Replica del dottor C. Cattaneo alla Risposta dell'ing. Giovanni Milani
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Replica del dottor C. Cattaneo alla Risposta
dell'ingegnere Giovanni Milani.
La libera discussione, ch’erasi aperta su quest’impresa fino da suoi primordj, le aveva tosto sommamente giovato nella vitalissima questione della scelta della linea, rimovendo la proposta irreparabilmente ruinosa di seguire la traccia materiale delle pendenze, lasciare in disparte le città e frapporre tra loro una costosa sopradistanza artificiale. Ma l’interesse privato, che agognava a traviare il corso dell’opera e divorarne i prematuri frutti, non omise artificio alcuno per sottrarla tosto alla soggezione della publica vigilanza. L’effetto si fu che quando, dopo alcuni tentativi fatti indarno, noi cogliemmo, alla fine dello scorso aprile, la propizia congiuntura di rianimare l’abbandonata discussione, l’impresa, dopo aver giaciuto quattro anni nell’aria sepolcrale del secreto, poteva dirsi sull’orlo d’una vergognosa liquidazione. Milano rifiutava sdegnosamente di prendervi parte, perchè temeva di mettere il collo entro il laccio bancario. Venezia guarda con inappetenza l’ottenuta facoltà di dar mano ai lavori; e accoglieva già da un anno indugi e pretesti, per non essere astretta a una serie di rapidi versamenti, troppo sproporzionata alle sue forze. Trieste e Vienna si trovavano involte in gravissimi infortunj, dei quali il malgoverno di quest’opera non era l’ultima delle cagioni; e già un terzo degli azionisti abbandonava questa nostra nave, e i milioni che le aveva confidati.
Ecco dove si erano ridutte le cose, quando noi, nella nostra Rivista facevamo un ardito richiamo ai nostri concittadini; additavamo come nell’impresa si era insinuato il principio del male, ma v’erano i germi d’un immenso commun bene; e accusavamo la funesta loro indolenza. Ma il tempo stringeva; e prima che il publico potesse appurare un giudizio, e venire a qualche risoluzione, scadeva la fine di maggio; si chiudevano con tristi auspicj i registri, e si preparava per la fine di giugno un congresso d’azionisti, al quale la nostra cittadinanza omai non poteva onorevolmente partecipare.
Una fortuita dilazione di quaranta giorni bastò perchè la discussione maturasse l’immancabile suo frutto, e i nostri concittadini rispondessero nobilmente ai nostri rimproveri, mettendo mano alla cosa per la cosa, e salvandola dall’urgente ruina. Non diremo ancora che tutto sia salvo; nè questo un peso a cui bastino le forze d’una sola città; ma intanto abbiamo superato il peggior momento della crisi; quelli che avevano disperato, possono riprender animo e tornare con noi; e le mani stanche e i nomi logori possono sgombrare, e far largo al principio della forza e della vita.
Dopo ciò possiamo giustamente lagnarci di coloro che giudicarono pericoloso quel nostro scritto, e predissero che avrebbe al tutto alienato gli animi dall’impresa. Di coloro poi, che altro non vollero vedervi che il linguaggio della malevolenza privata, non ci degniamo parlare. E per tutto ciò riprendiamo tranquillamente la discussione, lasciando al tempo e al fatto la cura di giustificare, come al solito, le nostre intenzioni.
In quella Rivista avevamo dedicato 28 pagine, ossia fogli di stampa uno e trequarti, all’esame del progetto Milani. La semente non fu sparsa in terra ingrata; tre stamperíe ci hanno già versato fogli quarantuno e mezzo di risposta. Pare che la verità questa volta compaja piuttosto vestita che nuda.
Da ogni parte ci si annunciavano cose grandi, grandi mentite, dovizia di lettere e documenti. Noi ridevamo; dicevamo a tutti che le mentite sarebbero poi state confessioni, e la risposta sarebbe infine una ricevuta.
Nel giorno 28 luglio comparve il formidabile in-quarto; e non neghiamo che quella massa fece un senso di sgomento e d’oppressione ai nostri benévoli; e per poco non conquise anche la nostra fermezza. Prima di leggerne il contesto, l’abbiamo scorso materialmente in cerca di mentite; e vi abbiamo infatti notato più di sessanta volte il verbo mentire, o il nome menzogna, o altri vituperosi equivalenti. Ma in quella operazione ci siamo tosto persuasi, che la voce mentire non ha per il sig. Giovanni Milani quel senso tremendo e sacramentale, che suole avere nella nostra società; essa non è altro che un modo violento di dire: un frémito forse di vergogna: una specie di bestemmia sociale.
Tuttavia si poteva credere ch’egli ne avrebbe almeno fatto uso nei casi più gravi. E siccome dei quaranta e più errori fondamentali che avevamo notati nel suo progetto, i più enormi ci stavano ben presenti al pensiero, così abbiamo cercato tosto le corrispondenti mentite. Per esempio:
Ad imitazione del sig. ingegnere Bruschetti, che ne 1836 prometteva nella Biblioteca Italiana di servire con due sole locomotive i 4 miriámetri della strada di Como, il sig. ingegnere Milani aveva calcolato che quattordici locomotive sarebbero state sufficienti per i 29 miriámetri della strada lombardo-véneta, e sua laterale. Noi non avevamo mancato di dire due volte agli azionisti, che questo errore era stato corretto in alto, e che, per virtù di questa ch’essi chiamano approvazione le 14 locomotive, calcolate dai sig. Milani erano già divenute 60; e s’avviavano a raddoppiarsi per lo meno un’altra volta. Questa nostra asserzione ci pareva un punto degno, che il sig. Milani vi spendesse intorno una delle sue mentite. — Abbiamo cercato il volume da capo a fondo; l’abbiamo fatto frugare anche dagli amici; lo frughino ora i nostri nemici, poiché la mentita non vi si trova. Dunque per questo primo punto la risposta del sig. Milani si risolve in una ricevuta. Ed è già un affare di cinque o sei milioni; perchè ogni ventina di machine costa più d’un milione. Aggiungiamo in proporzione i carri e le vetture.
V’è di più. Al § 335 della Risposta, il sig. Milani, quasi per aggravare il suo torto, espone con dottrinale apparato, che: «la corsa continua d’una locomotiva non deve superare i 60, od al più i 70 mila metri: e che, dopo una corsa simile, convien fermare la machina, visitarla, pulirla, sgombrare il focolajo, vuotare la caldaja, se occorre; insomma BISOGNA CAMBIARLA CON UN’ALTRA». Perlochè sulla nostra strada le locomotive, secondo lui, dovranno, in buona regola, essere mutate ad ogni due sezioni, o ciò che vale lo stesso, percorrere una sezione sola per andata e ritorno. E siccome tutta la linea, compreso il braccio di Treviglio, forma 12 di codeste sue sezioni di circa 25 mila metri ciascuna, e ogni movimento d’andata e ritorno porterebbe il cambio di 12 machine; e supposto che 2 altre si trovassero in riparazione, le 14 machine dell’originale calcolo Milani appena basterebbero ad un solo andirivieni al giorno. E perciò questo numero è da moltiplicarsi cinque, o sei, o più volte, secondo il numero giornaliero delle partenze, e il successivo sviluppo che nel corso di cinquant’anni avrà luogo, e il successivo logoramento delle machine, che dapprincipio sono tutte nuove. E poi rimane ancora di raddoppiare all’incirca la partita nel trasporto dei bestiami e delle merci. Se questa dottrina venne adottate dal Sig. Milani al § 335, egli era tanto più in dovere di darci una mentita sul punto delle 14 machine; e ne lo avremmo quasi pregato, e per la sua gigantesca riputazione, e pe’ suoi famosi viaggi su tutte le strade ferrate d’Europa; poichè dopo l’esperimento della strada di Monza, tutti hanno aperto gli occhi alla nuova luce, e devono dire che il signor ingegnere in capo non ne sapeva nulla.
Avremmo osato sperare anche un’altra mentita. Nella Rivista si era affermato che il signor Milani aveva proposto, per le rotaje, lastre di granito, lunghe tre metri, larghe mezzo metro, e grosse, o ben piuttosto sottili, 9 decimetri; e che riunite le pietre di ambedue le rotaje, si sarebbe potuto farne da Milano a Venezia, (e aggiungi: da Treviglio a Bergamo) un selciato continuo di granito, largo cinque braccia; ma che l’ingegnere aveva valutato ogni lastra al decimo del suo valore.
Nella sua risposta (§ 376 e seguenti) il signor Milani afferma che non si trattava di granito bensì di pietra scempia calcarea di Verona; ma confessa d’aver fallato il moltiplicatore, cioè, per dirlo alla buona, il prezzo della pietra: «Nel moltiplicare il numero dei metri quadrati di lastra scempia calcarea di Verona (§ 380) ho preso per moltiplicatore, NON SO COME, in luogo di lire 6,54 — lire 2,76».
Anche noi non sappiamo come un esperto ingegnere, debba sbagliare quasi del triplo nel valore dei materiali più communi, in un caso di sì enorme importanza come una selciatura larga cinque braccia e lunga 150 miglia. E non sappiamo come non dovesse avvedersene sulla sua sedia curule nell’Officio Tecnico a Verona, dove tutti sanno il prezzo di questa trivialissima merce, e in mezzo a venti ingegneri, che, com’esso narra, avevano facoltà di consiglio e di discussione (§ 367), e non erano niente affatto sotto il giogo di discipline umilianti (§ 174); e poi se ne dovesse accorgere, dopo molti mesi, a Vienna: «Di questo errore mi accorsi io stesso… in Vienna, nel novembre 1838 (§ 380)».
Ma vedete sventura! «Allorchè mi accorsi in Vienna di quell’errore, il progetto era già stato spedito in Italia; e propriamente a Milano» (§ 382). Povero ingegnere in capo! In Italia e propriamente a Milano! Ecco dunque l’ingegnere in capo, che prende la posta, e galoppa dietro al suo sproposito, e alla sua pietra scempia, in Italia e a Milano; e vi giunge. «Anch’io giunsi a Milano: attesi che la Commissione esaminatrice fosse nominata e raccolta; e tosto che seppi che faceva parte di essa... il signor cav. Donegani, gli esposi in una Memoria in iscritto, rimessagli negli ultimi giorni del gennajo 1839, l’errore occorsomi, pregandolo a permettermi d’emendarlo… concludendo anche che non mi scolpava pel fallo fatto, perchè egli era tanto materiale (dite tanto grosso), che si scolpava da sè. Quanto ho chiesto dalla gentilezza del cav. Donegani, mi fu da lui accordato, e così terminò quest’affare (§ 383).
Senonchè quest’affare non è terminato ancora, come qui si vede; e non avrà finito così nemmeno allora, perché il fatto sta che non si sarà accorto esso in Vienna nel novembre 1838, ma il signor cavaliere Donegani in Milano. E avrà avuto la bontà di mostrarglielo; e gli avrà usato l’indulgenza di lasciargli tagliar fuori questa, ed altre, e non poche, pagine del suo manoscritto; cosicché avesse a fare men meschina figura nei susseguenti Offici civili e militari; e potesse poi millantarsi d’aver avuto l’approvazione; e vantarsi ingratamente d’aver confuso i suoi giudicatori, cioè quelli che lo avevano salvato; e in virtù di questa pretesa approvazione potesse riscuotere le 16 mila lire di premio che i direttori gli vollero prodigare a carico degli azionisti, — tuttochè sapessero bene benissimo che il suo progetto non era lodevolmente compiuto, e anzichè approvato, era riprovato, e per quanto si poteva rifuso; — tuttochè noi ne avessimo dato notizie agli azionisti nel primo numero di questo giornale; — tuttochè i direttori, senza negare il fatto della disapprovazione ci avessero presso l’Autorità fatto carico di quello scritto come inteso a screditare l’opera, mentre noi miravamo solo a rompere in tempo la cabala che involgeva gli azionisti, e della quale ora si colgono i maturi frutti. Per diminuire quel colossale errore, il signor Milani volse il granito in pietra scempia, e confessò per giunta un altro errore: «Un errore di scritturazione; si scrisse larghi 0m,50, in luogo di 0m,30 (Alleg. cc. pag. XXIX). Del granito ben ci si ricorda; ma della pietra scempia non avevamo udita menzione fino a quest’ora; ed è pure un vocabolo che resta facilmente impresso; e non possiamo credere che, mentre il canale che costeggia a breve distanza la linea da Milano fino all’Adda vi poteva recare i solidi graniti del Lario, convenisse trasportarvi una misera calcarea fin da Verona. E se oltre alla sottigliezza delle lastre, e alla soverchia loro lunghezza, si doveva togliere loro due quinti della larghezza, e il nervo della materia, non sappiamo come avrebbero potuto reggere al peso della locomotiva, senza esserne stritolate tutte dal primo all’ultimo pezzo.
Il sig. Milani nega indarno d’aver preso dal progetto Meduna quanto di meglio egli propose intorno al gran ponte. Nella vastità dell’intervallo tra Mestre e Fusina e l’uno e l’altro capo di Venezia egli scelse al passaggio la stessa barena lo stesso Canal Calombola, e per le stesse ragioni del partiaqua e della laguna morta. Sciolto colla scorta altrui il modo di costruire il ponte, e quello d’attraversare la Laguna, anche nel ricapito preciso del ponte non se ne allontanò. Il sig. Meduna aveva proposto negli Annali di Statistica del dicembre 1836 (p. 298) cinque linee per la direzione del ponte:
«La 1.a linea, partendo da Mestre, raderebbe il forte di Marghera dal lato di mezzodì, e scorrendo parallelamente al canale di S. Secondo, che forma la consueta via delle barche tra Mestre e Venezia, giungerebbe alla città presso S. Giobbe…
«La 2.a linea si traccerebbe alterando lievemente la prima, cioè facendo capo alla Sacca di Santa Lucia»…
Di questo, ecco la ricevuta Milani.
«Muove dal lato di Venezia che guarda Ponente, da quell’ampia isola che sta tra la Laguna, il Canal Grande, e quello detto Canal Regio, proprio dalla Sacca di S. Lucia, dal vasto orto Petich… Segue una linea retta che corre al forte di Malghera radendo lo spalto delle di lui opere principali, e della mezza luna a sud. In cammino è attiguo e quasi parallelo al canale di S. Secondo». (Progetto capo IX § 132 p. 34).
Habemus confitentem reum. Il sig. Meduna aveva posto questa linea di Malghera, S. Secondo e S. Lucia per la seconda, perchè più lunga; il Sig. Milani la preferisce, perchè nell’orto Petich può trovare le cento pertiche di terreno sgombro, da farvi non solo la stazione, ma anche la manifattura delle machine. Il luogo, come si vedrà, non è opportuno, perché intercetto dal ponte levatojo, ma ad ogni modo non esce dalla seconda linea del Meduna.
Il sig. Milani suddivise istessamente la tratta con cinque isolette, quella di mezzo maggiore delle altre; fece gli stessi calcoli sulla distanza del fondo stabile; elesse gli stessi materiali, le stesse pile, gli stessi archi, le stesse dimensioni; poichè, se il piano carreggiabile del sig. Milani riesce alto due spanne di più (0m,55), ciò avviene perchè egli vi aggiunse le cavità degli aquedutti (0m,53), che lo rialzano d’altrettanto. E siccome dove finisce la laguna cominciano le paludi, e dove finisce il ponte comincia l’argine: così per un certo tratto è libero all’ingegnere fare qualche arcata i più o di meno, secondoché l’esperienza dimostrerà che costi più un’arcata o un tronco d’argine di pari lunghezza; il che può allungare più ancora il ponte, senza variarne menomamente l’impianto e la proprietà del pensiero. Le differenze di quattro once (0m,20) nelle freccie degli archi, e l’essere nel progetto Meduna la faccia esterna delle pile piuttosto inclinata d’un decimo che precisamente verticale come nel progetto Milani, sono freddure superficiali che in si vasta opera non importano nulla. Nè vale quell’osservazione barbaresca «che tutti i ponti vi somigliano» (§ 110), e perché non è vera; e perché nello stesso modo si somigliano anche tutti i fazzoletti e tutte le tasche; eppure non è lecito prendervi sbaglio. Nè parimenti è vero che l’autorità militare abbia disapprovato il progetto Meduna, perchè quell’allegato che il sig. Milani reca molto opportunamente a nostra notizia, non allude in alcun particolare al progetto Meduna; ma stabilisce la massima, allora generale: «potersi concedere soltanto la costruzione d’un PONTE DI LEGNO, senza selciatura» 1 Questa massima venne negli anni seguenti abbandonata, perché la causa delle strade ferrate fece continuo progresso; molti, che le si mostravano avversi, a poco a poco, come accade, le si vennero accostando, e il controverso principio della struttura murale fu allora ammesso. Epperò se lo stesso progetto Meduna si fosse presentato la seconda volta col suo stesso nome, non avrebbe più trovato la stessa difficoltà; come infatti non la trovò quando, sotto la firma del sig. Milani, se ne presentò la copia servile. Perlochè non sappiamo con qual buona fede i fautori del sig. Milani possano permettergli di dire in prova della differenza: «Il mio progetto fu approvato; … quello del sig. Meduna fu disapprovato».(§ 126).
Si legge al § 86: «Il sig. Meduna poteva dunque riclamare da sè la proprietà del progetto mio, s’egli avesse ritrovato che il progetto mio fosse una copia del suo. Non lo ha fatto; e, per quanto risulta, non ha nemmeno incaricato il dott. Cattaneo di farlo per lui … Sarebbe stato un bell’appoggio alle sue fandonie l’avere per sè il giudizio e la dimanda dell’autore».
Questa è una delle tante nobili mentite; e pare che con essa il sig. Milani si metta a discrezione del sig. Meduna, e si rassegni reo confesso, qualora sia tale il giudizio e la dimanda del derubato. Non possiamo dire che vi sia la dimanda; poiché nel Meduna è pari la modestia all’ingegno; e vi sono uomini che, nemmeno per difendere il proprio, leverebbero quel rumore che taluni levano per usurparsi l’altrui. Ma il giudizio del sig. Meduna, grazie a Dio, non ci manca.
- Egregio Signore.
Fino da quando ella si diede la pena di publicare negli Annali Universali di Statistica col titolo di Primi studj i cenni ch’io aveva premessi al progetto di ponte sulla laguna, mi correva l’obligo di ringraziarla, anche per le gentili espressioni che volle usare a mio riguardo. Ora poi sarebbe grave colpa se io frapponessi maggiore ritardo ad esternarle i sentimenti della mia riconoscenza, per la somma bontà di avere nella Rivista di varj scritti, ec., rese di nuovo note al publico le mie idee. Il sig. Milani non solo tacque sempre il mio nome ne’ suoi scritti, ma nemmeno nelle poche volte ch’io ebbi il bene di vederlo mi fece mai alcun cenno sul progetto, che io aveva già sviluppato nel 1836, per servire all’onorevole incarico in iscritto datomi dalla Commissione fondatrice per la strada ferrata, e che fu poscia ad esso da questa rimesso…
Col desiderio di poter fare la personale di lei conoscenza, mi pregio di segnarmi colla massima stima e gratitudineQuesta lettera serva di punto di meditazione agli onesti fautori del sig. Milani!
Intorno agli aquedutti che il sig. Milani aggiunse al ponte Meduna, senza farvi alcun provedimento per accrescerne la solidità, noi avevamo detto nella nostra Rivista (pag. 33 e 34): «ciascun canale ha un metro di larghezza e più di mezzo metro (0m,53) di profondità. Fra queste ampie cavità ne corre una terza, che contiene il tubo pel gas; al disotto sono sostenute con archi che hanno dieci metri di corda, e i cui piloni sono fondati nella laguna; tutte queste vôlte e queste cavità devon essere tanto solide da reggere alla formidabile scossa della locomotiva e del suo lungo tráino, sopra una linea di costruzione che per due miglia non ha sostegno alcuno fuor di sè stessa, e del fondo pur sempre difficile della laguna. Murature costrutte infine con mercantile esilità, con cavità così grandi, non assicurate contro gli inevitabili trapelamenti, potranno resistere lungo tempo a questa complicazione di cose fra loro così nemiche, come l’aquedutto e la locomotiva?». A queste nostre domande, che potranno forse tornar moleste al sig. ingegnere in capo, ma che, per certo, non sono menzogne, nè modi vili e villani (§ 416), che cosa egli risponde in quel suo § 131, in cui si chiude per questo punto tutta la sua difesa? Risponde che è proprio come è fatto in tutti gli aquedutti romani, quasi chè, gli aquedutti romani si fossero costrutti per lottare colla locomotiva. Venezia si ostini pure a volere il ponte prima della strada, benchè questa sia la maniera più certa di non avere nè la strada nè il ponte. Noi intanto ripetiamo, che l’aquedutto Milani, lavorato così a traforo, non resisterà meglio alla locomotiva, che no avrebbero fatto i suoi biscotti di pietra scempia di Verona, grossi quattro dita e lunghi cinque braccia.
Quanto al ponte girevole all’ingresso della stazione, noi vorremmo sapere dove il sig. ingegnere in capo manderebbe le locomotive in quei giorni che il fragile giocáttolo fosse in riparazione? Sarebbe mestieri far bivacco sul ponte, caricarvi, scaricarvi, gettar fuori i passaggieri attraverso alle barricate, tra la folla dei curiosi, tra le balle di mercanzia e i mucchj di carbone; e farli poi scendere in laguna colle scale, o farli passare, come quelle sventurate guardie, pel tunnel sottomarino (§ 141). E in qual modo vi si potrebbero allora trascinare dalle rimesse della stazione le machine di ricambio? Metterle forse in gondola? E frattanto la squadra principale delle locomotive, stanziata in Venezia, verrebbe intercetta dalla circolazione. E tutto questo perché sarebbe «immensa e ruinosa spesa» (§133) quella di fare in capo al ponte lungo un’ultima piazza più grande di tutte. Chi vi ha detto che sia necessario darle proprio 70 mila metri di superficie? Chi vi ha detto di collocare proprio in quel luogo la manifattura delle locomotive ed altri simili inciampi? Perché non collocarle alla larga, nella stazione di Mestre, fuori delle fortezze e dei ponti levatoj? Chi vi ha detto che sia poi «bisogno d’uno sciame di barche grandi e piccole per tradurre i viaggiatori dalla stazione in isola a Venezia?» Poiché lo volete, fatevi pure un qualunque siasi ponte levatojo per le persone, e anche per le merci; ma ciò non porta che si debba frapporre sul passaggio necessario e continuo dei tráini quel perfido trabocchetto, che da mattina a sera può interrompere e confondere ogni cosa.
Noi ci siamo lagnati del cattivo impianto dell’Officio Tecnico; ci siamo lagnati che le scarse linee di livellazione non si erano connesse con alcuna cura, e soprattutto non si erano ribattute; e quindi non vi si poteva fare assegnamento. E in prova del fatto citavamo un grave errore, un salto di quattro e più metri, nel punto più controverso e importante di tutta la linea, cioè in quello della diramazione per Bergamo. Al fatto delle livellazioni non ribattute, il sig. Milani non risponde nulla, nemmeno una piccola mentita; ed era la colpa più grave, perchè colpa di massima, che toglie fede a tutta la livellazione, e quindi a tutti i calcoli di cubatura e di superficie e a tutti i sistemi di ponte. E se è vero che «gl’ingegneri possono commettere errori di livellazione senza per questo cessare d’essere dotti, abili, diligenti» (§ 363): noi diremo che non sono nè abili nè diligenti gl’ingegneri in capo che guidano con tanta incuria l’operazione più fondamentale, e che, mentre sprecano il tempo a citare a sproposito l’Inferno di Dante, «soffrono delle distrazioni, se si tratta di cose nojose e di numeri, come appunto è l’affare delle livellazioni» (§ 363.) Al fatto poi del salto di Treviglio egli, invece d’una mentita, fa un’umilissima ricevuta: «Nel ridurre in iscala piccola i profili di livellazione per poterli comprendere nella stampa delle tavole del progetto, si copiò sopra l’orizontale della diramazione di Bergamo, sa Dio perchè, 137,599 in luogo di 133,336, ch’è il numero giusto; e l’errore corso una volta, senza che nessuno se ne accorgesse, passò nelle tavole a stampa”. (§ 365.). E chi sa quanti altri simili errori saranno trascorsi, senza che nessuno se ne accorgesse, in 150 miglia di livellazioni non connesse nè ribattute, fra tante mani e con continui cangiamenti di persone; poichè, quando il capo non sa ciò che si comandi, se gli errori germogliano da ogni parte, non è quello il caso di piangere, e di dire sa Dio perchè!
E gli onesti ammiratori del sig. Milani non ci diranno che in buona fede valga il dire che «la posizione delle orizontali dai profili è un fatto arbitrario dipendente dalla volontà degl’ingegneri» (§ 363). Poichè l’ingegnere ha bensì l’arbitrio di scegliere piuttosto l’uno che l’altro punto, a cui riferire le altezze del suo profilo: piuttosto la soglia del Duomo di Milano, che quella di S. Antonio di Padova; ma quando, scelto il punto, dice, a cagion d’esempio, che la sua linea di livellazione comincia all’altezza di quattro metri sopra la soglia del Duomo di Milano, ciò debb’esser vero, assolutamente e precisamente vero. E se nello stesso foglio attribuisce a un medesimo punto due diverse altezze, questo non è atto d’arbitrio, ma prova d’imperizia; e quando ciò dipende da errore di massima, tutto l’edificio de’ suoi progetti si risolve in costoso fumo. In questo caso fu un milione gettato in mare.
L’intento principale della nostra Rivista era quello di ristabilir l’opinione per la strada rettilinea da Milano a Brescia, già da noi proposta nel 1836, adottata dalla Commissione fondatrice nel maggio 1837, assegnata da studiarsi all’ingegnere Milani nell’adunanza generale del 21 agosto di quell’anno 2, fatta livellare da lui alla meglio, e con un grande involucro d’errori ridotta a figura di Progetto nel 1838; e d’allora in poi chiamata, per travaso di proprietà, la linea Milani. Ma siccome egli, in forza d’un illegale e assurdo suo contratto, pretendeva d’avere avvinta l’esecuzione di questa non sua linea alla sua persona: e per esser egli alla fine entrato in gravi dissidj coi direttori, molti in Venezia non volevano più udir parola della linea retta, solamente perchè non volevano avvilupparsi di nuovo coll’ingegnere Milani: così, nel ristabilire il credito di questa linea, era d’uopo astergerne il suo nome, e mostrare che infine non poteva chiamarsi in buona fede la linea Milani. Non per questo si disse di chiamarla col nostro cognome, perchè non ci pascoliamo di vento; ma la chiamavamo la linea retta, la linea di Treviglio.
Egli non nega d’aver seguito le nostre vestigia: «Quando giunsi in Italia il 18 giugno 1837 trovai alcune non nuove ma buone idee sulla zona da percorrersi colla strada, sparse dal dott. Cattaneo» (§ 108), ma dice altrove che «non si era fatto che ripeter quello ch’erasi fatto poco prima per le strade di ferro del Belgio dai signori Simons e De Ridder» (§ 34).
Veramente il suo difensore sig. ingegnere Possenti non è dello stesso parere; poichè, chiamando il sistema rettilineo sistema degli assi, e il sistema bergamasco sistema dei lati, chiama il sistema belgico sistema dei raggi. In aspettazione che le diverse verità di questi matematici si pongano in concordia fra loro, e si dimostri l’identità dell’asse e del raggio, noi diremo al sig. Milani, che la linea del Belgio non «è identica» alla lombardo-véneta (§ 34). Questa infatti va dall’una all’altra capitale del regno, o, per dir altrimenti, va dalla primaria città terrestre al primo emporio marittimo, mentre la linea belgica lascia in disparte la capitale Brusselle, lascia in disparte l’emporio marittimo d’Anversa, e rimette a due bracci laterali la loro congiunzione in Malines. Nella linea belgica domina il principio dei livelli; nel nostro ha potuto, grazie a Dio, prevalere quello delle popolazioni; sulla gran linea belgica la città più grossa è Gand, che ha ottantottomila abitanti; mentre la nostra ha da un capo una città di cento, e dall’altra una di quasi duecento mila.
Il sig. Milani dice: «Posso dunque dir francamente, e lo dico, che quando giunsi in Italia, nel giugno 1837, non aveva punto bisogno, per concludere che la strada di ferro da Venezia a Milano doveva percorrere l’alta zona della pianura lombardo-veneta, non aveva bisogno di conoscere le per me vecchie cose che il dott. Cattaneo aveva stampate (§ 177)». Eppure un ingegnere padovano aveva concluso diversamente, e aveva proposto nel 1836 la linea solitaria; e l’ingegnere Carlo Possenti la compiange ancora nel 1841; e l’ingegnere Giuseppe Cusi, pochi giorni sono, ne assunse la Rivendicazione; e disse, perfino nei frontispizio ch’è la più breve, la più comoda, la meno dispendiosa e la più utile. Lascio dell’ingegnere Sarti, dell’ingegnere Pagnoncelli, dell’ingegnere Giovanni Cattaneo di Padova, che non vogliono nè la linea retta, nè la solitaria, ma bensì la curva per Bergamo; lascio gli altri che vogliono quella di Cremona e Mantova; perlochè il signor Milani non dica d’aver fatto così perchè non si potesse fare altrimenti.
Stabiliti i punti da noi proposti di Porta Tosa, Treviglio, Romano, Chiari, Brescia, Verona. Vicenza, Padova, e in grazia degli studj del Meduna, Mestre e la estremità N. O. di Venezia, il grande ed indefinito problema della linea, che andava vagando su tutto il piano da Bergamo fino a Cremona, si suddivise in nove minori problemi di soluzione affatto mecanica. Si trattava di andare da Porta Tosa a Treviglio; da Treviglio a Romano; da Romano a Chiari, e così via. Si provi ognuno a tirare sulla carta topografica un filo di seta che rada per disotto Treviglio e Chiari; raderà per disopra anche Romano collo stesso rettilineo; e per poco che s’inoltri da ambo i capi troverà il famoso rettilineo di sessantamila metri da Melzo al Mella. E allora il sig. Milani può scrivere nel bollettino 8 dicembre 1837, che la sua linea: «Corre retta sino a Rugolone, tra Vignate e Melzo, indi dritta dritta per sessantamila metri sino a Brescia” passando la Muzza e l’Adda ad un tratto sotto Trecella — il Serio in faccia a Romano — l’Ollio tra le case Mottella e Lama — ed il Mella sotto il borgo S. Giovanni (All. p. XLI)». Tutti questi passi dei fiumi vennero determinati dal filo di seta; non v’è il minimo dubbio; non si poteva altrimenti. Se il sig. Milani avesse cercato a piedi sul terreno i punti ove la Mòlgora, l’Adda, la Muzza, il Serio, l’Ollio, il Gandòvere, il Mella offrono entro una certa distanza il miglior passo attraverso alle loro valli, non era possibile che tutti questi sette punti messi sulla carta formassero un preciso rettilineo di sessantamila metri, quell’identico rettilineo del filo di seta che rade disopra o disotto Treviglio, Romano e Chiari. Bisognava che la natura, fin dal tempo dei paleoterj e dei plesiosauri, e l’arte, fin dal tempo degli Insubri e degli Etruschi, avessero predestinato i sette passaggi delle sette aque, in modo di costituire l’identica linea del filo di seta, dritta dritta per sessantamila metri da Melzo fino a Brescia. E quindi per valerci d’una nobil frase del sig. Milani, sono tutte «fandonie» quelle ch’egli ci narra, d’aver riconosciuto il corso di tutti i fiumi…… onde stabilire i migliori e più sicuri passi; d’aver riconosciuto tutto il terreno chiuso tra Bergamo, l’Adda e il Serio» (§ 182). Egli non ha riconosciuto altro corso che quello del filo di seta, nè altro terreno che quello della Carta dall’Instituto. E sono parimenti «fandonie», — quando inoltrandosi dice: «Scelsi la zona» (§ 183); e quando aggiunge: «Stabilite le zone, ritornai da capo ad uno studio più minuto del terreno, anche questo fatto a piedi, per determinare in ciascuna zona la lista di suolo, sulla quale ristringere lo studio particolareggiato» (§ 185). E sono «fandonie», per parlare com’egli parla, quando finalmente conclude: «Stabilita questa lista di suolo, tracciai in essa, e sulla Carta topografica del Regno Lombardo Veneto la linea che mi sembrò la più probabile… La ho tracciata, prima con alcuni fili di seta… per poterla far oscillare” (§ 186). Viva Dio, che siamo giunti al filo di seta; e tutto ciò che fu detto prima, e tutto ciò che si dirà poi, non è altro che un sacco di parole. «Segnata sulla carta (col filo di seta)... la tracciai sul terreno; e misi all’opera gl’ingegneri operatori ed assistenti, prescrivendo loro di rilevarmi una planimetria d’avviso di tutta la lista, ed esattamente poi almeno tre linee longitudinali di livellazione, cioè la linea tracciata e due, una ad ambo i lati di essa, e distanti da essa, di cento metri almeno… La vera linea della strada, la vera linea del progetto è per tutto compresa nella lista di suolo che io aveva determinato” (§187). Il che è quanto dire che la linea della livellazione Milani è sempre dentro al limite di cento metri di distanza dalla linea del filo di seta, ossia dalla linea additata dal dott. Cattaneo. E se alla distanza di mezzo tiro di fucile si fosse trovato un miglior passaggio, una minor pendenza, o un terreno più stabile, o qualunque altra cosa che potesse consigliarlo a divergere più di cento metri dal filo di seta, come, per esempio, l’unghia dei colli della Francia Curta, il sig. Ingegnere co’ suoi famosi studj non avrebbe potuto rilevarlo; e non lo ha rilevato. Cosi la livellazione non ebbe la minima parte nella scelta della linea, la quale per tutto compresa nella lista di suolo ch’egli aveva determinato prima di cominciare la livellazione. E così il 12 aprile 1838 egli scrisse d’officio alla Direzione; «La livellazione da Venezia a Milano è compiuta. La linea che ebbi l’onore di additare a codesta rispettabile Direzione nel rapporto inalzatole il 18 gennajo non mutasi punto» (§ 193). Viva dunque il filo di seta; il filo di seta aveva ragione! E il dott. Cattaneo era della precisa persuasione del sig. Milani quando scrisse nella sua Rivista: «Imposta al terreno una linea arbitraria, e non prodotta dallo studio dei livelli, si passò con ordine prepóstero a livellarla; e quest’unica linea di livellazione non venne tampoco ribattuta; e se si eccettui qualche tronco, che venne poi lievemente modificato e assoggettato perciò a nuova livellazione, questo è tutto lo studio vero del terreno che la società possiede oggidì».
Senonchè tutte queste osservazioni sull’imperizia del signor Milani vengono da lui ribattute col dire che le detta l’odio personale. Questa non è veramente un’objezione alle cose, ma solo alla firma che le accompagna; cancelli dunque la firma, e risponda.
Sinchè il dott. Cattanco si trovò nell’amministrazione non disse mai verbo contro il suo progetto; anzi vi con corse con molta sua fatica. Benché nel 1836 avesse già censurato negli Annali di Statistica il progetto Bruschetti, assistì, due anni dopo, all’approvazione del progetto Milani che ripeteva tutti gli stessi errori; eppure non disse parola, perchè in quel luogo ciò non lo riguardava. Nello stesso tempo però si rifiutava irremovibilmente di firmare l’illegale suo contratto, perchè questo era un affare che riguardava il suo officio.
La sua presenza nell’amministrazione era così lontana dal promovere le discordie tra il sig. Milani e i Direttori, ch’esse non si accesero se non due anni dopo la sua partenza, e solo perché non si erano seguiti i suoi consigli di conservare invariabilmente con lui a stretta legalità. Anzi il suo contegno era stato tale che, nel congresso medesimo in Verona, col § xi del protocollo 4 agosto, fu promosso da Secretario Referente ad Amministratore; e fu l’ultimo protocollo ch’egli firmò. «Onde attenersi scrupolosamente al disposto dello statuto, e per la perfetta uniformità fra le due sezioni, è preso che anche il secretario della sezione lombarda sarà d’ora in avanti qualificato come secretario dirigente l’amministrazione».
Ma nè queste cortesíe, nè la promessa d’onorario molto maggiore, rimossero il dott. Cattaneo dal proposito di non uscire dal limite della legalità e dello statuto sociale.
Quindi la sua protesta nella successiva seduta 8 agosto in Milano, la quale «indusse i direttori nella idea che avesse in mira di essere dimesso dalla mansione di secretario, il che essendo, sarebbe opportuno che ne facesse formale dichiarazione nel più breve termine possibile» come si legge nella loro lettera 9 agosto.
Il dott. Cattaneo rispondeva al presidente G. Porta:
«Ella sa che io mi sono sempre adoperato a ritenere i passi della Direzione sulla via della legalità, e ho sempre mirato a conservare la pienezza del suo potere e della sua legale influenza. Non v’è altra maniera di dissipare quei timori che pur troppo l’Autorità ci dimostra, e non affatto senza nostra colpa, e che, inceppando il progresso di tutte le Società, compromettono l’avvenire del nostro paese. Se il mio zelo e la mia schiettezza possono aver qualche volta ecceduto, non possono però avermi demeritata la stima e la fiducia dei direttori, perchè alla fine ho sempre operato nel senso del loro interesse e della loro considerazione. Tuttochè la mia situazione m’apporti spesso gravi dispiaceri, io non ho per questo momento alcuna intenzione di dimettermi da me, giacchè mi collocherei da me stesso nella dolorosa necessità di dare spiegazioni che farebbero consolazione ai nemici dell’impresa. Tutti sanno perché sono entrato; e il mio onore mi comanderebbe di fare che sapessero perché sarei uscito» (lettera 11 agosto).
I direttori rispondevano l’indomani:
«La sua lettera fa manifesto, ch’ella, ben lungi dal riconoscere che in forza dello statuto da lei invocato debb’essere subordinato alla Direzione, si arrogherebbe invece il diritto di opporsi a qualunque deliberazione della Direzione medesima, quando da lei non fosse assentita, e si ricuserebbe apporvi la sua segnatura, come se questa fosse necessaria per la validità dei nostri atti interni, e quasiché ella, non avente voce deliberativa, potesse essere responsabile delle deliberazioni della Direzione».
Si noti che i secretarj sono sempre responsabili della legalità delle forme; e che l’illegalità del contratto Milani non era un’asserzione del dott. Cattaneo, ma era attestata da due consulti legali del sig. avvocato Pietro Robecchi, consulente della Direzione; ed era riconosciuto dagli stessi direttori nel § 14 del citato protocollo 4 agosto di Verona.
La citata lettera del 12 agosto conchiudeva;
«Perlochè quando ella fra due giorni dalla data d’oggi non presenti alla Direzione un adequato, categorico e soddisfacente riscontro sopra tutti gli oggetti contenuti nella presente, la Direzione stessa suo malgrado si vedrà in necessità di dimetterla».
La lettera era scritta di pugno del sig. Antonio Carmagnola. e firmata anche dagli altri direttori Gaspare Porta, Paolo Battaglia, Giambattista Brambilla e Francesco Decio.
Diedi il 14 agosto una lunghissima nota categorica, come richiesto; e allora soltanto, e per la prima volta, e perché categoricamente eccitato, toccai brevemente il punto della capacità del sig. Milani e il deplorabile secreto del suo progetto, senza però entrare in particolari.
«A tutto questo si opporrà il brillante esito dei fatti studj; fatto registrato da noi medesimi nelle gazzette officiali; ai quale s’io volessi appor qualche nota, verrebbe attribuita a malignità, ad invidia e ad altre basse passioni. Dovrei dunque tacermi su questo punto; — benché io non sia veramente rimasto attónito che sei o settemila giornate d’ingegneri abbiano potuto produrre una cassa di mediocri disegni; — benché la spesa preventiva, compresi i dazj, sorpassi del 30 al 40 per 100 i nostri mezzi, salvo ciò che emergerà poi dal seno della laguna; — benché in parte ciò si debba allo stato incompleto degli studj tra Brescia e Verona, dove sulla distanza di 30 miglia si profonderanno quattordici milioni, ciò che non è necessario; — benché siamo caduti nell’errore di passare tra Desenzano e Mantova senza avvicinare nè l’una nè l’altra, schivando i luoghi più belli e popolati, per attraversare i più brutti e deserti; — benché il progetto non sia realmente completo, giacché gli manca tutta la parte delle stazioni e degli altri edificj; — benchè infine le migliori cose siano manifestamente prese da altri progetti, e i migliori disegni siano opera dei subalterni.
Mi arresto perché non è il mio proposito e perchè accenno solo quanto basta per far vedere che il sacrificio, che la Direzione sta per fare della sua autorità e della sua considerazione e della sua posizione legale, viene realmente fatto alla chimera d’un’eccellenza che non esiste».
La mattina 21 agosto il dott. Cattaneo scrisse al presidente:
«Rimangono alcune pendenze ec. ec. Siccome si tratta d’incarico di confidenza, amerei di poterlo ad ogni buon conto ultimare prima che la mia firma passasse ad altri… Ho veduto il sig. avvocato Robecchi, e ne ho sentito con dispiacere che la Sezione ha rinunciato alla conferenza, che saviamente aveva risoluto di tenere secolui. — Mi duole di veder questa bella impresa gettata per sempre fuori della rotaja della legalità, in balia della convenienza giornaliera. Dal lato mio ho fatto il mio dovere; e non me ne pento, quando considero che ad ogni modo chi si divide da me non potrà negarmi il testimonio della sua stima».
La sera del 21 agosto fu segnata la dimissione, che venne inviata il 22.
Nella risposta del dott. Cattaneo, del 23 si legge:
«Io mi fo dunque rispettosamente a protestare contro questo atto di dimissione, e dichiaro essere mio fermo proposito di sottomettere le difficoltà all’Autorità governativa incaricata della tutela e della vigilanza sulle Società Anonime, con questa mente, che, se essa Autorità Governativa mi autorizzerà particolarmente ad operare in contrarietà allo statuto, io, trovando cessata la causa d’illegalità da me allegata nelle sedute 4 corrente a Verona, e 8 corrente a Milano, potrò prestarmi a obedire agli ordini così legalizzati dei Direttori; in caso diverso mi comporterò in quel modo che mi verrà dalla superiore saviezza prescritto».
A questa mia minaccia non diedi poi corso; perché porto opinione che, quando si è fatto ciò che si deve, bisogna lasciar pensare a chi tocca; e questo in fine non era affare mio, o in quanto era affare mio non me ne importava più che tanto. Il Sig. Milani sa tuttociò; sa d’aver messo questa discordia, pel suo personale interesse, pel miserabile suo contratto.
Dunque i suoi fautori si vergognino di vedergli apporre alla prima pagina della Risposta la seguente nota:
«Il dott. Carlo Cattaneo fu secretario della sezione lombarda della strada di ferro da Venezia a Milano, dal settembre 1837 fino all’agosto 1838. La sezione lombarda dovette ringraziarlo, e nominare in sua vece il sig. Emilio Campi, per manifesta antipatía e disistima che aveva per l’ingegnere in capo Milani, come si raccoglie dal processo verbale N. 4 della seduta 21 agosto 1838 della sezione lombarda, così espresso:
Si radunarono nell’officio della strada ferrata da Venezia a Milano i sottoscritti direttori della sezione lombarda. Data nuovamente lettura di una pretesa nota d’officio indirizzata alla Direzione il 14 corrente dal sig. Carlo Cattaneo, della quale i direttori avevano già particolarmente preso conoscenza, e trovando che questa qualificata, ma non ammessa nota d’officio, non è che un aggregato d’erronei principj da esso adottati in conseguenza della manifesta antipatia e disistima che ha per l’ingegnere in capo sig. Milani ec.».
Rendiamo grazie al sig. Milani anche di questo allegato benchè non intero.
Del resto il publico omai potrà vedere che questo atto finale non corrisponde agli antecedenti; ed è ben naturale che i direttori non confessassero a protocollo l’illegalità del loro procedere. Quegli azionisti poi che s’intendono d’onore e d’onestà, vedranno che questo protocollo falso non dovrebbe rimanere negli atti della società. Ciò deve tuttavia importare più a loro che a noi; poichè se la disistima pel sig. ingegnere Milani è un infortunio, nel quale il dott. Carlo Cattaneo è caduto per il primo, oramai conta molti compagni di sventura; e può confortarsi.
Appare poi questa differenza tra le due persone, che il dott. Carlo Cattaneo dimostra per lo statuto e per il suo dovere quel medesimo grado di sollecitudine, che il sig. ingegnere Milani in tutti i suoi Allegati dimostra per il suo contratto, il suo vitto e il suo alloggio.
Note
- ↑ Decisione del Consiglio Aulico di guerra 3 maggio 1837, allegata dal sig. Milani a pag. 23 in nota.
Tutti i documenti del sig. Milani ci tornano preziosi, e perchè dimostrano l’esattezza di quanto avevamo detto, e perchè dimostrano ad evidenza o la sua perizia o la sua condotta. Il lettore ne rimarrà persuaso. - ↑ Vedi gli Atti officiali