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E poi, qual cosa è piú facile, che invenzioni fantastiche, non riscontrate dalla ragione?

E coll’Ariosto versiamo in un mondo perpetuamente falso, tra eroi che si tempestano di colpi senza mai ferirsi, che, randagi per foreste selvagge, pure conoscono le cortesie del Cinquecento; tra donne che avvicendano l’amore e le battaglie; fra maghi ed angeli che alternamente sovvertono l’ordine della natura, sicché nelle buffe inverisimiglianze il fantastico uccide sé medesimo...

Diresti che col balzar di maraviglia in maraviglia, voglia torre alla riflessione di appuntarne le sconvenienze; né comprende che la grand’arte d’ogni poesia sta nell’ammisurare la finzione al vero, in tal guisa che il maraviglioso s’accordi col credibile...

Rinaldo e Astolfo vanno traverso gli spazii del cielo e dell’Italia, eppure non s’ imbattono mai in arti, in mestieri, in leggi, in quello di che vive l’umanitá, in quello di che era pieno il Cinquecento. D’ Italia insigne vanto sono Colombo, Americo, il Cabotto; e l’Ariosto parlando della scoperta di nuovi mondi, non accenna che a portoghesi e a spagnuoli, e ne trae occasione di encomiare Carlo quinto.

E non si ricorda della patria che nell’ultimo canto, ove «affastella a’ gloriosi contemporanei altri bassi nomi,... come uno di questi meschini che mendicano la lode col prodigarla».

E poemi e ogni altro libro in tanto son lodevoli in quanto porgono un concetto utile e grande... Ora l’Ariosto, mancante sempre del vero pregio di un’epopea, la sinceritá, ridendo di sé, del soggetto, de’ lettori, diresti siasi proposto distruggere i sentimenti man mano che li suscitò... E celiasse solo degli uomini, ma non la perdona alle cose sante. Mette in beffa Dio,

e confonde cose sacre con profane.

Frivola è la moralitá de’ capocanti, allorché non sia ribalda... Stranissime idee del vizio e della virtú; unica gloria la forza militare