomini e dicono: «Oh, gli industri uomini!» Dunque sì, Socrate, io voglio essere simile agli Dei, cioè stare in panciolle, libero di godere e niente lavorare.
— Altri, altri Dei più veri e più Grandi.... — disse Socrate.
— Questi li hai tu nel tuo cervello strambo, o Socrate. Va là, non mi far pensare! Sai tu perchè Giove ha quella bell’aria gioviale; è sereno, olimpico, beato, ed è decorato di quella bella barba nero-turchina, con quella capigliatura solida che gli ha appiccicato Fidia? Perchè pensa poco, caro! Perciò non ha mai mal di testa. La sola volta che se la sentì un poco pesante, prese una purga e venne fuori Minerva: una dea, sia detto fra noi, un po’ turbolenta e seccante, benchè sia la protettrice della nostra città.
E colui se ne andava.
*
Colui se ne era andato; ed ecco cautamente un leggiadro giovanetto si accostò a Socrate. Questo giovanetto oltre che leggiadro e ben vestito, era anche molto prudente. Il suo nome era Iscomake. Costui era innamorato di una bella giovinetta, la quale filava virtuosamente la lana nel gineceo, con le ciglia abbassate, accanto alla cara madre.
Ora Iscomake vedeva sotto le grandi ciglia abbassate modestamente della sua cara fanciulla passare un lampo delizioso che gli metteva i brividi addosso, e quel lampeggiare diceva: «Iscomake, Iscomake, sapessi come mi annoio qui, nel gineceo, a filare, soletta soletta, la lana, e come mi è faticoso oramai essere savia, savia, savia, come mi dice sempre la mamma!»
Anche vedeva quel suo bianco piccolo piede nudo, sorretto da un sottile calzare che le dava una grazia ed una venustà senza pari; sentiva l’umido profumo della sua chioma nera e delle sue carni di ambra.
Dunque Iscomake era molto innamorato ma molto molto prudente. Egli perciò, sapendo della grande sapienza di Socrate, gli domandò: — Socrate, faccio bene o faccio male a prender moglie?
E Socrate contemplò con quei suoi occhi la ingenua giovinezza di Iscomake, e disse: — Io dico, Iscomake, che quale di queste due cose farai, tu te ne pentirai.
— Oh, Socrate, — disse il giovane, — quale risposta è la tua! Pensa che i miei genitori e i genitori di lei oramai tutto hanno disposto perchè le nozze avvengano nel più breve tempo, ed io altra cosa non desidero più ardentemente. La mia domanda a te, che sei savio, voleva piuttosto dire questo: «che cosa è il matrimonio? come devo comportarmi verso quella che amo, e come lei verso di me, affinchè noi possiamo condurre una vita felice?»
E Iscomake cominciò a lagrimare, come quegli che vedeva per quella strana risposta un’ombra lugubre distendersi sull’orizzonte della sua vita.
— Io ti rispondo come è veramente: io ti dico, Iscomake, — disse Socrate, — che tu farai male a non prender moglie, e la ragione è questa: perchè la casa dell’uomo senza la donna è infinitamente triste. Il focolare di Vesta, o amico, non arde e non riscalda, se Vesta, la dea, cioè la donna, manca nella casa.
— Ed allora, perchè, o Socrate, io mi pentirò lo stesso se prenderò moglie?
— Perchè tu, Iscomake, credi che il matrimonio sia la soddisfazione del piacere, mentre è la soddisfazione della saviezza.
— Oh, per questo, Socrate, — disse Iscomake, — sta pur sicuro che i miei genitori mi hanno allevato bene: mio padre mi ha sempre detto: «il tuo dovere, Iscomake, è di esser savio».
— Bene, Iscomake. E la tua sposa. È savia anche lei?
— La madre di lei, — rispose Iscomake, — le ripete sempre: «il tuo dovere, figliuola, è di essere savia».
— Sa tessere e filare?
— Sa tessere e filare.
— Docilmente e silenziosamente?
— Io credo di sì, Socrate.
— Hai osservato anche se per caso non abbia disposizione a consumare in un mese quello che deve bastare per un anno? a comparire più bella di quello che è, perchè il matrimonio — bada! — è anche la società di due corpi!
— Ha quindici anni soltanto, Socrate. Ma io credo che sia massaia, silenziosa, docile, modesta. Però ti dico che a tutte queste cose non ho mai pensato. Ad ogni modo io farò come fanno tutti gli altri Ateniesi che hanno moglie: provvederò che le serrature del gineceo chiudano bene.
— Sì, ma questo che si usa in Atene, non è, o Iscomake, il matrimonio come fu stabilito dal Dio che ha costruito il mondo, — disse Socrate.
— Che cosa ha stabilito il Dio, quello che tu chiami il costruttore del mondo?
— Ha stabilito che il matrimonio fosse una specie di giogo, o tiro a due, rappresentato da un uomo e da una donna. Ti spiegherò meglio: una società mutua in cui le condizioni dei due contraenti, cioè dell’uomo e della donna, siano perfettamente eguali e squisitamente leali. Il contratto non sarà leale, se, per esempio, la donna cercherà di apparire più bella col lavorarsi la faccia, o più affascinante col camminare sopra un paio di sandali alti!
— Ed anche se io sono più ricco di lei, lei sarà uguale a me? — domandò Iscomake.
— Anche, Iscomake! Se lei saprà meglio di te amministrare questa società del matrimonio, lei sarà superiore a te. E se la donna sarà migliore dell’uomo, tu sarai ben felice di esserle servo e cavaliere.
— Ma questa cosa non si è mai sentita dire, che la donna sia uguale all’uomo, — disse Iscomake.
— Eppure è proprio così, — rispose Socrate. — L’uomo e la donna sono stati fabbricati con le stesse facoltà, e per questo non si distingue se sia superiore il genere maschile o il femminile. La differenza consiste in questo, che i due sessi non sono adatti per le stesse cose: anzi il Dio punisce l’uomo che fa opera da donna, e la donna che fa opera da uomo. L’uomo è più adatto per le cose esterne; la donna, per le cose interne. La donna ha più affettività, una attività più solerte e minuziosa, un senso di previdenza del pericolo. Alla sua volta l’uomo è più forte ed ha il dovere della intrepidità e della difesa. Perciò i due sessi si completano in quanto l’uno ha bisogno dell’altro.
— E quando la donna diventa brutta o vecchia, — domandò Iscomake, — non la ripudierò io per prenderne un’altra più bella e più fresca?
— Quanto più la donna — disse Socrate — sarà buona compagna, custode di te, dei figli, della casa, tanto più la onorerai, perchè i veri beni si acquistano non con la bellezza, ma con la virtù.
— Ma allora il matrimonio è un esercizio di virtù, — disse Iscomake, molto avvilito. — E tutto questo sacrificio, perchè?
— A vantaggio del genere umano, — rispose Socrate. — Il piacere serve per la vita, ma non è la vita.
Ora Iscomake aveva poco più di vent’anni. Egli aveva pensato a portarsi a casa la sua adorabile giovinetta, e non a lavorare per il genere umano.
Era il volto di Iscomake assai triste e avvilito, nè sapea che rispondere, quando improvvisamente esclamò:
— Ecco, ecco, anche tu, Socrate, ti volti e la guardi!
In quel punto passava Cleonetta, la bella etèra che era stata agli studi nell’isola di Lesbo, ed ora era venuta in Atene a vendere rose; e profumo di rose e di muschio sfuggiva dalla sua persona, come da un’anfora.
— Che mi guardi anche tu, figlio di Sofronisco? — disse la bella etèra. — Sta in pace, Socrate, la deliziosa taràntola non morderà al tuo vecchio cuoio!
*
Che cosa abbia poi deliberato il giovanetto Iscomake, noi non sappiamo e ci interessa ben poco. A noi importa di assicurare che il discorso su riferito non è per niente una nostra invenzione: ma è autentico. Esso dimostra che razza di complicazione fosse fin da allora il matrimonio nella mente di quel giudizioso filosofo!
Ah, se invece di un Dio, grande Architetto dell’Universo, fosse stata una Dea, la Architetta, le cose sarebbero passate più semplici e meno melanconiche!
Ma una cosa a me sta a cuore di notare in questi ragionamenti di Socrate ad Iscomake intorno al matrimonio, ed è la questione dei calzari, che noi diremmo delle scarpette.
Si tratta di una seria questione, perchè Socrate dice: «il contratto fra l’uomo e la donna non sarà leale se la donna cercherà di apparire più splendente col tingersi la faccia, o più dominante ed affascinante camminando sopra un paio di sandali alti».
Ora è il vero che un paio di pantofole — invece delle scarpette — rendono una donna antiestetica, e non è questa una scoperta — come ben si vede — fatta ai nostri tempi.
E generalmente accade che una donna preferisce apparire sleale piuttosto che antiestetica per colpa delle pantofole.
Tuttavia è indiscutibile che le pantofole hanno, sotto un certo aspetto, un pregio molto superiore alla questione della lealtà: esse non fanno rumore!
Imaginiamo una moglie che passi come un crotalo da una stanza all’altra, battendo sul pavimento i tacchi alti delle sue scarpette; e un’altra moglie invece che si muove silenziosamente, monacalmente silenziosa entro due pantofole...
Ah, sì! io lo so: un’anima giovane di uomo rimane atterrita da quelle pantofole: egli sogna due tacchi alti in due scarpette lucide. E dato il caso che possano far rumore, ci stende sotto una processione di viole e di rose, o più semplicemente un folto tappeto d’oriente. E dopo le scarpette, sogna due mani carezzevoli ambrate e profumate, che sono il prolungamento tattile di due braccia tenere e poderose insieme, le quali — quando lui torna a casa con la bocca un poco amara per avere mangiato le prime foglie secche della delusione — gli si avviticchiano dietro le spalle; e le mani soavi gli si posano sulle guance, poi sugli occhi. Una voce adorabile dice intanto: «Mi conosci, amore? Chi è? È la tua adorabile sposina?» E spesso le labbra umidette e ristrette si allungano, si applicano sul volto dell’uomo in un’azione benefica, e, dirò così, antiflogistica, come fa la sanguisuga che porta via le acrità e il mal calore del sangue.
Io ho visto questa semplice e deliziosa scena ripetuta molte volte sui teatri da alcune nostre graziosissime attrici, per le quali la menzogna è piacere e insieme dovere professionale: e devo confessare che in verità erano meravigliose operazioni allo scopo di rinfrescare l’uomo dopo il calore della battaglia quotidiana.
Dopo ho veduto l’uomo alzarsi, scuotersi, buttare quasi a terra le scaglie del dubbio, della tristezza, dell’abbattimento: balzare in piedi rinnovato di fronte alle lotte della vita, come se avesse dormito dodici ore di sonno riparatore. Egli esclama: «Adesso mi sento forte!».
Questo spettacolo è attraente e seduce non soltanto i giovani, ma anche i vecchi spettatori; e chi ha di già preso moglie e questa si è fatta acida e matura, sogna di procurarsi una seconda moglie o qualcosa di equivalente, con cui ripetere questa cura igienica ed insieme patetica.
Nella realtà della vita questo spettacolo bellissimo si ripete come sul palcoscenico: ma con meno frequenza.
Il giovane, ahimè, dimentica che le rose e le viole fioriscono in tempo di primavera; che i tappeti orientali costano caro; e che quello spettacolo che abbiamo descritto, riesce bene, se esiste anche un’abile cuoca che sopraintenda alla cucina.
Se queste ed altre condizioni non si mettono insieme, l’esperienza a lungo andare riesce col non riuscire più bene. Anzi non soltanto non riesce affatto; ma può accadere di vedere quelle care labbra, già socchiuse ai baci, ingrandirsi smisuratamente, come in un’antica maschera tragica, ed in cambio delle parolette flautate, sgorga un torrente di male parole, di recriminazioni amare, triste seme di frutti più amari.
Ma gli uomini, con tutto questo, seguitano ad andare in cerca di quelle donne che portano le scarpette lucide, coi tacchi sovrani; ed anche Socrate, dopo il saggio discorso, si era voltato a contemplare Cleonetta, la bellissima etèra.