Saggi critici/Una «Storia della letteratura italiana» di Cesare Cantù
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UNA «STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA»
di Cesare Cantú.
In tanta penuria di libri nuovi, come è al presente in Italia, sentii con vera compiacenza annunziare la prossima pubblicazione di una storia della letteratura italiana, compilata da Cesare Cantú. Né l’annunzio fu bugiardo: perché, durante le feste di Dante, usci in luce a Firenze un bel volume con questo titolo pe’ tipi del Le Monnier.
Degno modo, dissi fra me, di onorar Dante, arricchendo le lettere di un nuovo lavoro, e su di una materia cosí importante e cosí desiderata! E presi il libro con un sentimento di schietta ammirazione per quest’uomo instancabile, che non si riposa da un lavoro, se non per metter mano ad un altro.
Avevo però una cattiva prevenzione. Sapeva che il Cantú soleva mettersi a lavori colossali con molta facilitá e leggerezza, senza quasi coscienza della grandezza e difficoltá dell’opera: di che m’era esempio la sua Storia universale. E temevo si fosse messo a quest’altro lavoro, non meno colossale e non meno difficile, con la stessa audacia, scompagnata da conveniente preparazione.
La prefazione non bastò a rassicurarmi. Veramente quel superbo disdegno con che tratta tutti gli scrittori italiani di questa materia, e la maniera elevata con cui concepisce l’argomento, mi rincorava dapprima : ma riflettevo che le teorie non vogliono dir nulla, ché altro è dire e altro è fare; e quello stesso disdegno m’era sospetto, come indizio di criterii troppo assoluti e troppo intolleranti. Pure dicevo fra me: — Quel disdegno può essere coscienza della propria superioritá, indizio d’uomo salito a tale altezza da veder tutti gli altri a incomparabile distanza da lui — . Tra questi dubbii cacciai da me ogni prevenzione e mi posi alla lettura con l’attenzione che richiede un lavoro di tanta mole, ed uno scrittore di si chiara fama.
Né è stata fatica gettata : perché questa lettura mi è stata occasione a molte osservazioni sul libro e sull’argomento.
Il libro è distinto in ventitré capitoli, che comprendono tutta la storia della nostra letteratura da Ciullo d’Alcamo sino a Cesare Cantú, che chiude la serie. Si va innanzi, secondo che sbucciano gli scrittori, interrompendosi il racconto con alcuni riassunti, che offrono un certo riposo alla mente nel passaggio da un’epoca all’altra. Il racconto procede con rapiditá e chiarezza, in un periodare andante e disinvolto, e con cosí opportuna mescolanza di fatti, aneddoti, giudizii e citazioni, che t’invoglia a leggere e ti tira innanzi con dolce violenza. Si rimprovera agl’italiani, come a’ tedeschi, che non sanno l’arte di fare un libro; quest’arte la possiede Cantú, quasi con la stessa perfezione degli scrittori francesi.
Compiuta la lettura, è difficile ti rimanga nell’animo qualcosa di netto e di chiaro, come ultima impressione ed ultimo risultato. Ti senti girar pel capo una confusa congerie di cose e di persone, e ti par proprio sii uscito da una torre di Babele o da un castello incantato, percorso con diletto, ma senza che te ne rimanga chiara ricordanza. Allora sei costretto a raccoglierti, a meditarvi sopra, a rifare tu il lavoro, se vuoi afferrarne il concetto e darne adeguato giudizio.
Cosi ho fatto, e cosí ho trovato la mia impressione e il mio giudizio.
La prefazione è pomposa. L’autore dá addosso a tutti gli scrittori che lo hanno preceduto, guardando con occhio di compassione fino il laborioso e benemerito Tiraboschi; talché ti fa aspettar da lui veramente qualche cosa di grosso. E ti senti confermar nella speranza, quando, gittata nel fango la critica italiana d’oggigiorno, che spesso secondo lui s’ impiccolisce «nelle proporzioni del libello o della lezione», ti dá un magnifico concetto del suo ideale critico. La critica, egli dice, « acquista dignitá e grandezza, allor quando venga a mano d’uomini che fanno scomparire la differenza fra l’arte del giudicare e il talento del comporre, portando una specie di creazione nell’esame del bello, un genio istintivamente inventivo, anche quando non fan che osservare; sicché possono esclamare : — Son pittore anch’ io — ». E seguita, descrivendo le diffícili qualitá di mente e di cuore che dee avere un critico, il quale voglia fare la storia della patria letteratura.
Ma tu avresti torto a pigliare il Cantú in parola e ad esaminare il suo lavoro secondo gli stessi suoi criteri; perché l’autore ti potrebbe rispondere : — Bada che, esponendo come dovrebbe farsi questo lavoro, non ti ho mica detto che volevo farlo io o che l’ho fatto io; il mio fine è piú modesto. Non ho voluto fare un lavoro nuovo e originale, ma una compilazione; lascio a piú forti di me piú grandi cose; io ho voluto fare un libro utile, massime a’ giovani, ho voluto diffondere e volgarizzare la scienza; e tu non hai il diritto di biasimarmi di non aver fatto quello che non volevo fare — .
Perciò questo libro non riempie la lacuna lamentata dallo stesso autore, e nessuno può dire : — Abbiamo finalmente una storia della letteratura italiana — . Il libro è una mera compilazione, buona a diffondere fra noi le notizie della nostra letteratura, e a darci in un volume quanto di meglio pensarono e scrissero su questo argomento i critici stranieri e nostrani.
Né dobbiamo maravigliare che in Italia non si facciano oramai piú che mere compilazioni; perché son tali le condizioni del mercato librario e i bisogni del pubblico, che un libro serio è poco letto, e di rado ti rifá della spesa, dove simili compilazioni ti danno fatica poca e guadagni molti.
Noi dunque non saremo ingiusti con Cesare Cantú, e non gli domanderemo piú di quello che ha voluto darci; ma, restringendoci negli stessi suoi limiti, vogliamo esaminare fino a qual punto sia riuscito nel suo lavoro.
Anche una compilazione dee avere uno scopo ed un metodo; e noi non faremo il torto all’autore di giudicare la sua, una compilazione disordinata fatta a casaccio e col solo intento di far quattrini, ché in questo caso avremmo messo da canto il libro e non ci avremmo pensato piu.
Perché lo giudichiamo un lavoro serio, abbiamo il diritto di domandargli due condizioni, senza le quali non è possibile fare un libro utile, né ragionevole : cioè che l’autore abbia un concetto chiaro della materia che tratta, ed abbia il gusto degli scritti di cui vuol dar giudizio. Non domandiamo giá tutto quello che egli pretende nella prefazione da uno storico della letteratura; siamo piú discreti : domandiamo l’indispensabile per fare una compilazione utile e ragionevole.
Poniamo che l’autore abbia un concetto storto o confuso della letteratura, o che gli manchi il senso estetico o letterario; è chiaro che egli non può darci l’intelligenza degli scrittori, che è lo scopo necessario anche di una compilazione.
Ora, leggendo il libro, ci è nato il dubbio che l’autore non abbia una idea chiara della materia che tratta. Giudica letterarii i libri che hanno uno stile buono o cattivo; e perciò le opere del Vico e del Tesauro chiama letterarie, perché hanno uno stile, ancorché cattivo. Confonde lo stile ora con la maniera, come in questo esempio del Vico e del Tesauro, ora con l’elocuzione, come quando cita il Segneri, chiamando « stile » quello che il buon Segneri chiama « elocuzione ». Confonde l’invenzione con l’immaginazione, e chiama l’Ariosto povero d’immaginazione, perché ha cavato le sue invenzioni da altri. Affetta un certo disprezzo della forma letteraria, che pone nelle frasi e considera in sé stessa, come avesse vita propria e si potesse staccare dal pensiero. Parimente astrae dalla forma i pensieri e crede fare una storia letteraria, informandoci de’ concetti e delle opinioni degli scrittori, aggiungendo per ultimo ciò che gli par da lodare o da biasimare nella forma, che è per lui l’esposizione, il modo di esporre o di dire. Cosi il pensiero preso in sé stesso è per lui il principale e la forma rimane un accessorio. Il medesimo fa con la moralitá, che diviene un criterio letterario, un elemento essenziale de’ suoi giudizii in fatto di letteratura.
La letteratura considerata come un accessorio, o come la «veste del pensiero», per usare uno di quei modi di dire che hanno fatto fortuna, non ha piú importanza propria. Ed il Cantú, innanzi al quale letterato è quasi sinonimo di pedante, e che disprezza il culto della forma scompagnata dalle cose, e flagella di continuo gli scrittori vuoti, pretensiosi cercatori di frasi, in luogo di dire: — Questo non è letteratura — , e farsi a rialzare il concetto, la prende, egli medesimo in questo significato volgare, astrae i concetti dalle forme, di quelli principalmente s’occupa, tocca di queste quasi per incidente e con l’aria stizzosa di chi dicesse ai nostri mal capitati critici : — Ah pedanti! che in queste vuote forme ponete tanta importanza — . Dev’egli parlarci del Machiavelli? L’ importante per lui è i suoi concetti, le sue opinioni, la sua vita, il suo carattere; la parte letteraria rimane un accessorio naufragato in tanto mare. Dee parlare del Telesio, del Bruno, del Campanella, del Sarpi, del Galilei? La parte letteraria vi è appena toccata. L’essenziale per lui è sempre il contenuto, il pensato in sé stesso, in quanto è vero o falso, importante o frivolo, morale o immorale, utile o dannoso; e da questi elementi trae i criteri e i suoi giudizi, considerando la parte letteraria come qualcosa di appiccicato, che si possa togliere o aggiugnere; merito o demerito affatto secondario.
Al tempo de’ puristi, quando c’ era una scuola che giudicava gli autori dalle parole e dalle frasi, sorse una reazione salutare, una contro-scuola, che a quelli che gridavano: — Parole — , rispondeva gridando: — Pensieri — . Il Cantú è rimasto ancora li, come erano le cose trent’anni fa, astrae il fondo dalla forma, ciò ch’egli chiama « potenza idealista », e non si accorge che appunto in questo idealizzare o, per usar la parola propria, in questo astrarre ha preso radice quel divorzio delle lettere e delle scienze che deploriamo al par di lui, e che ci dá spesso scienziati barbari, che guardando al fondo trascurano la forma, o letterati vuoti, dei quali si può dire: — «Pulchra species, sed cerebrum non habent» — .
Vera storia ragionevole della letteratura non è possibile, quando si abbia un concetto cosí storto e confuso di quella. I giudizii ti riescono falsi, avendo per base il valore e l’importanza e la moralitá del contenuto, cose belle e buone, ma estranee alla letteratura, che ha in sé stessa il suo fine e il suo valore, e vuol essere giudicata secondo criteri propri, dedotti dalla sua natura. Con i criterii di Cesare Cantú, Machiavelli è rimpiccinito, Ariosto è disconosciuto, Leopardi è messo in coda alla scuola del Monti; Alfieri, Giusti, Berchet rimangono incompresi.
La fedeltá storica è anche un elemento estraneo all’arte; ed il Cantú vi dá tanta importanza che ne trae argomento a gravi censure contro il Tasso e l’Alfieri, come se l’esattezza storica fosse condizione essenziale di un lavoro artistico.
La moralitá è una buona cosa. Ma l’essere stati l’Ariosto o il Machiavelli immorali, ha cosí poco a fare con la storia letteraria delle loro opere, come l’immoralitá di Bacone ha poco a fare col suo Organo. Se ne può parlare per incidente, ma non a criterio del merito delle loro scritture.
Cerco finora la letteratura e non la trovo, o la trovo confusa con cose certo importanti, ma diverse.
Quando Dio vuole, il Cantú scende a parlare della forma, ma anche qui trovi idee vaghe e confuse. Che cosa intenda egli per forma, mal si comprende. Talora si riduce per lui a lingua e stile. La distribuzione delle parti, l’orditura del discorso, la connessione degli episodii, l’unitá in una giusta varietá ecc., questo che si può chiamare la parte meccanica di un lavoro, sono per lui il piú alto della critica letteraria, e ne fa condizione di vita o di morte per un autore: lo sa l’Ariosto, tartassato dall’inesorabile storico per questi che sono difetti affatto secondarii, e che nell’Ariosto sono talora virtú. Ben ti parla di passioni, di energia, di evidenza, di genio, di entusiasmo, d’ispirazione, d’immaginazione, di fantasia, di realtá, d’idealitá, ecc., ma sono generalitá senza valore, indizio meno di meditazioni proprie che di reminiscenze confuse e poco digerite.
Una storia della letteratura è fattibile, quando anche si abbia un poco giusto concetto di essa, ma a pattò che l’autore vi supplisca con quella dote naturale che chiamasi il gusto o il sentimento letterario. Il Cantú, quanto alle dottrine, ti offre un miscuglio, non raro oggi, d’idee nuove con vecchi pregiudizi!, onde nasce un concetto confuso fin della materia, di cui vuol fare la storia: vi supplisce almeno con la spontaneitá e la giustezza del gusto? Sa egli cogliere il bello, quando gli si presenta, e lo sa riconoscere, ancorché non lo sappia diffinire?
Quando passeggio per luoghi ameni, sento l’animo disposto a godere delle bellezze della natura, e le osservo, e le noto, e mi ci fermo, né vale a distrarmene questo o quel difetto. Ma quando si ha innanzi uno scrittore, il primo desiderio che nasce nelle anime volgari è di biasimare, notando questo o quel difetto: e ciò principalmente chiamano critica. Questa disposizione a fermarsi nel male anzi che a godere del bene, rivela l’insufficienza del sentimento artistico, ed un ingegno critico puramente negativo. La qual disposizione è peggiorata nel Cantú da uno stato della sua anima querulo e malcontento, che gli rende ottuso e scarso il senso della ammirazione, e deprava il suo gusto, facendogli sentire una specie di godimento non tanto nella contemplazione del bello, quanto nell’osservazione dei difetti. Qual uomo anche di scarso senso artistico può sentirsi innanzi all’Ariosto, all’Alfieri, al Leopardi, al Poliziano, al Machiavelli, senza essere compreso di ammirazione, e senza sforzarsi d’ intendere la loro grandezza? È difficile trovare nel Cantú una frase, un aggettivo, che riveli schietta e immediata impressione di uno scrittore; e quando vuol pur farlo, riesce alla rettorica, lui cosí nemico de’ retori! Finisce il suo studio sul Tasso con queste parole :
Muori in pace, anima gemebonda, e lascia la scena al gran ciarlatano, che alla simmetria virgiliana e petrarchesca surroghi la bizzarria mescolata di audace e di pedantesco!
Il Cesare Cantú è uno spirito malato e tristo, in lotta con i contemporanei, declamatore contro i pedanti e i letterati, contro l’ignoranza e la corruzione del secolo, come uomo mal contento e mal compreso, che si mette fuori e contro la societá, in mezzo alla quale si trova. Con questa disposizione d’animo fosca, con tanto di tedio e di dispetto al di dentro, non si può scrivere una storia della letteratura.
Per non rimaner nell’astratto scendiamo a qualche applicazione, prendendo ad esempio uno de’ suoi giudizii.
Nel capitolo dei poeti del secolo d’oro s’incontra con l’Ariosto, «autore di un poema cui la posteritá conservò il titolo di divino».
Ma questa divinitá non ispira alcuna riverenza al Cantú, che lo guarda accigliato, con aria di rimprovero, e in molte pagine si delizia a guastare il piedistallo ed atterrare l’idolo.
Il gran peccato dell’Ariostó secondo il Cantú fu la vita tranquilla, non provata dalla sventura e dalle «contraddizioni», che «avrebbero sublimato» il suo grande ingegno.
Il prosastico trascinarsi in piccoli impieghi, in minute ambascerie, in servidorie di corti, svigori questo grande ingegno, che le contraddizioni e la sventura avrebbero sublimato; non avvezzo ad alcuna attivitá interiore, lasciando fare e vivacchiando alla spensierata, instabile non solo in amore ma in ogni altro sentimento, quell’incomparabile suo istinto poetico non diresse a scopo veruno, oppure ad un solo, l’adulazione.
Dunque, la poesia dell’Ariosto o non ha scopo, o ha per iscopo l’adulazione. Per essere un gran poeta, dice il Cantú, avrebbe dovuto elevarsi «nelle serene regioni dell’eterna bellezza, esprimere il lato serio della vita, gl’impeti sublimi del cuore, la grandezza morale dell’uomo e della nazione, celebrare le benefiche virtú, il ben usato valore». Invece, soggetto del suo poema è l’adulazione, «adulazione bassa a principi immeritevoli, e per la quale inventa quegli Enrichi, quegli Azzi e quegli Ughi, che mai non esistettero se non forse nelle elucubrazioni di qualche genealogista».
Eccolo ora addentrarsi nel poema, e tutto trova a biasimare. Orlando dovrebbe essere l’Achille, l’eroe principale; ma vi fa una meschina comparsa. Comincia da «vagheggino»; abbandona Carlo al maggior bisogno; «le sue pazzie il rendono un flagello di Francia; senza di lui si vince la guerra;... non una battaglia dirige non un assalto»; e le maggiori imprese le vince per via di prodigi, come avviene de’ paladini e degli altri guerrieri. Carlo Magno è «amico del far nulla», senza carattere proprio; si lascia insultare e corbellare; comanda e non è ubbidito, somiglia a «tralignato rampollo di razze vecchie».
La veritá storica vi è sempre oltraggiata. Trasporta tra’ Mori l’amicizia di Niso ed Eurialo sotto i nomi di Clondano e Medoro; fa vagare Angelica e Marfisa con una libertá difforme dagli usi orientali. Parigi non era allora «cittá di conto, né fu mai assediata da’ Mori, né i Mori aveano in mano Gerusalemme», né allora era fondato il regno d’ Ungheria, e parimente «son baie l’imperator greco Costantino e suo figlio Leone».
L’Ariosto inventa palagi contro ogni regola d’architettura, e pitture che contro ogni regola esprimono azioni successive. «Conducendo Astolfo nella luna, falla negli elementi della cosmogonia» e fa mal governo dell’astronomia; crede la luna lucente per sé ed eguale o poco minor della terra.
La cavalleria era allora cosa seria; come poteva egli porla in discredito? In un canto se ne beffa, in un altro ne parla seriamente : ride «fra carneficine di ottanta e centomila il giorno».
Gli dan lode d’ immaginoso; ma le sue favole erano giá state ordite da altri, né egli le ha sorrette con l’allegoria, come fa il Boiardo:
Comincia con versi di Dante, finisce con versi di Virgilio; da’ predecessori imitò i rapidi e crudi passaggi, e la sconnessione e il mancar d’un cominciamento e d’uno snodo.
E poi, qual cosa è piú facile, che invenzioni fantastiche, non riscontrate dalla ragione?
E coll’Ariosto versiamo in un mondo perpetuamente falso, tra eroi che si tempestano di colpi senza mai ferirsi, che, randagi per foreste selvagge, pure conoscono le cortesie del Cinquecento; tra donne che avvicendano l’amore e le battaglie; fra maghi ed angeli che alternamente sovvertono l’ordine della natura, sicché nelle buffe inverisimiglianze il fantastico uccide sé medesimo...
Diresti che col balzar di maraviglia in maraviglia, voglia torre alla riflessione di appuntarne le sconvenienze; né comprende che la grand’arte d’ogni poesia sta nell’ammisurare la finzione al vero, in tal guisa che il maraviglioso s’accordi col credibile...
Rinaldo e Astolfo vanno traverso gli spazii del cielo e dell’Italia, eppure non s’ imbattono mai in arti, in mestieri, in leggi, in quello di che vive l’umanitá, in quello di che era pieno il Cinquecento. D’ Italia insigne vanto sono Colombo, Americo, il Cabotto; e l’Ariosto parlando della scoperta di nuovi mondi, non accenna che a portoghesi e a spagnuoli, e ne trae occasione di encomiare Carlo quinto.
E poemi e ogni altro libro in tanto son lodevoli in quanto porgono un concetto utile e grande... Ora l’Ariosto, mancante sempre del vero pregio di un’epopea, la sinceritá, ridendo di sé, del soggetto, de’ lettori, diresti siasi proposto distruggere i sentimenti man mano che li suscitò... E celiasse solo degli uomini, ma non la perdona alle cose sante. Mette in beffa Dio,
Frivola è la moralitá de’ capocanti, allorché non sia ribalda... Stranissime idee del vizio e della virtú; unica gloria la forza militare
«Nessuno, peggio dell’Ariosto», fu cosí «zeppo di lubriche ambiguitá e d’immagini licenziose.»
«Abbraccia, è vero, tutti gli stati e condizioni; ma perde di vista l’uomo, fallisce ed esagera il linguaggio della passione»; e non ti offre donne virtuose, ma sozze, Gabrine e Origille, o voluttuose amiche, fra le quali è da porre anche Isabella.
Però,
Ecco in che modo il Cantú parla dell’Ariosto, e noi abbiamo voluto esporre il suo giudizio quasi con le stesse sue parole, per esser piú sicuri di renderlo con esattezza. Finisce con la seguente osservazione :
Degli ingegni... è incalcolabile la potenza; guai a chi la sconosce, peggio a chi l’abusa. L’uomo, allorché s’accinge a scrivere, tremi delle conseguenze d’ogni sua parola. A’ pensamenti del Machiavelli è debitrice Italia di lutto e d’ infamia oh quanta! Dagli scherzi dell’Ariosto che travolge le idee di virtú, che divinizza la forza, che fa delirare il raziocinio, che imbelletta il vizio e seconda gl’ istinti voluttuosi, forse la patria trasse piú mali ch’ella stessa non sospetti...
Riassumendo, l’Orlando furioso, il poema divino, secondo il Cantú, o non ha, scopo, o ha a scopo l’adulazione; i caratteri vi sono mediocri e imperfetti, come è dei due principalissimi personaggi, Orlando e Carlo; vi si trova falsificata la storia, la cosmogonia, la geografia, l’astronomia, le belle arti; le invenzioni, per lo piú tolte da altri, non sono sorrette dall’allegoria, non sono riscontrate dalla ragione e ci gittano in un mondo perpetuamente falso, ove l’inverosimile uccide il fantastico; niente ci è che ricordi la patria o i tempi suoi o le opere dell’ingegno, come arti, mestieri, leggi, scoperte; niente vi è di serio; vi si ride di tutto, della religione, della morale, del soggetto, dell’autore, e dei lettori. Se non fosse lo stile, niente vi sarebbe degno di lode.
Tutte queste critiche del Cantú, salvo un po’ d’esagerazione, sono giuste nel fondo. Chi può mettere in dubbio che nel « divino poema » vi sieno caratteri imperfetti e mediocri, sbagli di storia o di geografia, molte scurrilitá, invenzioni tolte altronde e senza freno di ragione, e cose simili? Sono osservazioni fatte, rifatte, e che non sono giunte mai a scemare l’ammirazione verso il sommo poeta. Anzi, dove non ci è quasi gran poeta, che non abbia avuto i suoi violenti detrattori, e la cui fama non siasi oscurata in qualche secolo, la riputazione dell’Ariosto è andata sempre crescendo, non solo in Italia, ma in tutta la colta Europa, ed oggi i critici piú dotti e competenti non dubitano di metterlo accanto ai primissimi, a Dante, a Omero, a Shakespeare.
La fama del poeta cresce, e nondimeno queste critiche si accettano e si tengono per buone e per giuste. Il che vuol dire che queste critiche, giuste in sé stesse, diventano assurde, quando si prendono a criterio de’ giudizii, e se ne vuole inferire il valore intimo dell’opera. Finché il Cantú dicesse: — Io non direi a’ giovani di voler imparare la morale o la storia nell’Orlando furioso, o di cercarvi lezioni di patriottismo o di belle arti ; noi diremmo lo stesso. Ma quando, dettando una storia della letteratura, mi gitta giú il « divino poema », per gli sbagli di storia o di geografia, per gli errori di morale, per la licenza dello scrivere, per la inverisimiglianza delle finzioni e per altrettali difetti, abbiamo ragione di dirgli che ha un concetto storto della letteratura, e ha ottuso il senso estetico.
Per dimostrarlo con maggiore efficacia, prendiamo la prima delle sue osservazioni, che ha maggiore attinenza col valor letterario del libro.
Secondo il Cantú, la materia e lo scopo del poema è l’adulazione, essendo il fatto principale gli amori di Ruggiero e Bradamante, volto all’elogio di Casa d’Este. L’osservazione è stata giá fatta, e nessuno ha mai pensato a voler difendere l’Ariosto da questa taccia. Ma il Cantú esagera il fatto, quando lo considera come l’intenzione e Io scopo del lavoro, perciò come un difetto non accidentale e chiuso in sé stesso, ma sostanziale e quasi anima di quel vasto ordito, sí che vi penetri dappertutto e vizii tutto.
Che questa sia stata l’intenzione dell’Ariosto, è cosa che si può ammettere o negare, senza che questo abbia niente a fare col valor reale dell’opera. Un’opera ha la sua intenzione in sé stessa, e poco monta quale sia stata l’intenzione dell’autore. Se l’Ariosto ha voluto fare del suo poema un panegirico di Casa d’ Este, suo danno; il panegirico è sfumato, il poema è rimasto. Chi oggi ricorda piú quelle lodi, o si ricorda piú non che altro de’ nomi di quei duchi e duchesse? Tutto questo è dimenticato; il lettore lo gitta via da sé come un cencio inutile: segno che l’intenzione personale dell’autore ci sta come qualcosa di appiccicato e sovrapposto, e che il poema con quella e senza di quella resta in sé stesso compiuto e perfetto. L’errore del Cantú sta a considerare l’intenzione dell’Ariosto non come un accidente naufragato e dimenticato in mezzo a quel mirabile ordito, ma come la sostanza stessa e il principio organico del poema.
Secondo il Cantú, o questo è lo scopo del poema, o il poema e senza scopo. Ben altro sarebbe stato se il poeta avesse inteso «a rialzare la coscienza nazionale, ed elevandosi nelle serene regioni dell’eterna bellezza, avesse espresso il lato serio della vita, gl’impeti sublimi del cuore, la grandezza morale dell’uomo e della nazione».
Vale a dire che il critico, in luogo d’immedesimarsi col poema, prenderlo com’ è, e spiegarlo e goderlo e gustarlo, immagina lui un nuovo poema con un altro scopo, ed ha la temeritá di dire: — Ecco quello che avrebbe dovuto fare l’Ariosto — . Cosi, insensibile alle grandi bellezze della poesia del Folengo, tanto stimato dai critici stranieri, esce a dire : — Oh se il Folengo avesse trattato argomenti serii! — , come se il poeta fosse una specie di macchinetta e potesse a sua volontá essere serio e comico; come se Molière potesse essere Corneille, e Tasso, Folengo. Cosi, non contento del Giusti, suggerisce quali a parer suo doveano essere i motivi e le fonti delle sue satire. Il che significa non comprendere né il Giusti, né il Folengo, né l’Ariosto.
Dire : — Oh se l’Ariosto avesse espresso il lato serio della vita! — , significa in altre parole: — Oh se l’Ariosto non fosse stato l’Ariosto! e se quei tempi non fossero stati quei tempi! — .
L’ingegno non è una vuota potenzialitá applicabile a tutto, ma qualche cosa di concreto che s’ individua cosí o cosí, e non altrimenti. Ed è tanto assurdo supporre che l’Ariosto potesse esprimere il lato serio della vita, quanto è assurdo il sostenere che l’Ariosto non era l’Ariosto, ma Milton o Dante.
Basta poi una conoscenza superficiale de’ suoi tempi per comprendere l’assurditá e quindi l’impossibilitá di un’epopea, come la vuole il Cantú. Una lirica a quel modo si può comprendere, potendo la lirica essere anche l’eco di un’anima solitaria, o l’espressione di una minoranza. Ma l’epopea trae la sua vita dall’intimo della nazione, come si trova; e se un poema, come lo vuole il Cantú, fosse stato possibile, l’Italia avrebbe avuto ancora in sé tanto di vita da rilevarsi dalla sua abiezione e ristaurarsi per virtú propria. Ove il Cantú avesse mirato cosí addentro, avrebbe veduto che il poema ariostesco, cosí com’ è, è altamente nazionale e umano, rappresentando con la sapienza inconsapevole del genio ciò che allora v’era di piú intimo e di piú nascosto nella coscienza dell’Italia e dell’umanitá. Ma, rimasto alla superficie, ha finito col dire: — O lo scopo del poema è abbietto, o è senza scopo; e quale avrebbe dovuto essere lo scopo, ora ve lo dico io — .
Or che giudizio ci può dare del poema un uomo, che non sa vederne lo scopo? Poiché, siccome lo scopo genera tutto l’organismo del lavoro, è evidente che quello che nel poema ci è di organico e d’ intimo, sfugge all’occhio del critico, e non rimane sotto la sua osservazione che solo la parte meccanica, e quel lato apparente e superficiale della forma che egli chiama lo «stile».
Ed a questo si riduce l’analisi del nostro critico. Le sue osservazioni cadono sulle qualitá astratte del contenuto, anzi che sul movimento organico che ne fa una cosa viva, e non un morto aggregato meccanico. Orlando e Carlo Magno sono caratteri perfetti? Il contenuto è storico o favoloso? I costumi e i fatti sono conformi a’ tempi? Le invenzioni contraddicono per nulla alla storia, alla cosmogonia, alla geografia? Le invenzioni sono originali? sono verisimili? Vi è ispirato l’amor della patria, il culto delle arti e delle scienze? Vi è rispettata la morale nelle cose e nella forma? Quistioni che riguardano la natura del contenuto considerato astrattamente, e non in quanto vive e si muove, ciò che è il sostanziale di un lavoro artistico. Possiamo ammettere come esatte tutte le critiche del Cantú, e non ne verrebbe alcun danno al merito intrinseco del poema in quanto è poema. Possiamo tenerle tutte ingiuste o esagerate, e non ne verrebbe alcun vantaggio al lavoro, il cui valore non dipende da queste condizioni. Sapevamo che tali quistioni tengono il principal luogo nella vecchia critica, ma credevamo che dopo il progresso degli studi critici in Europa non dovessero piú entrare in una storia della letteratura, o almeno vi dovessero esser toccate per incidente, come si fa delle cose secondarie ed accidentali. Né ci aspettavamo che un uomo, il quale dá del pedante a dritta e a manca, e se la piglia con tanta acerbitá co’ pedanti vecchi e piú co’ nuovi, desse egli medesimo un esempio cosí classico di pedanteria, rifacendo una critica oramai giudicata e condannata.
Perché dunque con tutti questi difetti l’Orlando furioso vive? Per lo stile, risponde il Cantò. E loda lo stile del «divino poema» per la vivacitá e varietá del ritrarre, per la versatilitá dell’espressione, per l’armonia, per la copia e l’eleganza della favella. Qualitá che non bastano a destare la sua ammirazione, che egli discorre rapidamente in una pagina, e chiude subito con un terribile ma, che ci riconduce in quel fondo nero, dove gli è piaciuto di collocare l’Ariosto.
Lo «stile» per il Cantú è una riunione di qualitá astratte ed isolate, come la vivacitá, la varietá, l’eleganza, la semplicitá, l’armonia, ecc., e tutto questo è rettorica vieta. Tali qualitá incontriamo anche in poeti di second’ordine, come nel Casa, nel Filicaia, nel Monti, e sono qualitá meccaniche che con lungo esercizio si possono conseguire artificialmente, come hanno mostrato molti imitatori. Il Cantú, parlando dello stile ariostesco, poteva aggiungervene altre, e tutte a caso, secondo che gli venivano sotto la penna; come avviene, quando non si ha innanzi un tutto organico che si sviluppi e si mostri, ma la superficie astratta quale ti si presenta innanzi.
In un’opera d’arte si può benissimo fare un lavoro di astrazione. Si può isolare il contenuto dalla forma: in questa considerare la puritá, la grazia, la chiarezza, l’armonia; in quello l’originalitá, la moralitá, la veritá storica; si può insomma fare quello che fanno tutte le rettoriche, ridurre tutto a generi e specie, a caratteri e qualitá astratte. La rettorica non si propone di formare il grande scrittore, ma di dare una certa abilitá tecnica, che si può non difficilmente conseguire con l’esercizio e con le regole. Un critico, che con questo medesimo metodo volesse dar giudizio di uno scrittore, considerando l’invenzione, i caratteri, le passioni, l’elocuzione, la lingua, fa dell’anatomia sopra un cadavere, fa una critica astratta, che se qua e lá ci può dare delle utili notizie e delle savie osservazioni, non può mai riprodurre nella sua integritá organica e vivente il mondo creato dall’artista. Il critico è dirimpetto all’artista quello che l’artista è dirimpetto alla natura. Come l’artista vi riproduce la natura, ma con altri mezzi ed altro scopo, cosí il critico riproduce l’arte, ma co’ suoi processi e co’ propri fini, e, quello che piú importa, con quella piena coscienza di essa che manca spesso all’artista.
L’Ariosto ha creato un mondo, che ha in sé il suo scopo le sue leggi, la sua forma, cosí vivo e originale e vero, come é il mondo omerico o il mondo dantesco. Quel mondo che l’Ariosto ha creato, il critico dee comprenderlo e gustarlo, averne l’intelligenza e il sentimento. Ora, al Cantú manca perfettamente la coscienza del mondo ariostesco; non ha la forza di uccidere il mondo reale in mezzo al quale si trova, e ricreare con l’ajuto dell’ intelligenza e del sentimento quel mondo che il poeta ha creato con la fantasia. Se avesse avuto questa forza, se avesse potuto vivere per poco in mezzo a quel mondo, ne avrebbe afferrato il concetto e lo scopo, e le leggi e le forme, ed avrebbe veduto che quella superficialitá di passioni, quella imperfezione di caratteri, quelle inverosimiglianze, quelle fuggevoli creazioni che appena nate sono uccise da un’ ironia implacabile, quella moralitá equivoca in cui si fonde vizio e virtú, quella logica beffarda in cui si confonde il vero ed il falso, quegli urti di forze materiali gigantesche, che accennano al sublime e finiscono nel ridicolo, quel genio demolitore e onnipotente, che guasta e disfá tutto, e che si chiama il riso, sono ciò che di piú profondo e originale sia uscito da una fantasia poetica, sono non i difetti, ma le virtú dell’Ariosto. Chi vuol comprendere la grandezza del suo poema, non ha che a compararlo col Don Chisciotte, dove lo stesso mondo è riprodotto, ma con perfetta coscienza. Lá lo scopo, che nell’Orlando furioso rimane addentrato e seppellito e inconsapevole creatore di tutto un mondo, diviene visibile ed acquista prosaica chiarezza; lá è pazzia manifesta quello che nell’Ariosto ondeggia fra la serietá e la burla con indecisi contorni, si che il buon Cantú non sa se il poeta scherzi o dica da senno; lá spariscono le ombre, le mezze tinte, le sfumature, le gradazioni, la finezza e la delicatezza di una inconscia ed equivoca ironia, che involvono il mondo ariostesco in quel velo misterioso, in quelle forme ondeggianti, dov’è il maggiore attrattivo della poesia.
Il Cantú non ha neppur sospettato l’esistenza di questo mondo divino, di questa profonda creazione umoristica, nella quale si dissolve il Medio evo e si genera il mondo moderno. Egli vi entra dentro, portandosi appresso i due mondi del volgo, il mondo reale e concreto, ed il mondo delle poetiche e delle rettoriche, e vi applica quelle forme e quelle regole, e giudica. Qual maraviglia che non abbia compresa la parentela dell’Ariosto con Dante e Shakespeare, un uomo, che si tira dietro una poetica da scuola, ti esce fuori con l’invenzione, la verosimiglianza, la veritá storica, la perfezione de’ caratteri, l’eleganza, l’armonia, la moralitá, la decenza, il patriottismo, l’astronomia e la cosmogonia?
In un impeto di sublime indignazione egli dice : — L’Ariosto ha prodotto piú danno che l’Italia non sospetti — . Io credo si possa con piú ragione dir del suo libro che esso produrrá piú danno che non paia; confermando la gioventú studiosa in antichi e nuovi pregiudizi, ed avvezzandola a giudizii arroganti e presuntuosi, al disprezzo de’ nostri sommi, a quella mezza e superficiale dottrina, che è peggiore dell’ignoranza.
[Nei « Rendiconti della R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli », i865, pp. i39-55, nella tornata del i7 settembre.]