Ricordi delle Alpi/Parte Prima/III
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III.
Brogio.
— Signore, la mi dia un centesimo per amore di Dio.
Era una ragazzina tra i dieci anni, che con flebile voce mi scuoteva da quelle raelanconiche fantasticaggini, passatemi nella mente alla vista de’ fiori silvestri.
— To’, due soldi; e’ fan dieci centesimi: sei contenta?
La fanciulla mi guardò con aria d’inesprimibil contento; poi, strette le dita della mano sinistra, le baciò e le aperse mandandomi questo segno d’affetto per la migliore riconoscenza, ch’ella potesse significarmi.
— Or, grazie a te: vuoi dirmi il tuo nome, cara bambina? le dissi intenerito.
— Maria.
— E che ne fai, Maria, del denaro?
— Lo porto a mia madre, ch’è malata di dolori.
— Allora, prendi ancora questi pochi; le varranno pel brodo.
Mariuccia spalancò gli occhi come avesse visto un tesoro in quelle poche monete di rame, e con prontezza tutta piena di riconoscenza mi prese la destra e me la baciò replicatamente. Indi, levatasi una rosa selvatica, che teneva tra lo scollo del vestitino, me la porse con un sorriso tutto spontaneità e amore: e lì di colta, simile a gazzella, velocemente fuggiva verso il paesello.
Donde trovare frutto più innocente di gratitudine? Chi paga la rosa spampanata, che mi donò l’innocenza?
M’innoltrai facendo la via: ma la voglia di riprendere la lettura delle poesie di Giacomo Leopardi era smessa: troppe idee in quel momento mi passavano in mente, e mi piaceva di seguitarle, si come facciamo talora inconsci con una dorata farfalla.
Fatto buon pezzo di strada, mi assisi sopra uno scoglio contemplando il riottoso volgere delle acque del Màllero: il loro fragore, que’ fiotti crestati di bianco argentino e il canto d’una villanella poco discosta mi portarono a un raccoglimento, che mi colmò d’insolita quiete, sì che non tardai a scordare me stesso e le impressioni dei circostanti oggetti. Mi tolse di quella distrazione il giungere d’un vecchio campagnuolo, che, tirandosi dietro un asino carico di legna, andava tra sè farneticando: se non che, allora che mi fu quasi di costa, rivoltosi con gaia ciera:
— Buon dì, mi disse, signore!
— Buon dì, bravo uomo; — e tosto ad alzarmi e a seguitarlo.
— La sente, proseguì, la buon’aria, che spira nella valle!
— Eccellente a metter l'appetito anco negli stomachi più dormigliosi.
— Loro signori ne hanno bisogno,.... ma noi....
— Per fortuna non ne ho di questi bisogni; ma voi avete ragione di tenervi caro la salute, e massime a’ vostri anni. Amico, quante pasque contate oggi?
— Settantacinque, sor mio; e n’ho già passate di grosse!
— Ognuno ha le sue croci, statene certo.
— Ma le più brutte toccano ai poveri; i ricchi son sempre al sicuro.
— Non sempre, buon uomo, non sempre!
— Sarà; ma intanto chi soffre sono i calzoni di traliccio.
— Ci vuol pace, e vi ripeto ch’ognuno ha le sue.
— Come la mia, però, nessuno la porta grossa la croce, ripetè commosso il buon vecchio: e davvero è pesante!
— E che vi è mai toccato di sì cruccioso, gli dissi amorevolmente stringendomegli più presso, che non ve ne possiate dimenticare?
S'asciugò una lagrima col dorso della mano, e rispose:
— Eh! la tirerei troppo in lungo, se volessi sciorinare le mie miserie; le metterei noia, io....
— Parlate, parlate pure, amico; mi servirà di sollievo.
Il vecchio, dondolando alquanto il capo, si premette per dubbio le labbra biascicando lentamente: — Uhm, le dico, ch’è un po’ lunga la storia,... e che....
— Via, nonno, ve ne prego sul serio; mi fate un regalo.
— Quand’è così, eccomi, gliela dirò pure alla buona.
Mi posi in attesa, ed egli incominciò così:
— Dal matrimonio con la mia Ghita, passata in Dio l'anno scorso, me n’erano venuti tre maschi e tre femmine, un vero tesoro di fîgliuolanza.
Il mio Zino, a vent’anni, era proprio il ritratto del S. Sebastiano della nostra parrocchia; nessuna tosa della nostra valle avrebbe potuto restarne indifferente, tanto più ch’era valentissimo fra tutti nel cantare canzoni e arie di teatro, di quelle che ci arrivano da Milano, e che fan la delizia di queste vispe fanciulle.
A vederlo le domeniche col suo bravo colletto di bucato arrovesciato sopra una corvatta scarlattina, e il cappello cinerino a punta guernito d’innanzi d’un bel mazzetto di fiori, glielo dico io, le ragazze facevano tanto d’occhi; e facevano a gara per mettersi in vista all’uscire di messa, e sognare un canto la sera! Pazienza! l’è stata davvero dolorosa; chi me lo avrebbe detto?
L’onesto vecchio, asciugatosi due grosse lagrime col dorso della mano, seguitava: — Dal battesimo io mi chiamo Ambrogio, ma nella valle, per fretta, mi dicono Brogio; e Zino, mio primogenito, ebbe pure tal nome, dal signor Rienzo, ricca ed eccellente persona dei paese, che sa il latino più d’un prete e mille altre cose, cangiato in Zino, perchè — e’ ci disse — così suona meglio ed è accostumato in Toscana, dov’egli ha vissuto buon numero d’anni. Non faccio per dire, ma Zino mi rassomigliava tanto; bisogna sentirlo dalle stesse genti del paese.
Gli altri due tenevano più della madre; obbedienti e affettuosi, ch’era una fortuna; non c’era pericolo, che ci dessero un pensiero al mondo!
Anche le figlie venivano su con la benedizione di Dio; sotto il nostro tetto si viveva in santa pace. Devo confessare che, se l’affetto mio e della Ghita era uguale per tutti i nostri figli, forse ci sentivamo un po' più teneri per Zino: mia moglie spiegava la cosa dicendo, che ciò proveniva dalla sua rassomiglianza con me; e sarà una debolezza, ma io a queste parole mi sentivo montar in capo i fumi della vanità, e davo una buona stretta di mano e un abbracciamento alla mia donna.
Ma questa predilezione sembrava così naturale, che non ci fu mai nessun mal umore tra loro, nè potevo provarne alcun rimorso, perchè in fondo in fondo li amavo tutti dello stesso affetto.
Correva il 1845, e s’era alla prima domenica di luglio, giorno che nel paese di Torre si festeggia la consecrazione della Chiesa parrocchiale.
Sin dal mattino, chiesta prima licenza a me e a sua madre, vi si avviò tutt’allegro in compagnia di Cecco, suo secondo fratello; il minore e le sorelle si trattennero con noi in Arquino, quel paesucolo che vedete lassù, dove noi tutti siam nati.
Avevamo a nostra volta divisato di recarci tutti insieme a passar il dopo pranzo in Torre per ritornare poscia unitamente sul tardi.
Allora, come sapete, gli austriaci ci tenevano le zanne sul collo; e, a dirvi il vero, se c’era cosa che mi dèsse uggia o mi gravasse lo stomaco, era la vista di que’ musi stranieri. Io non so di lettere, io, e tanto meno mi capisco di ciò che tutti domandano la politica; ma questa merce che non era di casa, non ce la seppi vedere mai in Lombardia: e i miei figli meno di me, nè credo ci fosse e ci sia fior d’onest’uomo, che possa augurarcela. Oltre a ciò, quel mandare il nostro sangue in terre lontane a servire un esoso padrone e a far da birri a’ nostri fratelli, non mi pareva, nè certo è, roba di cristiani; fatto è, che di spesso se ne ragionava in famiglia, e che nessuno o ben pochi potevano reggere la vista di que’ signori.
Ma avvenne in quel giorno, che per causa di ordine, come dicono que’ del comando, vennero a Torre tre della polizia, guardie o gente d’armi, i quali dopo che ebbero cioncato oltre misura, si diedero a fare il gradasso, a pedinare con insolenza le nostre villanelle, e a buttar fuori di quelle insolenze, che non sono buone per nessuno e massime per le donne.
Avete a sapere che Zino amoreggiava una onesta fanciulla, la Ninetta, che gli voleva un bene dell’anima; costei toccava appena i diciott’anni, e l’era fresca e gentile come un bottone di rosa.
La Ninetta giunse a Torre con la madre, per intesa scambiatasi il giorno prima con Zino. Udite: terminate le funzioni, si cominciò a intessere un po’ di ballo; e siccome lassù le giovinotte, specie se abbiano il damo alla festa, non amano altro che di stancare le gambe e scambiare le giravolte con esso, vi potete immaginare l’allegrezza di Zino, e la festa che si fecero tutt’e due.
In questa, mentre il ballo era più vivo, i tre della polizia, scorgendo di non poter pigliar parte in quella franca allegria, invisi per gl’indegni modi e l’estrania assisa, dimenticando aver già troppo stuzzicato gli umori dei giovani con quel far di gradasso, si diedero a sputar motti e sagrati e a gittar olio sul fuoco; e perchè Zino pareva — e certo era — dei capi nel respingerli ed avversarli, a lui specialmente si volsero e lo ferirono nel più vivo dei cuore, volgendo alla Ninetta indegne ed oltraggianti parole.
Ne avvenne una rissa, rissa funesta, che fu poi l’origine di tutte le mie disgrazie e degli affanni patiti sino a questo giorno dalla mia povera famiglia.
Zino, percosso e ferito da una guardia nel braccio, con quella sveltezza che aveva, riuscì a strapparle di mano la sciabola, servendosene di giusta difesa; in un attimo, sopraffatto l’avversario, l’ebbe gravemente offeso e stramazzato a terra.
Il secondo dei birri, schiaffeggiato e percosso sonoramente dai nostri, fa messo, quasi morto, in mano del chirurgo e del prete, che gli poterono giovar poco, lasciando alle sue opere di procacciargli buon viso da messer Iddio nell’altro mondo. Che volete? — Costui alla mezzanotte di quel giorno fatale era spirato.
Più felice il terzo, con pochi lividi e bruciori riuscì a svignarsela.
Immaginate il terrore che svegliò nella valle l’affare malaugurato! noi tutti ce ne tornammo la sera in Arquino pieni di tristi presentimenti e proprio immersi in una vera costernazione.
Intanto, sbollite le prime ire, la ragione ci faceva veder meglio le cose; e, a dire il vero, la voce pubblica, che dipinge e ingrossa i fatti secondo le passioni e gli interessi, segnava con insistenza e con pretesa certezza il mio Zino come il peggior istigatore della rissa.
E siccome la polizia o la giustizia, come la dicono, in queste cose allunga subito le zanne, potete capire che il miglior consiglio per Zino fu di lasciare il tetto paterno e farsi uccello di bosco.
Oh, se sapeste le angoscie della mia povera moglie in que’ giorni; anche adesso me ne piange il cuore al solo pensarci; — la casa pareva un purgatorio; non si faceva che gemere, piangere e pregare: e la mia Ghita aveva il suo da fare per trattenere Cecco, il secondogenito, risoluto di correr incontro alla sorte del fratello per attenuargli la sventura.
La giustizia, giustizia dell’Austria! non si fece aspettare: dopo gli arresti, le condanne, che per fortuna vennero tardi ai più rei, i quali si erano a tempo fuggiti in Engaddina. Di circostanze attenuanti, neppure un ette; di vessazioni alle famiglie de’ condannati, una litania infinita: a Cecco fu buona ventura l’uscirne con soli sei mesi di prigione. Ma intanto Zino fu condannato a dieci anni di carcere duro, sì che credemmo perdere la speranza di poterlo più abbracciare.
Sor Rienzo in così grande sventura ci aveva sempre giovato di caritatevoli aiuti e di buone consolazioni; e talvolta così mi ragionava: — Compare! rassegnatevi al volere di Dio. Un proverbio toscano dice: Benvenuta se sei sola; che vuol significare, poterci noi tenere per fortunati, se ci venga a visitare una sola disgrazia. Siate forte e sperate; questi tempi si muteranno: ve lo ripeto, dopo la burrasca avremo calma e sereno.
Ma i tempi invece mutarono in peggio, e il proverbio del signor Rienzo mi parve allora la maggior derisione.
Però il cuore, il senno e la borsa di lui ci hanno sempre assistito da veri amici; e posso dire di non avere trovato fior d’uomo come quello. Voglia sempre il Cielo ricambiarlo degnamente, poichè non m’è dato far per lui altro che de’ voti.
Giunta la coscrizione, Zino non comparve: doppia sventura; l’Austriaco non ci volle perdere, e per Zino ci rubò Cecco, che fu a suo tempo mandato in Boemia.
Vedete un po’, se mi sono fioccate addosso come una vera maledizione!
Un anno dappoi, il mio piccolo Tonio diè nel tisico; si fece magro come una candela, e una sera del dicembre..., una brutta, ben brutta sera!...
Qui il vecchio diede in uno scroscio di pianto, che mi schiantò il cuore, e due grosse lagrime scivolarono giù anche a me, che gli dissi: — Eh, via! nonno Brogio, che volete mai? la sventura visita tutti in questo mondo: perchè perdervi d’animo? non sapete, che il pianto non rimedia a niente?
— Quando si è padre! rispose il vecchio asciugandosi con la destra le lagrime; se sapesse la bella figliuolanza ch’era la mia! ma.... pazienza! sì, pazienza!...