Ricordi del 1870-71/Un esempio
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UN ESEMPIO.
Prima del levar del sole, il vecchio dottore dell’80º reggimento era già fuori di città, e andava per una viottola solitaria verso la villa d’una signora amica sua.
Arrivato a un punto dov’era un vasto campo arido, che pareva una piazza d’armi, si fermò, e stette guardando qua e là colla fronte corrugata, come se la vista di quel luogo gli richiamasse alla mente qualcosa di triste.
La villa era posta sopra un poggetto poco distante da quel campo; e tra il campo e il poggio si stendeva un tratto di terreno senza alberi e senza siepi. Il tempo era torbido: non si sentiva un rumore e non si vedeva nessuno.
Entrato nella villa, il dottore, con sua grande meraviglia, trovò la signora già alzata. Essa gli venne incontro col viso turbato, dicendo: “Vi ringrazio, dottore, so perchè venite, me l’han detto ieri. Che notte ho passata, se sapeste, con quel pensiero fisso! Sentite, se avessi potuto prevedere una cosa simile, di certo non sarei venuta a star qui; ma è la prima e l’ultima che mi capita; lascerò la casa, e intanto, per questa mattina, prendo con me i miei due ragazzi e scappo da una mia amica....... Permettete.”
S’alzò in fretta, e affacciatasi all’uscio di una camera attigua domandò a una donna di servizio se i figliuoli erano lesti. “Si spiccino” soggiunse, e tornò a sedere accanto al dottore.
“Ah! dottore,” riprese a dire sospirando, “ma che proprio non ci fosse un altro luogo in tutti i dintorni della città da dover venire per l’appunto davanti la mia casa?...”
“È la piazza d’armi,” rispose il dottore distratto.
“Dio mio! e se per disgrazia non fossi stata avvisata? Tremo a pensarci, vedete. Via, via, lontano di qui, a cinque, a dieci miglia se occorre, purchè io non veda nulla e non senta nulla. Voi mi terrete compagnia, è vero?”
Il dottore non rispose; stette qualche istante pensieroso e poi, con aria severa e con accento benevolo, disse: “Signora, voi avete due figliuoli: tutti e due son destinati alla carriera militare; uno ha quattordici anni, l’altro ne ha sedici; sono nell’età in cui, molte volte, un avvenimento, uno spettacolo, un’emozione che a noi può parere senza effetto o d’un effetto cattivo, dà un nobile e forte stampo al carattere, che dura per tutta la vita; noi siamo tutti fatti di impressioni avute da ragazzi; se volete avere due figliuoli soldati, seguite il mio consiglio, signora: restate.”
La signora, all’udir quel restate, tremò; poi cominciò a riflettere.
Entrarono i due ragazzi, alti, per l’età loro, e robusti, di fisonomia aperta e simpatica; somigliantissimi alla madre. Uno avea la divisa d’un collegio militare. Stavan tutt’e due serii, col capo basso e le sopracciglia aggrottate, come se facessero il broncio. Salutato il dottore, si ritrassero in un canto della stanza senza parlare, in atto di protesta.
“Che c’è?” domandò la madre.
“Noi non si vuole andar via,” rispose il più piccolo con quella voce tra il pianto e la stizza che fanno i ragazzi scontenti.
La madre guardò il dottore, volse uno sguardo inquieto alla finestra, e poi domandò con un sospiro, voce bassa: “Tra un’ora, è vero?”
“Tra un’ora,” rispose il medico.
“E..... son due?” disse anche più piano la signora.
“Due.”
“E per cosa?”
“Vigliaccheria.”
“Oh sentite!” esclamò essa vivamente dopo un istante di riflessione; “potete dir quel che volete, ma è orribile!”
“Oh sentite voi!” rispose anche più vivamente il dottore: “io vi posso assicurare che quello che c’è di più orribile in questa tragedia non è quello che voi vedrete, è quello che ho veduto io!”
Dopo un istante ripigliò:
“Voi, signora, conoscete la mia vita; ho i miei anni e ho avuto le mie disgrazie; ho perso madre, padre, fratelli, da giovane; ho dovuto mandar giù dei bocconi amari anco nel corso della mia vita di medico militare; m’è toccato di quei momenti che, a non credere in qualche cosa dopo la morte, c’è da fare uno sproposito. Poi il dolore d’esser preso prigioniero, di leggere sul viso dei nemici che il nostro esercito era stato battuto, e le altre disgrazie che dopo cascarono addosso al paese; furon tutte trafitture di cuore, come vi potete immaginare, terribili. Eppure, vedete, mi paion tutte cose da nulla in confronto di ciò che ho provato alla vista di quello spettacolo deplorabile, di cui i due sciagurati di stamani non furono che un piccolo episodio: il 3º battaglione del mio reggimento che si sbandava alle prime fucilate, come un branco di briganti! Son passati parecchi mesi, ho avuto d’allora in poi delle emozioni vive, anche durante la mia prigionia; poi il piacere d’esser liberato, di tornare in patria, di rivedere il mio reggimento, i miei amici; eppure l’impressione avuta quel giorno mi è rimasta viva nell’anima come se fosse d’ieri, quello spettacolo l’ho sempre davanti agli occhi, sento quelle voci, vedo quella gente, ci penso, la sogno, e c’è dei momenti che mi si schianta il cuore e che nasconderei il viso dalla vergogna.”
“Oh... poi!” disse la signora.
“Sì! sì!” l’interruppe il dottore, “e così fosse più generale questo sentimento, cara mia! Quando la vergogna di molti, appunto perchè è di molti, non è più sentita da nessuno, pessimo segno. Per me una delle prime qualità d’un esercito, a voi parrà strano, ma io lo credo sul serio, è il pudore. Quando s’è stati vinti, bisogna sentirsi bruciar la fronte e soffrire; chi cerca scuse e conforti, è già mezzo battuto per un’altra volta.”
“Capisco; ma come mai quel battaglione s’è portato male e gli altri no? Io credevo che fossero tutti gli stessi i soldati.”
“Che volete?” rispose il dottore, pigliando una mano del ragazzo più piccolo, che tenne poi lungamente fra le sue; “bisogna dire che quello fosse un battaglione segnato da Dio. Già io n’avevo avuto un cattivo presentimento fino dal principio della battaglia. Quando seppi che appunto quel battaglione lì era stato scelto, fra tanti altri, a esplorare una collina sulla sinistra del nemico, che vuol dire avventurarsi a un combattimento improvviso, contro forze sconosciute, senza sostegno, e forse a molta distanza dal resto del reggimento, non so perchè, tremai. Lo vidi passando, quel battaglione, mentre aspettava l’ordine di andare innanzi, fermo in un campo, mezzo nascosto fra gli alberi. Guardai bene in faccia quei soldati... non mi piacquero. In lontananza si sentiva un fuoco di fucili fitto; di tratto in tratto qualche palla fischiava più da vicino, e ad ogni fischio quei soldati si guardavano e ridevano; ma.... dopo essersi molto guardati. C’eran dei visi bianchi come un panno lavato che volevano ridere e non mostravano che i denti. Canterellavano, scherzavano, tutte cose forzate. — Va male — dissi tra me, e tirai di lungo. Ripassai di là poco dopo: il battaglione se n’era andato, ma avea lasciato delle brutte traccie: vidi tre o quattro fucili e tre o quattro zaini sparsi fra l’erba; qualche soldato, profittando del granturco alto, se l’era battuta. Guardai un po’ intorno, non vidi nessuno, seguitai la mia strada. Pratico dei luoghi, presi a traverso i campi, salii sopra un’altura, scesi fino a mezza la china opposta e mi trovai di fronte a una collina, sulla quale cominciavano a salire, adagio adagio, i cacciatori del battaglione. La valle era strettissima, in modo ch’io vedevo distintamente ogni cosa dal lato opposto. La china era tutta coperta di granturco, sulla cima c’era un bosco. Pareva che nel bosco non ci fosse nessuno. Dietro i cacciatori saliva il battaglione, già mezzo scompigliato; a poco a poco furon tutti lassù e sparirono fra gli alberi. La collina e la valle rimasero deserte e silenziose; non si sentiva che l’eco del cannone lontano. Però, a guardar bene, mi pareva che qua e là tra il granturco si movesse qualcosa; tratto tratto travedo un luccichìo, come di canne di fucili; osservato meglio, sospettai che fossero soldati rimasti indietro, che scappavano. Nel punto ch’io mi movevo per andare a vedere, sentii dalla parte del bosco prima il rumore di poche fucilate, poi un rumore più fitto, poi uno strepito vivissimo di colpi. — Ci siamo! dissi; si sono incontrati. — Ma di lì a poco mi parve che il rumore, invece d’allontanarsi, come speravo, s’avvicinasse: tesi l’orecchio, si avvicinava davvero; alzai gli occhi, e vidi comparire in cima alla collina alcuni soldati, che correvano, e poi altri e altri ancora, il battaglione intero, affollato e disordinato, senza il maggiore. Il sangue mi diede un tuffo così forte che credetti di mancare; poi mi prese un freddo che m’agghiacciò, e guardai instupidito. Il battaglione scendeva la china di corsa, urlando e sparpagliandosi, buttando via zaini e berretti, che pareva gli si fosse scatenato alle spalle l’inferno. Qualcuno si fermava di tanto in tanto e si voltava indietro a sparare; i più venivan giù a precipizio col capo basso e le braccia aperte, inciampando, cadendo, rialzandosi per precipitarsi di nuovo, come forsennati; altri, feriti, barcollavano qua e là, o si rotolavano per le terre, gettando acute grida. Molti ufficiali e sergenti, ed anco soldati semplici, a quando a quando si fermavano, cercavano di trattenere gli altri, e gridavano: — Fermi! Non è nulla! Fronte al nemico! Fuoco! Non sono che un battaglione come noi! — Inutile; la fuga era irresistibile da tutte le parti. Quelli che avrebbero voluto resistere si picchiavano la fronte, si mordevano le mani, minacciavano, si scambiavano, come si poteva in quella confusione, ordini, consigli, cenni; finchè riuscirono a riunirsi in un drappello di cinquanta o sessanta. Allora presero la china di traverso, e correndo disperatamente, arrivarono tutti insieme dinanzi a un ponte che cavalcava il rio nella valle, prima che ci arrivasse il grosso dei fuggiaschi. Là si schierarono a traverso la strada, soldati e ufficiali alla rinfusa, stretti, in atteggiamento di difesa, risoluti a impedire il passaggio. Dopo pochi momenti arrivò la turba dei soldati, pallidi, senza fiato, col viso travolto, la più parte a capo scoperto, senz’armi. Arrivarono e si videro dinanzi quella schiera, tutta irta di sciabole, baionette, pistole; titubarono un istante, poi, mossi dal terrore che gl’incalzava alle spalle, gridarono tutti insieme: — Largo! — Fronte al nemico! — rispose dall’altra parte una voce risoluta. Piovvero in quel punto, dall’alto della collina, le prime palle nemiche; allora quello sciame di miserabili di scagliò sul piccolo gruppo dei valorosi; partirono alcuni colpi dalle due parti, caddero dei feriti; ne seguì un parapiglia senza nome. Gli ufficiali e i soldati fermi, afferravano gli altri per le braccia e pel collo, li scrollavano, li voltavano indietro a forza; quelli si divincolavano; si buttavano in terra, scivolavano a destra, a sinistra, fra le siepi, pei solchi, col ventre a terra. Era una lotta a urtoni, a pugni, a piattonate. Da un lato si sentiva gridare con voce rabbiosa: — Largo! — Dall’altro un grido terribile: — Vigliacchi! — Qualche voce supplicava: — Salvate l’onore! Coraggio, figliuoli! Siamo ancora in tempo! — Fu tutto invano; i fuggiaschi, colla forza del numero e l’impeto della paura, ruppero quella barriera di petti intrepidi e si precipitarono al di là del ponte, lasciando solo il piccolo drappello a far fronte al nemico che già era a mezzo della china. Rifiniti dalla corsa, si ricoverarono in una casa poco lontana, dove c’erano già dei feriti; io sopraggiunsi in quel punto. Arrivarono poi i pochi ufficiali e soldati che aveano fatto un’ultima resistenza e lasciati sul terreno parecchi morti; appena arrivati tentarono disporre gli altri a difesa; vano tentativo anche questo: quella gente non aveva più goccia di sangue nelle vene, nè sentimento di vergogna, nè aspetto umano. Si sparpagliarono per le scale, s’arrampicarono sui tetti, si rifugiarono nelle cantine, serrando a furia porte e finestre; ci riuscì a stento a far trasportare in una stanza tre quattro dei feriti più gravi, uno col viso fatto in due dalla sciabola d’un ufficiale, gli altri feriti di palla nella schiena. Stavo prestando loro le prime cure, quando a un tratto scoppiò un fracasso più forte, uno sbatter più furioso di porte e correr di qua e di là, urlando a squarciagola. Era una compagnia di nemici, sbucata non si sa di dove, che s’avvicinava di corsa alla fattoria. Si sarebbe potuto resistere; non si sentirono che poche fucilate, i più precipitarono nel cortile per arrendersi. Entrarono infuriando i nemici, i nostri soldati buttarono i fucili in terra, gridando: — Prigionieri! Pace! — Quelli, non potendo credere a tanta codardia, sospettando un inganno, gli si scagliarono addosso lo stesso, e cominciarono a picchiarli coi calci dei fucili. Alcuni di quei vigliacchi si buttarono in ginocchio; uno, che fu poi riconosciuto, implorò la pietà d’un ufficiale nemico, dicendogli: — Io sono per voi! — E allora giù quel berretto! — gli rispose l’ufficiale, dandogli un ceffone che gli buttò il berretto in terra. Altri si presentarono ad altri ufficiali dicendo: — Noi non ci siamo battuti. — Qualche bell’esempio si vide: due ufficiali si fecero uccidere, uno ferire mortalmente, alcuni soldati opposero una resistenza accanita nell’interno della casa. Finalmente si arresero tutti, e quando i prigionieri ed io fra questi sfilammo dinanzi alla compagnia nemica, il capitano, avvicinatosi ad uno dei nostri ufficiali, gli disse in cattivo italiano, con un accento di compassione che mi suonerà nell’orecchio finchè io viva: — Signor ufficiale, lasciatevelo dire, voi vi siete battuto bene, e tra i vostri soldati ce n’è dei bravi, ma ci sono anche dei gran poltroni! — L’ufficiale diventò pallido, tremò per tutta la persona come preso dalla febbre e poi, voltandosi verso un gruppo dei soldati che s’erano portati peggio, urlò con una voce lunga e selvaggia che ci fece compassione ed orrore: — Ah!... infami!”
La signora si coperse il viso colle mani.
“S’eran portati da vigliacchi, furono trattati da vigliacchi. I nemici li misero due a due, con una fila di cavalleggieri per parte, e avanti, a traverso i campi, a passo dei cavalli, e chi si lamentava, sciabolate sulla schiena, il cavallo addosso, e improperii. Il drappello entrò sul far della notte nella città di ***, in che stato, se lo figuri. Ebbene, nelle vie di quella povera città, che era pur nostra, in mezzo a quei poveri cittadini che già sapevano come fosse finita la battaglia, e venivano incontro ai prigionieri col cuore straziato e gli occhi rossi di pianto; in quelle vie, questi miserabili commisero l’ultima, la più vergognosa e la più laida delle loro viltà. Ridotti com’erano, in mano dei vincitori, spossati, laceri, col viso livido dalle percosse, col marchio dell’infamia sopra la fronte, questi svergognati... cantarono!”
La madre e i ragazzi fecero un segno d’orrore.
“Cantarono!” proseguì il dottore; “forse per la gioia d’essersi liberati dai pericoli avvenire della guerra, forse per far vedere che a loro importava poco d’essere stati battuti, fors’anche per amicarsi i nemici. I nemici sorridevano di disprezzo, i cittadini si voltavano indietro indignati, gli ufficiali prigionieri si coprivano il viso. Un d’essi, non potendo più reggere, si presentò al comandante la scorta e lo pregò, in nome della fratellanza di tutti gli eserciti, che li facesse tacere lui. Tutto, — gli disse, — noi siamo disposti a sopportare, fuorchè questo strazio; se non volete liberarcene voi, dateci almeno le nostre sciabole, che si possa sfracellar la testa a qualcuno. — Il comandante ordinò ai suoi soldati che imponessero silenzio; venne giù una tempesta di piattonate, e i prigionieri tacquero. Quella sera fummo divisi, ed io non li vidi più. Ma a me, agli ufficiali, ai pochi soldati che si batterono, rimasero nella mente le fisonomie e i nomi dei più vigliacchi; ci accordammo per riferire ogni cosa appena tornati al reggimento, e far dare un esempio solenne; si tenne la parola; dieci furono già fucilati; ne restano altri due, che vedrete; noi abbiamo fatto il nostro dovere, non ho avuto mai la coscienza più tranquilla.”
La signora appoggiò la testa sopra una mano e mormorò quasi macchinalmente, cogli occhi fissi: “Ma è la morte... dottore!”
“Sempre così!” esclamò questi balzando in piedi con impeto e cominciando a passeggiare per la stanza; “siamo sempre gli stessi! Finchè si tratta di dire: — combattere per la patria, avanti, coraggio morire, — sta bene; ma quando poi si tratta di restare al proprio posto per morire davvero, allora pare che non ci abbia da essere obbligato se non chi ha il coraggio naturale di starci; per gli altri è un affare di temperamento; chi non può, pazienza, non siamo tutti eroi. Così, fin che si tratta di scagliarsi contro i vigliacchi in prosa e in poesia, gridando all’infamia, alle anime abbiette, alla patria disonorata, con tutte l’altre parole, tutti ci stanno; quando poi ve ne conducono dinanzi uno, allora patria, valore, onore, bandiera son tutte bolle di sapone che si sciolgono, e non resta che il sentimento dell’umanità. Signora! voi non vedete che un uomo che deve morire, solo, là in mezzo a un campo, con una croce in mano e gli occhi rivolti al cielo; e vivaddio! ho viscere d’uomo io pure, e quello spettacolo fa male anche a me. Ma non è a codesto moribondo che voi dovete fermarvi col pensiero; voi dovete vedere codest’uomo stesso nascosto in un fosso o dietro una siepe, col viso a terra, tremante, mentre cento passi più innanzi vi sono i suoi compagni che offrono il petto alle palle, e invece di slanciarsi innanzi e di vincere, debbono star fermi e morire, perchè i vili hanno diradato le file. Dovete immaginarvi codest’uomo quando dice: — I miei compagni saranno uccisi, non importa; la mia bandiera sarà vituperata, non importa; io sono un vigliacco, non importa; mi sputeranno in viso, non importa; ma vivo! — dovete immaginarvelo così, per sentire che codest’uomo deve sparire dal mondo, che lo fareste sparir voi colle vostre mani, che la sua vita è un insulto ai morti. Per carità, signora! Questa pietà è fatale! Dietro a ogni vigliacco rimasto in piedi, c’è un mucchio di valorosi sacrificati. Credetelo; bisogna essere inesorabili; dobbiamo far capire a questa gente senz’anima e senza cuore, che sopra un campo di battaglia c’è qualcosa di più prezioso a conservare che queste quattr’ossa che ci fanno commettere tante bassezze; bisogna farle capire che quando la patria ha bisogno di sangue, dobbiamo darglielo, e che chi non lo vuol versar sul campo, in mezzo agli altri, lo dovrà versare solo, in una piazza d’armi, inevitabilmente; bisogna tagliare la parte fradicia, signora! Siamo ancora in tempo; guai se ci trema la mano; a una nuova occasione saremmo schiacciati e svergognati per sempre! Dio non voglia....”
Qui s’interruppe, stette un po’ silenzioso, guardò l’orologio e soggiunse a bassa voce, con grandissima calma: “Ditemi piuttosto, signora, che questo non è il momento di proferire parole d’ira e di disprezzo; è meglio tacere e pensare.”
La signora si sentì correre un brivido per l’ossa.
I due ragazzi si slanciarono verso la finestra.
“No! Qui subito! Non voglio....” gridò con accento imperioso la madre, balzando in piedi.
Il dottore la trattenne e la fece risedere. I ragazzi si fermarono; tutti tacevano; si sentiva in lontananza un rumore confuso.
Il dottore prese i due ragazzi per mano e li condusse alla finestra, e tutti e tre cominciarono a guardare attentamente verso la campagna. Il dottore parlava a voce bassa e accennava qualcosa di fuori; i ragazzi, col braccio teso, accompagnavano i suoi movimenti.
“Eccoli,” disse sotto voce il più grande.
Si sentiva un brulichìo più distinto.
Il più piccino mormorò, facendosi pallido: “Non si reggono quasi in piedi! “
“Dottore!” esclamò la madre con accento supplichevole senza ardire di moversi dall’angolo della stanza dove si trovava.
Dopo qualche istante di silenzio e d’immobilità, i due ragazzi, con un solo movimento improvviso e rapido, si voltarono indietro inorriditi e appoggiarono il viso sulle spalle del dottore.
Avevan fatto sedere i due soldati sull’orlo di un fosso; nel chinarsi, uno di essi era caduto.
“Dottore!” disse ancora una volta la signora con una voce appena intelligibile.
Il dottore posò le mani sul capo dei due ragazzi, e facendoli voltare a forza il viso verso la campagna, li tenne tutte e due così, immobili, colla fronte alta, pallidi, dicendo severamente:
“Guardate!”
Per un minuto, in quella stanza, non si sentì un alito; a un tratto la signora cadde in ginocchio colle mani giunte.
Un momento dopo si sentì una scarica fragorosa.
La signora mandò un grido altissimo, si slanciò sui figliuoli, li strinse al petto con impeto disperato, e coprendoli di baci e di lagrime, proruppe in una voce mista di pietà, d’angoscia, di terrore e d’amore:
“Oh promettete a vostra madre che sarete valorosi.... sempre!”