fra le siepi, pei solchi, col ventre a terra. Era
una lotta a urtoni, a pugni, a piattonate. Da un lato si sentiva gridare
con voce rabbiosa: — Largo! — Dall’altro un grido terribile: —
Vigliacchi! — Qualche voce supplicava: — Salvate l’onore! Coraggio,
figliuoli! Siamo ancora in tempo! — Fu tutto invano; i fuggiaschi, colla
forza del numero e l’impeto della paura, ruppero quella barriera di
petti intrepidi e si precipitarono al di là del ponte, lasciando solo il
piccolo drappello a far fronte al nemico che già era a mezzo della
china. Rifiniti dalla corsa, si ricoverarono in una casa poco lontana,
dove c’erano già dei feriti; io sopraggiunsi in quel punto. Arrivarono
poi i pochi ufficiali e soldati che aveano fatto un’ultima resistenza e
lasciati sul terreno parecchi morti; appena arrivati tentarono disporre
gli altri a difesa; vano tentativo anche questo: quella gente non aveva
più goccia di sangue nelle vene, nè sentimento di vergogna, nè aspetto
umano. Si sparpagliarono per le scale, s’arrampicarono sui tetti, si
rifugiarono nelle cantine, serrando a furia porte e finestre; ci riuscì
a stento a far trasportare in una stanza tre quattro dei feriti più
gravi, uno col viso fatto in due dalla sciabola d’un ufficiale, gli
altri feriti di palla nella schiena. Stavo prestando loro le prime cure,
quando a un tratto scoppiò un fracasso più forte, uno sbatter più
furioso di porte e correr di qua e di là, urlando a squarciagola. Era
una compagnia di nemici, sbucata non si sa di dove, che s’avvicinava di
corsa alla fattoria. Si sarebbe potuto resistere; non si sentirono che
poche fucilate, i più precipitarono nel cortile per arrendersi.
Entrarono infuriando i nemici, i nostri soldati buttarono i fucili in
terra, gridando: — Prigionieri! Pace! — Quelli, non potendo credere a
tanta codardia, sospettando un inganno, gli si scagliarono addosso lo
stesso, e cominciarono a picchiarli coi calci dei fucili. Alcuni di quei
vigliacchi si buttarono in ginocchio; uno, che fu poi riconosciuto,
implorò la