Saggi critici/«Lucrezia» di Ponsard

«Lucrezia» di Ponsard

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Schopenhauer e Leopardi. Dialogo tra A e D Una «Storia della letteratura italiana» di Cesare Cantù
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«LUCREZIA»

di Ponsard


Ponsard è comparso sulla scena, in mezzo ad una battaglia, desideratissimo. I classici andavano cercando il loro uomo con la lanterna. S’incontrarono in Ponsard, e lo portarono in trionfo : — Voi avete Victor Hugo, noi abbiamo Ponsard — . Sicché il giovine poeta si trovò d’un salto accanto al celebre romantico, ed ebbe l’onore di essere citato e giudicato a quel ragguaglio; altezza a cui non si giunge in condizioni ordinarie, se non dopo molti lavori e lungo contendere. Quel tempo è passato, e se a Ponsard è venuto il capogiro su quella fattizia piramide, non è però precipitato infino a terra, ed ha conservato una certa riputazione, se non di gran poeta, almeno, per dirla alla francese, d’uomo di spirito. Nondimeno egli sta ancora «tra color che son sospesi», voglio dire tra l’antica e la nuova riputazione, e non è però inopportuno che un critico sincero ed onesto, sciolto da ogni consorteria, ed in giudicar d’opere d’arte con l’arte sola innanzi, si studi di assegnargli il posto che gli è debito.

Ponsard, volendo fare una tragedia classica, ha tolto un soggetto nella storia antica, accomodatissimo a quella semplicitá d’azione, a quell’unitá di tempo e di luogo che richiedevano i classici. Si sosteneva allora che una tragedia con quelle norme fosse cosa impossibile : — Ve lo farò vedere, rispose Ponsard; voi negate il moto, io cammino — . E veramente il fatto rappresentato è semplicissimo, e può aver luogo anche nelle [p. 162 modifica]ventiquattr’ore, se volete, ed anche nelle stanze di Lucrezia, se domandate anche questo. Il che non è merito e non è difetto; perché queste condizioni non hanno niente d’assoluto, e dipendono dalla natura del soggetto e dal giudizio del poeta; ed il torto di quelle dispute, a parer mio, è d’aver messa la quistione in condizioni accessorie, e non nelle qualitá intrinseche e sostanziali dell’arte.

Un’azione semplice, con le famose unitá, può esser tutto quello che volete. Tragedia, con questo e senza questo, è, per rispetto alla sua materia, lotta d’uomo eroico contro le potenze soprannaturali e naturali che gli resistono, l’aurora del libero arbitrio, l’uomo che acquista coscienza di sua forza e si pone di rincontro alla natura. Questa lotta presso gli antichi è colossale, perché è lotta del cielo e della terra, degli Iddii e degli uomini. Trattando un soggetto antico, voi potete alterarne le condizioni, e cacciarne via il Fato, o, per dir meglio, spiegarlo con cagioni naturali, con la storia e la filosofia; voi potete guardare l’antico con lo spirito moderno: ed è il meglio, cred’io; o, se non vi piace, lasciate stare l’antico. Ma Ponsard lavorava in tempi, nei quali la storia si ficcava per tutto, anche nell’arte; Ponsard dunque volle rifare Roma, i Tarquinii e Lucrezia. Come tagliarne fuori il Fato? Si è ricordato della Sibilla cumana e de’ suoi famosi libri, e l’ha introdotta nella tragedia; poi ci ha aggiunti i sogni, i cattivi augurii, l’oracolo di Delfo, ed ha conchiuso : — Questo basta per il Fato: inventiamo ora un’azione chiara, intelligibile, che vada da sé, affinché i parigini, che credono al miracolo della Salette, ma non credono ai miracoli del Fato, non mi abbiano a canzonare — . Come si può fare oggi una tragedia coi parigini innanzi all’ immaginazione?

Vi sono certi avvenimenti gravissimi, che ti colgono cosí improvviso e s: succedono con tanta rapiditá, che non ti puoi raccapezzare, e ti par veramente ci sia per aria una mano nascosta che faccia tutto. Cosi l’uomo moderno, incredulo e ragionatore, può avere in qualche modo il sentimento del Fato. Questo sentimento scoppia dalla tragedia antica con tanta forza, che non te ne puoi difendere, e senti il terrore e la potenza di [p. 163 modifica]un essere superiore; lo senti nella coscienza de’ personaggi, nel misterioso degli avvenimenti, nella lugubre solennitá della forma. La rovina d’un eroe o di una famiglia, a cui prende parte il cielo e la natura, ti si affaccia con sí vaste proporzioni che ti par si tragga appresso la rovina dell’universo. Che cosa hanno a fare con questo la Sibilla cumana, l’oracolo e gli augurii, e i sogni, pure accessorii, che compariscono ciascuno in questa o quella scena, ti salutano e vanno via, senza legame col tutto, vuoti ed oziosi, estranei alle azioni, a’ caratteri, a’ sentimenti? Sono reminiscenze classiche che ti lasciano freddo e incredulo, materia greggia presa tal quale come si presenta all’erudito, e che se pure sta li per qualche cosa, è per farti conoscere le costumanze e le credenze di quei tempi, a quel modo che certi romanzieri non possono presentarti un guerriero senza trarsi appresso tutta l’armeria del Medio evo.

Il fatale di quest’azione è non nell’ infortunio di Lucrezia, ma nella caduta della monarchia e negli alti destini di Roma. Questo ingrandisce le proporzioni di quel fatto, memorabile non tanto per sé, quanto per gli effetti che ne uscirono. Lucrezia è un’occasione; il principale interesse è nella maestá e grandezza di questo avvenimento, a cui non sarebbe stato indegno che avessero cooperato cielo e terra ed il Fato in persona. Ma poiché questo povero Fato è ridotto in quei termini che sapete, lasciamolo tranquillo, e consideriamo i fatti umanamente.

Il fremito del patriziato, l’oppressione della tirannide, l’indolenza del popolo e de’ soldati non senza un sinistro mormorio, qualche cosa di oscuro nella coscienza, che tutti sentono e nessuno confessa, e che annunzia lo scoppio come di una forza troppo compressa e 1’ imminenza di una catastrofe, questo dovrebbe essere l’anima interiore della tragedia. Ma come si fa? In questo caso bisognava mandare in malora la semplicitá dell’azione e le care unitá. Ed il problema non era sciolto. Ponsard si è tirato d’ impaccio, introducendo una lunghissima conversazione tra due vecchi cospiratori, Valerio e Bruto, i quali, come se fosse la prima volta che si vedessero o si parlassero, e come se non ci fosse di meglio a fare, discorrono a [p. 164 modifica]lungo dello stato degli spiriti in Roma. Immaginate un professore di storia che dalla cattedra vi faccia una esposizione delle condizioni politiche e sociali del popolo romano a quel tempo; e, se non ve ne contentate, siete incontentabili.

Poniamo da banda anche questo; resta il fatto di Lucrezia, diviso nelle sue tre parti : l’orgia nel campo, la violenza patita da Lucrezia e la sua morte. Ma l’orgia contraddirebbe all’unitá di luogo, ed è narrata; la violenza contraddice alle convenienze teatrali, ed è narrata; che vi resta? Lucrezia che si uccide. La tragedia è tutta intera in un atto solo, anzi in una sola scena. Voi potete ficcarci la Sibilla e l’oracolo, intrometterci discorsi, narrazioni, spiegazioni : tutto questo non è azione rappresentata, non è la tragedia.

Per riempire il vuoto di un’azione cosí semplice, Ponsard è stato costretto di ricorrere agli episodi : ciò che Alfieri piú logico ha sdegnato di fare. E ci ha fatto entrare la moglie di Bruto, la quale fa a Sesto olocausto della fede maritale, e, abbandonata dall’amante e rimproverata dal marito, si uccide. Costei fa antitesi con Lucrezia; ma Ponsard ha orrore delle antitesi, come contrarie alla semplicitá classica. L’antitesi è notata filosoficamente da Bruto, quando innanzi al cadavere di Lucrezia, udendo la morte della moglie, fa molto a proposito questa giudiziosa osservazione:

                          Toutes deux s’ immolant, d’un commun désespoir,
L’une à sa passion, et l’autre à son devoir.
                    

Ma porre in azione l’antitesi sarebbe stato delitto di leso classicismo: perciò non incontro, non collisione, ed una situazione, sufficiente ella sola a tutta una tragedia, per difetto d’alimento intisichisce. Ponsard non volea rinunziare all’episodio e volea conservare la semplicitá; e, per voler troppo abbracciare, non ha stretto nulla. A’ rimproveri di Bruto, Tullia risolve d’uccidersi, ma vuol prima andare al convito da lei preparato:

                          .  .  .  Allons donc porter dans cette joie
Le mensonge d’un coeur à l’amertume en proie.
                    
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Ponsard ha ben compreso quale avrebbe dovuto essere lo stato di Tullia nel convito, e sarebbe riuscito altamente drammatico; lo ha ben compreso come critico; ma quando dovrebbe cominciare il poeta, quando cioè dovrebbe Ponsard rappresentarci Tullia in quello stato, cala il sipario, salvo ad informarci piú appresso che il convito ha avuto luogo. Dopo la festa, Tullia non s’ammazza ancora, e va a far visita a Sesto, con la speranza di convertirlo. La speranza non abbandona mai gli innamorati. Va e gli fa un po’ di predica, e, trovandolo peccatore ostinato, rompe nelle invettive.

Questi ultimi quattro versi vi daranno un saggio della immaginazione e del gusto di Ponsard:

                          Je parcourrai le Styx, carresant ma vengeance,
Pour mettre tout l’enfer dans mon intelligence,
Et le jour oú sur vous planeront des malheurs.
Ce jour-lá je promets mon ombre à vos pâleurs.
                    
Rettorica per rettorica, preferisco il « Vattene pur, crudel » di Armida.

Lucrezia è un carattere ozioso, nudo d’ogni varietá e contrasto, che può benissimo filar lana e sermonare con la nutrice sull’educazione e sui doveri d’una matrona; ma non fa, non può far nulla. Il suo solo fatto è d’uccidersi. Sesto è un libertino ignobile, volgare, sciocco, vano, al disotto della tragedia. Lucrezia conosce e disprezza Sesto, quantunque adempia tutti i convenevoli verso di lui. Sesto conosce pure Lucrezia, e sa che non ha a sperare che nella forza e nell’astuzia. Tra questi due personaggi dunque non ci può essere che cambio di gentilezze d’uso, chiusi nella loro dissimulazione. Ma Ponsard dovea riempiere quattro atti; perché l’azione non gli dá che il quinto atto. Ha immaginato dunque una dichiarazione amorosa, che Sesto fa in tutte le regole : scena inutile, contraria al buon senso, che si può gittar via con un soffio senza che l’ordito ne sia guasto, buona solo a far dire al lettore: — Sciocco l’uno che non sa tacere, e piú sciocca l’altra che non sa guardarsi — . [p. 166 modifica]

Collatino, Sulpizio, Valerio sono affatto insignificanti. Resta Bruto il protagonista, se è vero che l’interesse della tragedia è nella libertá romana. Livio dice che Bruto fe’ l’imbecille per salvare la vita, aspettando tempo e occasione a vendetta. Bruto buffoneggia, sostiene oltraggi d’ogni sorta pazientemente, quando uno spettacolo terribile, non aspettato, non preveduto, e a cui si trova presente per caso, lo riscuote come da un lungo sonno; quello spettacolo opera su lui, come poco poi doveva operare sul popolo. Ecco il Bruto storico e poetico, ricco di gradazioni e di contrasti, che ti dá uno de’ misteri dell’anima non meno profondo di quello eh’ è rappresentato in Amleto. Il Bruto di Ponsard è un cospiratore alla moderna, che per mezzo di Valerio intriga coi patrizi. Tra questi intrighi fa l’imbecille da imbecille, vale a dire con una perfetta mala grazia; si vergogna della professione. Non sa mescolare il serio col ridicolo, il falso col vero, di modo che faccia ridere gli uni e fremere gli altri. É un ambizioso che vuole il potere, salvo a farne buon uso: proposito di tutti gli ambiziosi. Ha la rabbia nel cuore, e dee far bocca da ridere, e non sa farlo, essendo i suoi scherzi guasti dall’amarezza dell’ ironia, dalla puntura del sarcasmo, dalla gravitá dell’ammonizione. Le file della congiura sono ordite; tutto è in punto, e Bruto aspetta. — Che aspetti?, chiede Valerio. — Che Sesto ne faccia una grossa. — Ora, se farne una grossa significava insidiare all’onore delle famiglie, Sesto ne aveva fatte delle grossissime, ed il povero Bruto ne aveva i vestigi in casa. Che aspettava dunque? Proprio che Lucrezia, sforzata da Sesto, si uccidesse. Sapeva la passione di Sesto; conosceva il suo carattere, fatto piú audace dall’impunitá. Mi piace meglio la leggenda, dove tutto accade senza premeditazione, con 1’ impeto e la spontaneitá di una prima impressione. Questo Bruto cospiratore rassomiglia troppo al padre Rodin che specula sul carattere de’ suoi coeredi, e mi riesce freddo ed odioso. Quando leva in alto il pugnale e giura di vendicare Lucrezia, mi sta innanzi il cospiratore, che coglie quell’occasione desiderata e preveduta, e le sue parole non mi fanno effetto.

È una tragedia vacua e stagnante, per entro alle cui fila mal [p. 167 modifica]tessute si sente un languor mortale. L’ interesse è tutto nell’ultima scena. E sarei stato piú contento, se Ponsard m’avesse tradotto Livio in quella sua maestá pur tanto semplice, senza aggiungervi i suoi ricami. Questo ci può essere esempio dello stile del poeta francese.

Lucrezia, alla vista de’ suoi, scoppia a piangere, e Collarino chiede : — «Satin salve?» — . Ella risponde :

— «Minime.... quid enim íalvi est mulieri, amissa pudicitia? Vestigia viri alieni. Collatine, in lecto sunt tuo. Ceterum corpus est tantum violatum: animus insons: mors testis erit. Sed date dextras fidemque haud impune adultero fore. Sextus est Tarqumius, qui hostis pro hospite priore nocte vi armatus mihi sibique, si vos viri estis, pestiferum hinc abstulit gaudium» — .

La Lucrezia francese è nella sua stanza, mentre gl’ invitati attendono nel salotto. Bisogna osservare le convenienze; gli antichi non vi guardavano tanto pel sottile. Infine, l’aspettata fa la sua comparsa : capelli sparsi, occhi a terra, vesti brune, quasi in lacrime. — Che hai? — , direbbe rozzamente Dante. Quel buon uomo di Collarino dice : — «Satin salve?» — . Questo non è sembrato abbastanza nobile a Ponsard, non conforme alla dignitá della tragedia : gli eroi non parlano come i semplici mortali. E innanzi tutto non tocca al marito di farsi innanzi, quando il padre della sposa è presente. Ascoltiamo il padre.

Ci sono certi casi, ne’ quali le impressioni sono rapide, immediate. Se veggo venir uno con gli occhi infiammati verso di me, dico subito: — Che cosa è? — ; e non dico: — Tu hai gli occhi accesi, i capelli arruffati, ecc., che cos’ è — . Si sopprimono le premesse, si corre alla conseguenza, soprattutto ne’ momenti di passione. Il padre si diverte a far prima il ritratto della figlia; le si avvicina; le dice: — «Ma fille» — . E niuna risposta. Si accorge allora che avea gli occhi velati di lagrime: — «Qui pleures tu?». — Ecco la famosa domanda sostituita all’ ignobile; — «Satin salve» — . Rispondere subito sarebbe [p. 168 modifica]troppo borghese. Lucrezia fa aspettare un po’ la risposta: cosí si desta l’aspettazione degli spettatori. Dopo una pausa:

                          .  .  .  .  — Moi-même, et je porte mon deuil,
Le deuil de mon honneur — .
                    
Vedete che Lucrezia si ricorda di tutta la domanda e vi risponde punto per punto. Peccato che abbia dimenticato i capelli sparsi e gli occhi a terra. Ma qualche cosa bisognava pur lasciare all’ intelligenza del padre. Credete ora che Lucrezia si abbandoni all’ impeto del dolore e si sfoghi, come farebbe una donna in cui la passione trabocchi? Oibò! La povera donna non può parlare e bisogna tirarle le parole di bocca. Comincia il marito:
                          Lucrèce, quel langage!                     

Non so se ci sia niente di piú comico che questo ingresso trionfale del marito in iscena. Le fanno ressa intorno. La sibilla riapre la bocca:

                                                                       Morte est l’épouse.                     
Lucrezia parla da oracolo, vorrebbe far comprendere a quelle teste grosse di che si tratta; ma poiché le trova piú dure di una balena, forza è pur che si spieghi.
                                                                                                Qu’ importe
Que le corps soit vivant, quand la pudeur est morte?
                    
Capisci ora, imbecille?
                          Tu n’as devant les yeux qu’un corps déshonoré.
Pourtant mon âme est pure.
                    

Nel latino la violenza patita dal corpo, che il francese chiama «disonore del corpo», è un incidente, e vi succede [p. 169 modifica]immediatamente l’idea su cui si appoggia tutta la frase: «animus insons». Ma Ponsard vuol proprio far capire al marito il suo infortunio, e batte e ribatte : «la pudeur est morte! le corps est déshonoré!» Pausa. E poi viene la consolazione:

                                         Pourtant mon âme est pure.                                         

Nessuno ha letto Livio, che non ricordi di qual brivido fu compreso quando Lucrezia aggiunge : « mors testis erit », funebre preludio della catastrofe. Ma, caro Livio, a questo modo fai capire come andrá a finire la faccenda, e non tieni desta la curiositá sino alla fine. La Lucrezia francese è piú furba, ed intendente delle leggi del teatro vuol che la sua morte sia un colpo di scena. Si contenta dunque di dire con una frase rubata ad un avvocato:

                                                   Et je le prouverai.                                              
Gran Dio! «Mors testis erit: je le prouverai!» Continuate, cari lettori; vi troverete che
                          .  .  .  .  Le crime a semé sa vengeance après soi:                     
che Sextus
                                                             Déchaîna cet orage effroyable
Contre moi,
                    
e simili fiori poetici. Raccontando il fatto, la povera Lucrezia prende l’aria di un’accusata, e pensa a difendersi:
                                                        Je l’ai reçu. C’était un hôte...
Je n’ai pas craint la mort; j’ai craint l’ignominie.
Ma mort à ce moment servait la calomnie.
                    
Sublime Lucrezia di Livio! Tu non ti difendi, tu non senti neppure la possibilitá d’essere accusata. E ti basta dire: «hostis pro hospite», e non ti degni di arrecare il minimo particolare, [p. 170 modifica]che ti giustifichi. La Lucrezia francese ama le metafore e gl’ indovinelli.
                                    .   .   .   .   Mais il reste un juge.                               

Il solito imbecille, che non capisce mai nulla, domanda cosí alla stordita:

                                    .   .   .   .   .   .   .   — Et qui donc?
                                                       Moi — .
                              

Udite questo secondo «moi», cosí pieno e sonoro; il povero Ponsard è tormentato dal «moi» di Corneille; e mira anche lui al sublime. In veritá, se ha voluto essere classico, non ci è niente di cosí poco classico che questa tragedia. E quando io penso che la Carlotta Corday è ancora piú giú, e non merita proprio che se ne faccia menzione speciale, mi par di poter affermare che il Ponsard, buon facitore di versi, è un poeta appena di second’ordine, e se pur passerá ai posteri, sará perché s’ incontrerá il suo nome nelle biografie di Victor Hugo.

[Nella «Gazzetta Piemontese», n. 3, 4 gennaio i859.]