Roveto ardente/Parte terza/V
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Penelope stava alle vedette e colse al varco la signora Gualterio, mentre ella usciva dal portone.
Le questioni si complicavano. Per i primi due mesi le venti lire erano state consegnate puntualmente; in seguito esse erano venute a sbalzi ed a frazioni, finché, dal giugno, nessuno aveva più sentito parlarne. E' ben vero che la tavola del portinaio si trovava in compenso, lautamente imbandita di continuo con vettovaglie sottratte alla dispensa dei Gual terio, e che Penelope riceveva quasi ogni giorno in regalo da Flora oggetti di vestiario; ma le cinquecento lire si erano oramai così impinguate cogl'interessi degl'interessi, che Penelope pro vava il desiderio impetuoso di rivederle presso di sé. — Permette una parola, signora? — ella disse a Flora, piantandosele di fronte con la bassa e tonda persona. Flora aveva fretta. Era il primo anniversario dell'incontro col Rosemberg. con cui dopo un'as senza di circa quattro mesi, doveva incontrarsi al palazzo dei Cesari, dove si erano dato appun tamento, acciocché la gioia del rivedersi non fosse turbata dalla presenza di Balbina.
Ella dunque rispose a Penelope: — Adesso lasciami andare. Ne riparleremo. So che cosa vuoi dirmi. — Lei mi sfugge come il fuoco — insistè Pe nelope. — Eppure dovrebbe pensare che aneli' io potrei, un giorno o l'altro, perdere la pazienza. Lei mi deve novecentosessanta lire! Già, novecentosessanta lire. — Penelope ripetè con energia, temendo che la signora intendesse protestare per l'enormità della cifra. Flora non ci pensava neppure, tormentata da un pensiero solo: quello di fuggire via, di cor rere verso Germano che, certamente, l'aspettava già e che anelava di rivedere, avendo la lonta nanza esaltato di nuovo le forze del suo amore. --- Lasciami andare — ella pregò. Quando ti assicuro che ne riparleremo. Penelope disse lentamente, fissando bene gli occhi grifagni sul viso impaziente della signora: — Io ho per lei molta affezione, ma si ricordi che se io andassi a parlare col cavaliere, conse gnandogli la cambiale da lei firmata, lei dovrebbe picchiarsi il petto, recitando il Confiteor — e si ritrasse verso la guardiola per cederle il passo. Ma fu la signora adesso che la trattenne con pa role supplici. Era la terza volta che Penelope minacciava di parlare al cavaliere, e un terrore sempre più cupo s'impadroniva di Flora a tale minaccia. Ella immaginava suo marito venirle incontro con faccia tumida di livore, udiva le parole sue di esecrazione, e Giorgio le appariva formidabile quale un arcangelo dell'Apocalisse, ed i suoi punti interrogativi le guizzavano davanti agli occhi, quali spade fiammeggianti in mezzo al fragore dell'eterno giudizio. Poi si presentava Anna Maria, che aveva scrupolosamente consegnate le quote e che ignorava l'imbroglio delle duecento lire prese in più; in ultimo veniva Renato, che l'a vrebbe rinnegata spietatamente, se ella avesse pensato di accusarlo di complicità.
Al paragone di tutto ciò la morte le sembrava dolce.
— No, Penelope — ella disse, con le gote di ventate smorte e gli occhi smarriti. — Tu non farai questo. Io troverò il mezzo di pagarti, anzi ti darò anche più di quanto ti devo; ma tu non farai questo. Sarei capace di commettere una pazzia.
— Di pazzie se ne commettono tante --· rispose Penelope con riso ambiguo, e promise con parole vaghe, di pazientare ancora, ripetendo peraltro, a più riprese, che se la cifra del debito saliva, la colpa non era sua.
Flora usci rassicurata, già immemore, incurante degli enormi interessi che si accumulavano, non volendo e non potendo più fare a meno di pos sedere all'insaputa altrui piccole somme che le servivano per le vetture, per i fiori, per i dolci, per la sua corrispondenza con Germano.
Oltre a ciò, Renato, il quale dopo avere presa la laurea viveva a spese della famiglia, si rivol geva continuamente a lei per danaro, prometten dole di restituire tutto, anche le trecento lire dello scorso anno, appena avesse concluso un affare importantissimo, di cui le parlava con frasi circospette.
Flora si lasciava cullare incauta dalle parole di lui.
L'estate era trascorsa per lei assai dolorosa. Germano assente e l'immagine di lui ingigantita dalla lontananza; Giorgio e Anna Maria sempre più legati fra loro e a lei sempre più ostili.
Ella ripensava con paura a certi meriggi cani colari. L'asfalto della terrazza si liquefaceva, esa lando un odore nauseabondo; le stanze, mute nell'ombra, parevano sommerse sotto il peso di una maledizione; il legno dei mobili crepitava, come per il principio di un incendio; dal cielo arroventato e implacabile cadeva fuoco, ed ella sentiva il sangue intorpidirsele vicino al cuore, che quasi cessava di battere, e sentiva le mem bra diventare grevi come di pietra. Il pensiero vagolava incerto fra un buio vuoto e senza con fine, mentre una luce guizzava rapida, a inter valli, quale di astro che si spenga. La memoria si raccoglieva stanca, passato e presente si amal gamavano in una massa informe, e Flora non riusciva a comprendere se la persona che si av vicinava, con mille cautele a punta di piedi, fosse Germano a cui avrebbe voluto tender le braccia o Giorgio che avrebbe voluto respingere.
Ma adesso il supplizio degl'incubi era finito. Piogge copiose erano sopraggiunte a dissipare i calori; l'autunno era venuto e, con esso, le mat tinate placide di una soavità quasi mistica, i po meriggi velati dolcissimamente, le notti odorose e fresche, i sonni ristoratori, l'alacrità dello spi rito e l'agilità delle membra. E su tutto questo benessere rinnovato, sopra tutta questa serenità — riacquistata, la figura di Germano dominava, cir confusa di poesia, come nei tempi lontani del loro amore giovanile.
Sali in vettura a piazza Barberini e si fece condurre al palazzo dei Cesari.
Sino a due ore prima era caduta una piogge rella leggera, a spruzzi, interrotta da brevi acquaz zoni violenti, che precipitavano a scrosci e che si calmavan poi subito, tornando l'acqua a vol teggiar nell'aria luminosa a foggia di pulviscolo iridescente. Spesse nubi diafane e candide solca vano il cielo, simili a onde che si arruffino, spu meggiando sulla glauca distesa del mare.
Nelle vie, larghe chiazze di acqua piovana brillavano come specchi.
Flora, stringendo fra le mani un grosso mazzo di rose comperate a via Sistina, si lasciava tra sportare dalla vettura. Ella sorseggiava l'aria, che le pareva saporosa ed eccitante più di un liquore, e sorrideva senza volerlo tanta era la felicità che le traboccava dal cuore. Avrebbe voluto volare e indugiarsi, essere già presso Germano e pro lungare la sua impazienza deliziosissima.
La vettura sboccò da via Bonella ed entrò nel Foro Romano.
Una città fantastica di colonne, di ruderi, di archi e capitelli natanti entro una luce leggermente violacea, apparve e disparve quasi in una visione.
Flora licenziò il vetturino e, pagata la tassa d'ingresso, cominciò a percorrere il viale ripido che conduce alle rovine.
Germano, a seconda delle istruzioni minuziose che ella gli aveva mandato per lettera, doveva aspettarla nella casetta di Livia, e precisamente, nella stanza centrale. Attraversò il labirinto intricato dei lunghi cor ridoi silenziosi e si mise per l'angusta scaletta che conduce appunto alla casa di Livia. Scen dendo i gradini, il cuore le batteva e un riso di gioia le tremava nella gola.
Sporse il capo dall'usciolo, guardò il vestibolo, chiamò spaventata Germano, paurosa di non trovarlo, e Germano apparve nel vano della stanza centrale.
— Finalmente! — ella mormorò con voce sof focata dall'emozione.
Rimasero un momento con le mani intrecciate, i petti anelanti, a guardarsi negli occhi con so spiri lunghi di beatitudine.
Mai Germano era sembrato a lei così bello; mai Flora era sembrata a lui così vezzosa.
Quei mesi di assenza avevano deterso di ogni polvere il loro amore, che rifulgeva adesso sopra di essi, raggiante e immacolato a guisa di astro.
Il suono gutturale di voci parlanti una lingua esotica li scosse dall'estasi, ed essi risalirono la scaletta, inebbriati da una felicità che stentavano a contenere.
Cominciarono a percorrere i corridoi stretti e interminabili, dove i loro passi risuonavano e la eco delle loro parole si ripercuoteva lungamente.
La figura grottesca di una statua deturpata li attrasse e li fece ridere.
La figura, drappeggiata in una toga, di cui le pieghe erano corrose, spingeva in avanti i mon cherini delle braccia mutilate. La faccia piccola, mancante del naso, aveva assunto una espressione assai curiosa di canzonatura melanconica. Una coorte di formiche brulicava intorno al cavo di un'occhiaia, e pareva che la figura ammiccasse come per lasciar capire di averne vedute di ogni colore. - Guarda — esclamò Flora giocondamente — non ti pare che questo uomo di pietra voglia ridersi di noi?
— Ebbene, facciamolo ridere per qualche cosa — disse Germano, e, rapido, la baciò dietro un'orecchia.
Flora protestò con comica indignazione. — Come? Baciarmi al cospetto di un antico romano? Tu manchi di rispetto a Muzio Scevola!.. — Perchè proprio a Muzio Scevola? — domandò il Rosemberg. Flora non sapeva nemmeno lei in che modo c'entrasse Muzio Scevola; ma, insomma, quell'antico romano di pietra era mancante di tutte due le mani e poteva anche essere un parente di Muzio Scevola. — Comunque — disse il Rosemberg — gli antichi romani non avevano scrupoli e andavano più per le spicce di noi, in certe faccende. A lui sarebbe piaciuto molto di essere un imperatore di quei tempi. Senza noie, senza leggi, coperti di pietre preziose, con palazzi vasti come città, turbe di schiavi, banchetti che duravano intiere notti, lingue di pappagallo, anguille ingrassate nel vino, piogge di rose, feste, giuochi, pre potenze di ogni risma, doveva essere una vita da non morir mai! Flora avrebbe preferito di essere una vestale. L'idea di un tempio dove un fuoco sacro dovesse ardere, perenne, la commoveva; se non che Germano, stringendole il braccio, le fece osservare maliziosamente che, se ella fosse stata una vestale, avrebbero dovuto seppellirla viva da lungo tempo. Ella, confusa, gli dette un piccolo schiaffo con la punta delle dita guantate.
Si trovarono, senza saper conte, in una specie eli terrazza scoperta e, secondando il muro tap pezzato di edera, scopersero un rifugio miste rioso, una specie di cappella nascosta da un folto intrico di rami spioventi. Nel centro giaceva un capitello di colonna che servi loro di sedile.
Flora pensava di essere in paradiso. I rami penduli si dondolavano e il sole, rifran gendosi entro le stille della pioggia recente, li fa ceva somigliare a monili di brillanti. Un uccellino svolazzava, adagio, rasentando il suolo, e la insta bile vivacità dei suoi movimenti smerlettava il muro, aureo nella luce, di sottili disegni scuri. Flora abbandonò il capo sopra la spalla di Ger mano, ed egli le posò la gota sulla gota. Per la prima volta il sogno e la realtà si fon devano in lei armonicamente, ed ella non avrebbe chiesto al destino che di prolungare per. l'eternità la sovrana poesia di quell'istante; ma il suono gutturale delle voci esotiche li cacciò via anche di lì, e Flora si ricordò che c'era ancora una fon tana da vedere; una fontana nel fondo di un antro, dinanzi a cui stava un portico con due nicchie, ed al portico si accedeva dal giardino per una doppia rampa di scale nascoste tra il verde. Riconobbero ben presto il rumore dell'acqua e trovarono infatti la scala, assai disagiata e dai logori gradini oscillanti. L'acqua della fonte scrosciava nell'antro; il portico, solenne di vetustà, stava immerso nell'om bra, ma il lembo estremo del pavimento marmoreo era frangiato dal sole, che, bagnando un prato vasto e deserto, saliva a lambire delicatamente la pietra corrosa.
Flora chiese a un tratto, senza ragione: — Come sta Balbina? — e si meravigliò su bito della domanda tanto il suo pensiero era estraneo a Balbina in quel momento. — Ora sta meglio; ma in principio ha sof ferto molto — rispose Germano, sospingendo un pochino Flora per impedire che gli spruzzi della fonte giungessero fino a lei. Ella alzò il capo in atto interrogativo. — Ha sofferto molto? E perchè? --- Del resto non bisogna lamentarsi — pro seguì Germano. — Balbina sta anche troppo bene, relativamente allo stato in cui si trova. Flora rimase immobile, col viso atteggiato a stupidità. Evidentemente l'idea della nuova maternità di Bal bina stentava a farsi strada nel suo cervello: ma l'idea giunse, alla fine, a illuminarle il pensiero, e fu uno schianto immediato di tutto il suo amore. Ebbe un grido rauco di spasimo. Era fi nita! Era finita per sempre! — Credevo che Balbina stessa te lo avesse scritto — egli continuò placidamente. - Spe riamo almeno, se sarà un maschio, che non mi muoia come quello di cinque anni fa. Flora non trovava parole per esprimere il suo disgusto; ma sul volto corrucciato la collera on deggiava simile a fosca nube trasportata dal vento, sopra un cielo solcato da lampi. Egli, accortosi di quell'ira, se la prese in ri dere, bonariamente. Anche a lui seccava l'avventura; ma i bam bini spuntano talvolta, come i funghi, quando meno si desiderano e meno si aspettano. Fece il gesto di accarezzarle il volto; Flora si scostò con impeto e si calò sul viso scomposto la veletta che teneva rialzata.
Il Rosemberg tentò di placarla, volgendo la cosa in ischerzo, mentre ella restava immota, nel centro del portico, cogli occhi sbarrati e le labbra sdegnosamente contratte.
Germano, desolato in modo sincero per la col lera di lei, volle dare alla propria fisonomia una espressione di pentimento e di rammarico; ma il ridicolo della situazione fu più forte di ogni suo proposito, ed egli ruppe, irresistibilmente, in uno scoppio di riso interminabile.
Flora si era dirizzata lentamente, sotto la sferza di quella ilarità, e rigida, muta, in nna compostezza di statua, si avviò per la rampa della scala, senza muover le labbra, nè batter ciglio.
Il Rosemberg la seguiva con docilità, ridendo ancora un poco, ma sforzandosi di mostrarsi an che lui desolato, per rialzare il morale della sua povera Flora.
Sarebbe stato per lui così facile, così piacevole vivere tutti assieme di amore e d'accordo! Baibina da una parte a circondarlo di cure e Flora dall'altra a colmarlo di moine!
Si avvicinò e le disse umile: — Andiamo, Flora, non tenermi più il bron cio! Sii ragionevole. Balbina è mia moglie, dopo tutto! Flora, coll'occhio fisso davanti a sè, cammi nava in fretta, pallida e irrevocabile. Pareva che le preghiere di lui non le giungessero all'orec chio, tale era la sua completa impassibilità. E da quel giorno fu cosi, ogniqualvolta egli tentò di riannodare con lei le antiche relazioni.
L'amicizia fra le due famiglie seguitava non pertanto sempre più intima.
I Rosemberg si recavano assai di frequente a trascorrere la serata in casa Gualterio.
Balbina portava il suo lavoro di ricamo, non potendo assolutamente restare in ozio; Reginetta, assai tranquilla, somigliante al padre nei linea menti, ma in tutto somigliante alla madre nel carattere, intagliava silenziosa delle figure, o sfo gliava l'album delle cartoline illustrate; il cava liere iniziava con Germano una interminabile partita a dama, che si prolungava, senza inci denti, per l'intiera serata.
Rimanevano cosi ore ed ore nel salotto da pranzo, seduti in giro presso la tavola centrale, coperta di un tappeto turco, mentre la luce scen deva blanda dalla lampada a sospensione, velata da un paralume di merletto.
Renato, col soprabito sul braccio e il cappello in mano, con la barbetta a punta olezzante e lu cida, i capelli divisi sulla tempia, un sorriso di cortesia sulle labbra, veniva a salutar quei signori prima di uscire.
Offriva a ciascuno una parola amabile ed un saluto, poi, abbozzato presso l'uscio un ultimo, pic colo inchino cumulativo, se ne andava, facendo scric chiolar sul tappeto le scarpe di coppale.
II cavaliere sospirava e, dopo una lunga pausa, ripeteva invariabilmente:
— Mio figlio dice di avere molti affari; ma, quando piove, ci si bagna non è vero? e mio figlio invece è sempre all'asciutto.
I coniugi Rosemberg osservavano che gli affari, specie quelli d'ingegneria, sono lenti a ma turarsi; ma, una volta maturati, possono anche produrre milioni.
Il cavaliere crollava il capo, dicendo: — n. vero o non è vero che il buon giorno si giudica dal mattino? Ebbene, io all'età di Renato, avevo un impiego e qualche piccola economia. Balbina obiettava che l'eccezione non fa regola e che il cavaliere era una eccezione. Il cavaliere sospirava di nuovo e tutto tornava nel beato silenzio, interrotto da frasi insignificanti e brevi. Alle dieci Anna Maria si presentava col rin fresco, che costituiva ogni sera una nuova sor presa per la varietà dell'invenzione. Balbina gustava di tutto, lodava tutto, chiedeva spiegazioni minutissime e pregava Flora di tra scriverle questa o quella istruzione gastronomica dal ricettario di Anna Maria. Alle dieci e mezzo gli ospiti si alzavano per licenziarsi; avveniva sul pianerottolo uno scambio di saluti a voce sommessa per non disturbare i vicini, e poi il cavaliere chiudeva la porta di casa, assicurandosi ripetutamente di averla chiusa bene; e felicissima notte. Germano, nel passare dal salotto da pranzo al l'anticamera, aveva osato più volte di afferrare furtivo la mano di Flora per ottenere da lei una leggera pressione e la fissava in volto con occhi ar denti e interrogatori; ma la mano di lei non rispon deva alla stretta e, il viso pallidissimo rimaneva im penetrabile come quello di una sfinge. Anch'ella trascorreva le serate seduta presso il tavolo, intenta apparentemente al suo lavoro di uncinetto; ma ogni ora impiegava per lei un secolo a passare e spesso fissava sgomenta il quadrante del grande orologio a pendolo, paurosa che le sfere si fossero arrestate per virtù di malvagio incantamento. Da quanto tempo si trovavano lì? Giorgio e Germano non compievano, forse, i mi steri di un rito occulto, movendo i piccoli dadi segnati in bianco su fondo nero?
E Balbina, così deforme, non era forse il suo cattivo genio che le si era collocato accanto per l'eternità? La chioma di lei fiammeggiava simile alla coda di una cometa, e Flora pensava di es sere stata condannata per castigo a restare vicino a quel tavolo, in mezzo a quella gente strana e implacabile.
Già da mesi ella aveva di simili allucinazioni. Talvolta smarriva l'idea del tempo, non ricordan dosi più se si fosse nella mattina o nel pome riggio. La tonalità della luce le appariva insolita, gli oggetti famigliar! assumevano inconsueta tìsonomia ed ella s'interroriva per questa indecisione dell'ora, si stringeva forte le tempie e riusciva, finalmente a rientrare nella realtà. Talvolta,- per la via, attraversando luoghi notissimi, non giun geva ad orientarsi e doveva porre mente alla vetrina di un negozio o alla insegna di una ditta per decidere in quale punto della strada si tro vasse e da quale parte dovesse volgere.
Una mattina, in via Veneto, si fermò come impietrita e si mise a tremare.
Vecfendo il palazzo Margherita immerso nel sole e una donna nerboruta attraversare il mar ciapiede solitario con una cesta di erbaggi sulla testa, subì l'impressione di aver ciò veduto un'altr volta, nell'epoca remotissima di una vita anterior da lei vissuta non sapeva dove, non sapeva quando; ma la linea del palazzo, la trasparenza della luce, lo sguardo accigliato della donna, l'odore stesso delle erbe le rievocavano i partico lari di un altro minuto identico, emergente iso lato da una intiera vita scomparsa.
Diceva spesso in famiglia di sentirsi male, ac cusava dolori vaghi e malesseri inesplicabili; ma tutti si stringevano nelle spalle, dicendo che chi sta male non mangia e non va a passeggio.
Si era a mezzo il dicembre e i Gualterio fa cevano colezione, quando una mattina Flora di venne livida, udendo suonare con violenza il cam panello della porta d'ingresso. Anna Maria si recò ad aprire e, dopo un breve dialogo scambiato ra pidamente a bassa voce con la visitatrice, tornò in salotto da pranzo per servire le frutta.
— Chi è? — domandò il cavaliere. — È Penelope che ha portato la posta. — Vorrei sapere — disse Giorgio, estraend > una mandorla dal guscio — con quale diritto Pe nelope si permette di suonare con simile autorità — e, non potendo perdere tempo, giacché all'avvi cinarsi del nuovo anno il lavoro di ufficio aumen tava, si stuzzicò in fretta i denti, infilò il sopra bito, aiutato da Anna Maria, e si avviò per uscire; ma, veduta Penelope, la quale aspettava seduta nell'anticamera, tornò indietro per domandare che cosa quella donna volesse. — Vuole me — disse Flora; — le ho pro messo di regalarle una mia veste usata, e mi aspetta per averla. - Anzitutto mi pare che tu potresti disporre meglio della tua roba di scartoj; poi un oggetto che si dona non è un debito che si paga, e non
è lecito presentarsi ad'esigerlo in ore indebite ina bisognerà oramai imparare a non meravigliarsi di niente in questa casa Dopo di che uscì di pessimo umore e nell'anticamera finse non udire il saluto rispettoso di Penelope.
Flora si volse a Renato, giungendo le mani. — Dio! Dio I Come fare adesso? Penelope viene per ritirare le duecento lire che le ho promesso per questa mattina, e io non le ho più. Ho fatto male a dartele. Renato convenne placidamente che, forse, la ma trigna avrebbe fatto meglio a rifiutargliele. — Rendimele allora — ella supplicò. — Volentieri se non ne avessi già disposto; ma, vedi, quel danaro mi era tanto necessario che l'ho' preso alle undici e alle dodici non l'avevo già più. — Tu mi hai promesso sulla tua parola di re stituirmele per la vigilia di Natale. — Certo, io te l'ho promesso, e spero, anzi sono sicurissimo di poterlo fare; a meno, natural mente, che gli altri non manchino di parola con me, perchè, in tal Caso, io non potrei assumere la responsabilità dell'altrui malafede. Parlavano piano, interessati entrambi a non farsi udire da Anna Maria; Flora perchè voleva che ella ignorasse i suoi pasticci; Renato perchè de siderava che ella non sapesse niente de' suoi scia lacqui. Penelope, seccata di aspettare, apparve nel vano della porta, e il giovane Gualterio si affrettò ad allontanarsi per non aver l'aria di curiosare nei fatti che non lo riguardavano. Flora avrebbe voluto trovarsi nelle viscere della terra. Ella, sospinta dalla necessità di quietare Pene lope con un acconto ragguardevole, aveva supe rata la propria ripugnanza, dolorosa fino allo spa simo, e si era indirizzata a sua madre, la quale, trattandosi della prima volta che Flora le do mandava qualche cosa, le aveva dato duecento lire, a patto espresso che la restituzione sarebbe avvenuta sollecita, perchè il colonnello non am metteva celie in fatto di danaro.
Flora, incontrato il figliastro in istrada, aveva commesso la imprudenza di parlargli della somma ottenuta in prestito da sua madre, e Renato le aveva carpito il danaro con abilità di prestigia tore, dandole sacrosanta parola di renderle tutto il giorno della vigilia di Natale. Aveva precisato anche l'ora: egli le avrebbe dato infallantemente mille lire alle due del pomeriggio.
Penelope comprese al primo colpo d'occhio che la signora si divertiva ancora a portarla a spasso, e non le concesse nemmeno il tempo di mendi care una scusa.
Parlò sicura e breve, còn accento di fermezza incrollabile. La cambiale aveva raggiunta la cifra di novecentosessanta lire, nè la signora poteva lamentarsi di essere stata derubata.
La signora, quattordici mesi prima, aveva avuto cinquecento lire in contanti, più, in un anno, aveva avuto altre duecentoquaranta lire, perchè era sacrosantamente giusto che le quote mensili non pagate andassero in aumento del capitale; più la signora doveva ricordarsi bene di avere promesso a Penelope una regalia per i suoi di sturbi, e Penelope, con molta discrezione, faceva ammontare la regalia a lire centocinquanta, le quali centocinquanta lire, essendo state donate l'anno avanti, dovevano rendere il loro interesse, come di giusto.
Dunque rimaneva evidente che la signora non poteva negare di avere avuto in 'prestito da Pe nelope ottocentonovanta lire, e se la signora avesse detto di averne ricevute soltanto cinquecento, Pe nelope avrebbe sostenuto il contrario al cospetto della intiera corte celeste.
Flora rispose con docilità che ella era pronta a dichiarare di avere ricevuta veramente la somma indicata da Penelope, la quale disse con molta gravità e profonda convinzione che le altre set tanta lire stavano a rappresentare un interesse di favore.
— Sì, si, è verissimo quanto tu dici — annuì Flora, che per ottenere un respiro di otto giorni avrebbe, dichiarato, senza esitare, di aver ricevuto un milione. — Ma tu devi aspettare fino alla vi gilia di Natale alle due.
— Va bene, per farle piacere aspetterò fino alla vigilia di Natale alle due, non un minuto più, non un minuto meno; ma, in questi otto giorni, io voglio in pegno il libro dove stanno i francobolli del cavaliere.
Flora, al colmo del terrore, rifiutò con accani mento, se non che Penelope fu irremovibile al pari di un macigno.
Ella si era informata ed era venuta a cogni zione che il cavaliere possedeva infatti una rac colta di francobolli di molto valore.
Ciò doveva servirle nel caso poco probabile, che il cavaliere avesse avuto la velleità di non far onore alla firma della moglie.
Rimase dunque implacabile nel suo dilemma: o tenere, per otto giorni, il libro coi francobolli o consegnare la sera stessa la cambiale nelle man; del cavaliere.
Flora, in un accesso di follia, consegnò Valbum a Penelope, che si dileguò subito come un'ombra.
La vigilia di Natale giunse, una bellissima giornata cristallina e fredda; il tocco e mezzo scoccò nell'orologio del salotto da pranzo, senza che il giovane Gualterio si facesse vivo. Egli aveva anticipato 1' ora della colezione ed era uscito, mentre Flora si trovava fuori di casa con Giorgio per le provviste necessarie al banchetto della sera.
La coppia Frezzati e la famiglia Rosemberg avrebbero passato la vigilia in casa Gualtefio e il cavaliere voleva far le cose da pari suo. Egli andava e veniva dal salotto da pranzo, dove sopra la massiccia dispensa in noce si accatastavano pacchi e pacchetti, alla cucina dove Anna Maria sbuzzava un pesce enorme, ancora quasi vivo. Un'anguilla, grossa come un serpente, guizzava dentro un'ampia conca di rame e due sedani gi ganteschi verdeggiavano sopra la credenza.
Flora, disperata, vedendo che mancavano po chi minuti alle due, infilò la giacca, si mise il cappello e scappò di casa, col pretesto di andare a prendere Balbina. Sul pianerottolo del secondo piano incontrò Penelope, che saliva con l'album dei francobolli sotto il braccio.
Si guardarono senza dir motto. Flora sentiva che il suo destino doveva compiersi e sentiva anche ch'ella sarebbe stata nell'impossibilità di tenergli fronte.
Mentre usciva dal portone un orologio suonò le due, ed ella affrettò il passo per paura che la casa le crollasse sul capo. La tramontana soffiava tagliente, spazzando le strade e rendendo tersissima l'aria. La gente pas sava affaccendata; gli uomini, col bavero del soprabito rialzato a difender le orecchie; le donne strette nei mantelli o nelle pellicce. Tutti erano allegri, tutti si scambiavano auguri giocondamente; grandi panieri carichi di vettovaglie venivano tra sportati a destinazione da carrozzoni, aventi sui fianchi dipinti a vivaci colori il nome e l'indi rizzo della ditta fornitrice.
Flora vagabondava senza scopo, senza pensare a difendersi dagli urtoni dei passanti frettolosi, che uscivano dai negozi o vi entravano, con le mani sprofondate nelle tasche dei soprabiti. Molti si volgevano a guardarla, tanto ella era leggiadra con l'esile persona chiusa nell'ampia giacca a ri svolti di astrakan, coi gomiti stretti alla vita, le mani immerse nel manicotto, e le gote di un rosa acceso per le sferzate della tramontana.
In via Nazionale un cherubino di bimba pian geva disperatamente, tirata per mano da una ro tonda governante in cuffia.
La bimba stringeva sul petto con desolazione una bambola vestita da ciociara; la bambola aveva il cranio spaccato in due e la bimba, colpevole dell'eccidio, alzava al cielo le alte strida, che si facevano più acute alle rimostranze rivoltele in tedesco dall'indignata fraulein.
Quella tragedia puerile interessò Flora viva mente, ed ella seguì con occhio pietoso la bimba, finché questa disparve entro un portone signorile, facendo echeggiare l'aria di pianti sempre più ap passionati.
Flora sospirò a lungo e, fermatasi davanti a una vetrina di ninnoli, tentò figurarsi la scena che, a quell'ora, doveva essere accaduta a casa sua; ma il volto di Giorgio le apparve così terribile nell'ira, che ella si rimise a camminare per Sfug gire all'ossessione di simile spettacolo terrificante. A quale partito appigliarsi? Il pensiero di tor nare a casa la sconvolgeva di paura. Pensò di recarsi, come aveva eletto, a prendere Balbina. Forse, in presenza di estranei, suo marito si sa rebbe contenuto ed ella, per il momento, non aspi rava ad altro che ad allontanare lo scoppio della catastrofe.
Si diresse a via Torino, dove i Rosemberg' avevano dimora, e spinse con mano tremante il bottone del campanello.
Se i Rosemberg fossero già usciti, il fatto avrebbe assunto per essa le proporzioni di un disastro; ma Germano, col cappello in testa, le venne ad aprire.
— Balbina è in casa? — ella domandò. — Certamente, favorisca — Germano rispose;, ed appena ella ebbe varcata la soglia, chiuse la porta, togliendosi il cappello, che depose sopra una seggiola. — Si accomodi in salotto — egli disse, intro ducendola in una stanza disadorna e abbando nata, perchè i Rosemberg non avevano relazioni e non ricevevano nessuno. — Ho pensato di venire io stessa a prendere Balbina — spiegò Flora, rimanendo in piedi e stringendosi nella giacca per il gelo di quella stanza tetra, dove il sole non batteva mai. — Lei è stata molto gentile; ma il pranzo è per le sette ed abbiamo ancora del tempo da vanti a noi.
— Balbina ha detto che preferisce di venire presto. Comunque, posso aspettare. Mi faccia il piacere di chiamarla.
Nel gelo della Stanza un soffio ardente circo lava. Era l'alito di Germano. Egli le si era av vicinato in modo da sfiorarle le vesti e respirava con anelito affrettato e breve.
Flora indietreggiò e rioetette: — Faccia il piacere di chiamare Balbina. — Balbina non c'è — egli disse — è uscita da mezz'ora con Reginetta per la spedizione di un pacco e, non volendo fare troppe scale, si re cherà direttamente a casa sua. Noi siamo soli. Flora, senza degnarlo di una parola, si avviò per uscire; ma Germano l'afferrò per la vita e divenne supplice. — Il modo con cui mi tratti è inesplicabile. Io ti amo e tu mi fuggi. Perchè, Flora, perchè? — Lasciami --- ella gridò esasperata — Ti conosco adesso. Non è amore il tuo! — Non dir questo, Flora — egli balbettava smarrito. — Io ti amo e anche tu mi ami. Ti rivedo sempre, tutta bianca nelle mie braccia. Flora! Flora! — e l'orgasmo era in lui cosi vio lento che le parole gli morivano in un gorgoglio inintelligibile. Anche Flora aveva adesso il respiro affannoso per l'energia disparata della difesa. — Sì, è vero, ti ho amato con tutta l'anima — ella diceva, a scatti, con frasi interrotte. — Ma adesso ti giudico. Sei vile, sei egoista, sei fiacco e brutale. Hai ingannato me per Balbina, poi hai ingannato Balbina per me. Non cerchi che il tuo piacere, non ami che il tuo capriccio. Sei vile! Sei vile — e gli puntellava sul petto i piccoli pugni ed inarcava il busto per sottrarsi alla stretta di lui, che non l'ascoltava nemmeno, reso cieco e sordo da un ritorno violento di pas sione tutta sensuale.
Non parlavano più. Si udiva l'ansare irregolare dei respiri nella lotta. Egli, nerboruto, l'afferrava con violenza; ella, minuta e fragile, si divincolava con agilità. Germano pervenne a imprigionarle i polsi in una delle sue mani e, nonostante gli sforzi inau diti di lei, la tenne salda, la strinse con l'altra mano alla nuca, avanzando il viso per baciarla.
Si trovavano presso la finestra, e Flora nel fissare con occhi di terrore il volto di Germano, credette vedere quello di una nemesi. I capelli neri gli cadevano scomposti sulla fronte, le tem pie erano turgide, le pupille vermiglie, le labbra tumide mormoravano parole incoerenti di pre ghiera e minaccia, e su tutta la fisonomia di lui stava diffusa una espressione di stupidita feroce, che la nauseò, spaventandola.
E quello era Germano? E quello era l'amore? Cacciò un urlo; il Rosemberg, richiamato in sè dalla paura di uno scandalo, lasciò la presa, ed ella fuggi, aprì a tentoni la porta, si precipitò per le scale e non si arrestò che sulla strada, a riprender fiato. Giorgio, Penelope, le mille lire, i francobolli, tutto era travolto. Ella provava uno spasimo unico, ma insosteni bile. Vedeva fango da ogni parte e il coraggio di vivere le veniva meno. Il fango saliva intorno a lei denso e fetido, la circondava, la soffocava ed ella aveva fretta di sommergervisi interamente per non vedere e non udire più nulla. Prese la via di casa e suonò con energia alla porta del suo appartamento.
Potevano anche ucciderla, perchè, a ogni modo, tutto le riusciva indifferente oramai.
Così ella credeva; ma, quando entrò nel sa lotto da pranzo dove i convitati stavano già rac colti, compreso Germano, il quale l'aveva prece duta, sentì che la coppa conteneva ancora aceto e fiele, e comprese di dover assaporare, a stilla a stilla, l'amaritudine dell'immondo beveraggio.