Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXXVIII
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Mentana
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XXXVIII.
MENTANA.
Nelle prime ore pomeridiane del 1.° novembre 1867, una elegantissima «calêche» colle molle «alla Polignac», tirata da una bella pariglia di vivaci cavalli, col cocchiere ed il valletto in livrea, attraversava di buon trotto Piazza del Popolo ed imboccava la Porta. Vi era dentro una giovane signora vestita all’ultima moda, alla quale sedeva vicino un signore bruno su la quarantina, in cilindro ed elegantemente vestito. Era con la coppia signorile una bella ragazzina, essa pure in abiti eleganti. Porta del Popolo era presidiata, oltre che dalle guardie del Dazio, anche da soldati. Roma era tuttora come in stato di assedio. Il 30 ottobre erano entrati i Francesi. Se l’insurrezione era stata spezzata nella città pochi giorni avanti, le colonne garibaldine tenevano ancora la campagna non lunge da Roma; ed il Governo Papale stava all’erta. Ciò malgrado la signorile carrozza venne liberamente lasciata passare senza nemmen fermarla. E lo stesso avveniva a Ponte Molle che era, anche questo, guardato da un posto militare. Nessun sospetto, infatti, poteva a prima vista destar quella coppia, la quale avea tutta l’apparenza di sposi ricchi e felici che andasser, in quel luminoso pomeriggio di Ognissanti, a godersi una bella trottata fuori Porta. Ciò che era nelle signorili abitudini del tempo.
Il ricco equipaggio apparteneva a mia nipote Adele, figlia di mio fratello Filippo. Questa giovane donna era del mio stesso sentimento; e durante i tre anni della mia vita di cospiratore e di rivoluzionario in Roma mi avea, da vera romana, coraggiosamente e di assai buon cuore aiutato in molte occorrenze, senza badare a rischi. Ed, ora, si metteva ancora una volta a repentaglio per cavarmi di Roma a salvamento, sottraendomi alle unghie degli sbirri pontifici. Essa, in persona, mi accompagnava con la figliuoletta; essendo io, Nino Costa, il bruno signore azzimato che nella carrozza le sedevo accosto.
Imboccata la Via Cassia, risalimmo la riva destra del Tevere, che seguimmo fino ad un certo punto, dove mi ero assicurato il traghetto e dove mi attendeva una guida sicura. Quivi, congedatomi dalla nipote e dalla sua bambina, passai il Tevere andando a sbarcare in un punto tra la stazione di Monterotondo e quella di Passo Corese che era, allora, stazione di confine col Regno, recando meco una valigia piena di viveri che l’amorosa previdenza di mia nipote avea fatto preparare.
Addentratomi nella campagna verso la collina, trovai sul mio cammino un casolare ed al contadino che v’era chiesi notizie dei Garibaldini. Ed il buon uomo mi disse:
— Il Garibaldini furono qui ieri...
E poi, additandomi, sospiroso, il suo pollaio vuoto, aggiunse:
— Dove son passati Garibaldi con i suoi uomini non rimangono più polli!...
Argomentai subito che Garibaldi fosse salito a prender posizione a Monterotondo. E, per sentieri traversi, mi avvicinai a quella volta. Strada facendo venni a sapere che pattuglie di Zuavi Pontifici e di Francesi eran state ripetutamente viste in quelle vicinanze. Il che mi diede la certezza che il giorno dopo sarebbesi attaccato Garibaldi. E questo accrebbe la mia ansietà di presto raggiungerlo.
Arrivai a Monterotondo che già da un pezzetto s’era fatto buio. Nella casa Salvatori trovai lo Stato Maggiore di Garibaldi, tra cui Agostino Bertani e Giuseppe Guerzoni, che stavan cenando. Molto calorosamente accolto da tutti, mi venne fatto posto a tavola. Allora cavai fuori tutto il ben di Dio di cui mi avea provveduto mia nipote, tra l’altro un molto grosso rocchio di vitella arrosto assai festeggiato da tutti. E di invitato divenni anfitrione.
Mangiando detti agli amici le novità di Roma, dissi quanto avevo raccolto circa i Francesi di De Failly, giunti a Roma da due giorni; espressi la mia convinzione che questi con i Papalini avrebbero attaccato il giorno dopo; e, con molta insistenza, domandai di vedere al più presto il Generale. Questo alloggiava nel palazzo baronale dei Principi di Piombino ed era per andarsene a letto. Mi accolse con molta cordialità. E, prima ancora che io potessi profferire una sola parola, mi disse:
— Bravo Costa!... Vi riprendo nel mio Stato Maggiore, come nel ’49.
Io avvertii subito Garibaldi dell’imminente pericolo di essere attaccati il giorno dopo. Ed egli mi disse che al domani egli avrebbe lasciato Monterotondo con tutta la sua gente, per andare a Tivoli a congiungersi con la colonna di Giovanni Nicotera che già l’aveva occupata.
Non avevo potuto, alla prima, farmi intendere dal Generale.
Vivamente insistei sul gran rischio che correvamo, marciando in prossimità di Roma, di essere aggirati e tagliati fuori dai confini del Regno. Aggiunsi che il peggior nemico dell’Italia non era in quel momento a Roma, ma a Firenze. Conclusi con veemenza che, per non scemar le nostre forze in combattimenti di assai dubbio esito, dovevamo muover con tutta la nostra gente la notte stessa od alle prime luci dell’alba, prendere la montagna ed andar nel Regno a liberar l’Italia dal Governo dei Consorti, che l’avea disonorata l’anno prima ed ora l’avea tradita, come tradiva il Re.
A questa mia commossa invocazione, Garibaldi non rispose. Mi ficcò gli occhi negli occhi e ve li tenne a lungo. Dovetti averlo scosso. Perchè, poi, tacque per molto, assorto nei suoi pensieri.
Quanti hanno accostato Garibaldi, in quei giorni, possono attestare come egli giammai sia apparso più preoccupato, più vecchio quanto in questa campagna.
L’eroe non poteva esser sicuro dei suoi uomini. Non eran più gli uomini di Roma, di Sicilia, del Volturno. Nemmeno erano quali avea avuto l’anno prima nel Trentino. Frequenti eran le defezioni, molto il malcontento e l’indisciplina. Ho sentito dire, in seguito, che Garibaldi abbia attribuito le tante defezioni di quei tristi giorni a Mazzini. Ma la verità è che le fila dei Garibaldini, in quella campagna per Roma, erano composte di pugni di eroi frammisti a gentaglia, tra cui per numero primeggiava la schiuma toscana, massime fiorentina, che vi aveano addensata emissari della Consorteria. E, caduto Rattazzi, si trovava Garibaldi con simil gente, del tutto abbandonato dal Governo Nazionale. Quanti di quelle migliaia di uomini eran capaci dell’estremo sacrificio?
Ben pochi!...
Finalmente il Generale levò la bella testa e dolcemente mi disse:
— Vi sono grato.... io son più vecchio di voi.... poi i miei uomini mancano di tutto. Non son nemmeno calzati. Si devono distribuire scarpe...
lo mi volsi, allora, a Menotti che era sopraggiunto, insistendo che non andassimo incontro ad una sconfitta; che all’Italia non potevamo, ormai, dar Roma, ma liberar essa della funesta genia che la dominava ben lo potevamo!... Questo assai sorrideva a Menotti. Ma, anche con l’appoggio di questo ai miei disegni, il Generale non si rimosse.
Venne stabilito che le colonne si sarebbero messe in marcia la mattina seguente alle undici. Io, con un dei Carabinieri Genovesi del quale non ricordo il nome, di buon’ora le avrei precedute a Tivoli in carrozza a disporvi per viveri ed accantonamenti.
Dandomi la buona notte, Garibaldi mi disse di raggiungerlo, ai primi albori del domani, sulla cima della torre del palazzo. Io che le conoscevo, prima di partire per Tivoli, lo avrei informato circa le strade e le posizioni.
Passata, alla meglio, la notte in casa Salvatori fui preciso al ritrovo. Garibaldi, però, mi avea preceduto. Appena giunto sull’alta torre coperta, prima ancora che egli mi scorgesse, mi fermai colpito dalla bellezza del quadro che avevo dinanzi. Due magnifici, alti, butteri avvolti nel loro ampio pastrano nero, mi stavano davanti con le spalle volte al parapetto della torre appoggiati al loro «pungolo». Le lor solenni figure immobili parevano di bronzo e tagliavano sul cielo di color verdognolo striato d’oro, come è ad oriente alla primissima alba. Più in basso, tra grigiastri vapori, apparivano intensamente violacei i monti.
Garibaldi, col suo cappellino in capo, avvolto nel suo «poncio» argentino grigio chiaro, appoggiato ad un bastone si era fermato dinanzi ai due butteri. E, in quell’alba di un giorno di battaglia, io udii questo curioso dialogo. Diceva a quei butteri il Generale:
— O voi dalle lunghe barbe, sapete chi furono e che fecero i vostri antichi padri?
— No, Signoria!...
— Furono i Romani. Essi conquistarono il mondo e gli diedero le loro leggi....
— Sissignoria....
— Guardate come vi ha fatto il Governo dei preti.... Venite con noi a conquistarvi la libertà!...
Ed i due butteri in coro:
— Come vuole Vossignoria!...
A questo punto il Generale si accorse di me, che m’ero tenuto silenzioso in disparte; e mi venne incontro.
Quasi subito apparve dalle scale Don Ignazio Boncompagni Principe di Venosa — della famiglia proprietaria del palazzo in cui eravamo — il quale indossava una magnifica camicia rossa a ricami d’oro. Molti anni dopo, trovandomi ospite dei Venosa nella lor Villa di Albano, seppi che questa camicia garibaldina era dono gentile a Don Ignazio di colei che poi fu la compagna della sua vita; la quale l’avea lavorata con le sue mani, Le scale per salire alla torre eran piene di puzzolente sporcizia, lasciatavi dai Papalini che fino a pochi giorni innanzi, prima che Monterotondo fosse preso dai nostri, aveano occupato il palazzo. E fui sbalordito nell’udire Garibaldi dire al giovane patrizio:
— Principe, le vostre scale non odoran bene. Prendete una scopa e pulitele.
Il gentiluomo fece tanto d’occhi; ma non disse verbo e corse via a provvedere all’ordine ricevuto.
Soddisfatto Garibaldi, informandolo delle strade intorno a Monterotondo, mi affrettai a scender dall’alta torre premendomi di raggiunger presto Tivoli. Per il mio viaggio ebbi un carrozzone cardinalizio, tirato da due grossi cavalli neri dalle lunghe code. Ma partir subito non mi fu dato. Il genovese mio compagno era scomparso; venne con grandissimo ritardo, quand’io m’ero deciso a partir senza di lui. Sacramentava nella sua sorda e monotona cantilena ligure che avea dovuto cercar di che sfamarsi, essendo digiuno da ventiquattro ore; ma che Carlo Meyer Livornesi caduti a Mentana. non avea potuto trovare che un osso spolpato, che non sa- rebbe partito con la fame per compagna. lo lo condussi, al- lora, a casa Salvatori, ove nella mia valigia trovai di che sfa- marlo con qualche resto delle copiose mie provviste. Ed il genovese mangiava ancora, continuando a brontolare, quando potei cacciarlo in carrozza e via per la strada di Mentana.
S'era fatto tardi. Già qualche colonna di volontari era in marcia. La mattinata era serena e dolce. Quei giovanotti, lieti di aver cambiato le loro scarpe da passeggio, con le quali erano entrati in campagna e che si eran presto sfondate, con solide scarpe, procedevano allegramente vociando e cantando, con la pagnotta infilata nella baionetta. AI nostro passaggio si facevan ai lati della strada, motteggiando il nostro equipag- gio. A taluno dei volontari essendo saltato in mente di libe- rarsi del suo sacco, mettendolo sulla nostra carrozza, altri lo imitarono e subito di sacchi su questa ve ne fu un monte.
Oltrepassate di buon trotto le colonne in marcia, eravamo già prossimi a Mentana, presso Villa Santucci, quando ci ap- parve il capitano Carlo Mayer fermo su la strada, il quale ci disse che una sua pattuglia avea avvistato Papalini e Francesi che si avanzavano e che egli avea preso posizione, stendendo i suoi Carabinieri Livornesi. Ammoniva che la carrozza, in quel punto, avrebbe attirato il primo fuoco. Che bisognava avvisar subito Garibaldi dell’avvicinarsi del nemico. Io mandai subito il mio genovese, con la carrozza, indietro ordinandogli di far avanzare a passo di corsa i primi volontari che incontrasse e di annunciar a Garibaldi quanto accadeva.
Io rimasi; ed anzi, andai avanti con Mayer a rendermi conto delle mosse del nemico. Tornati indietro, vedemmo arrivare di corsa i primi volontari; erano alcune diecine di Romani e di Romagnoli. Ricordo ch'era con questi, lungo lungo e smilzo, il giovanissimo Galletti De Cadilhac, romano.
Garibaldi non stette molto ad arrivare.
Già eravamo alle prime fucilate. Ma fin da principio il combattimento, troppo ineguale, si annunciava disastroso. Il Generale fece mettere in batteria i due cannoni presi ai Papalini a Monterotondo. I nostri, man mano che arrivavano, erano schierati intorno a Mentana, cingendola dalla parte dove ora è il monumento commemorativo della battaglia ed allora v’erano alcuni grandi pagliai. Quivi stette Garibaldi.
I nemici, sparando, avanzavano. I nostri rispondevano, ma indietreggiavano; e qualcuno, pure, malgrado il gridare degli ufficiali già se la dava a gambe. Ad un certo momento, essendosi la linea nemica assai avvicinata, riuscimmo a radunar qualche centinaio di volontari. Ricordo, in questo momento, la lunga spettrale figura di Nicola Fabrizi con la gran barba bianca, avvolto in un svolazzante gabbano nero con un ampio cilindro in capo, gli occhi fiammeggianti, rotear concitato gridando la sua canna da passeggio, e Stefano Canzio tempestare con la rivoltella in pugno e Menotti, acceso in volto, brandente la sciabola... Ammassata una linea, la spingemmo avanti alla baionetta, spingendo con noi all’assalto le linee antistanti. I Papalini, sorpresi dal nostro impeto, indietreggiarono precipitosi in disordine. Ma, dopo non molto, riordinati e rinforzati, tornarono avanti. Così durammo tra varie alternative. Ma le fila dei nostri sempre più si assottigliavano ed il nostro fuoco si faceva più languido, quantunque ufficiali conducessero, quando a quando, gruppi di ritardatari o di sbandati a rinforzarle.
Ad un tratto, però, dalla parte dei nemici crepitò più frequente e più ritmica la fucileria e le palle grandinavano più fitte, abbattendo qualche volontario.
Erano i Francesi, con i lor tristamente famosi chassepots.... Fu un gran panico nella massa dei nostri; prima oscillò, poi rinforzandosi il fuoco dei Francesi, la massima parte dei volontari si sbandò.
Qual disgustoso spettacolo!... Ho tuttora negli occhi quegli sciaguratissimi che gettavano il fucile e se la davano a gambe, e negli orecchi il grido di quei fiorentinacci:
— Ai ònfini!... Ai ònfini!...
Pareva si fosser passati la parola per la fuga bestiale, ignominiosa!...
In quel momento io ero accanto a Garibaldi sull’alto presso i pagliai. Udii dire da lui:
— Vigliacchi!... Gli ho visti scappare a Bezzecca.... ma non come qui!...
E, poi, voltosi ai più vicini tra i fuggenti:
— Vil pecoreccio!... Mettetevi a sedere e vincerete!...
Ma non tutti scapparono.
Se a Mentana i più furono vili e si dettero alla fuga, i rimasti furono eroici. Tanto ostinati furono nella resistenza che, ad un certo momento della giornata, il comando nemico a Mentana chiamò rinforzi da Roma.
Poche centinaia a Mentana combatterono per migliaia. Se solo la metà dei Garibaldini del ’67 avessero avuto il core dei combattenti di Roma nel ’49, avremmo, in quella giornata, visto le spalle dei Francesi come le vedemmo il 30 aprile!
Gli onori della giornata spettano ai Livornesi di Carlo Meyer. Primi ad aprire il fuoco, furono essi a sparar gli ultimi colpi quando già annottava; ma dopo aver lasciato sul terreno parecchi morti ed esser quasi tutti feriti. Lo stesso Meyer cadde con una gamba spezzata, che solo la sua ostinatezza gli fece salva dall’amputazione da Bertani giudicata inevitabile.
L’abbandono di Mentana, per parte di Garibaldi e dei rimasti, fu ritirata non fuga. E ritirata nemmeno precipitosa. Io stesso potei recuperare la maestosa mia carrozza. Ed, a tutto mio agio, partito Garibaldi, io pure me ne andai, avendo meco Domenico Narratone. E me ne andai con tanta poca fretta che ci fermammo a dar l’ultimo saluto alla salma del conte Bolis, bellissimo giovine piemontese caduto combattendo, che si stava trasportando nella chiesuola che trovasi subito fuor di Mentana al principio della strada per Monterotondo. Prima di giungere a questo paese uno scarto dei cavalli fece ribaltare la nostra carrozza su un lato, e noi avemmo tutta Ia comodità di rialzarla, riparare i finimenti rotti, e riprendere tranquillamente il nostro cammino.
Tanto Mentana venne disputata dai nostri a Papalini e Francesi, che già era calata la notte, e dentro Mentana erano rimasti solo Bertani e la signora Yessie Mario con l’ambulanza ed un pugno di volontari; e quelli non aveano osato entrarvi.
Solo il giorno dopo vi entrarono, i nemici, che già era alto il sole e dopo una regolare capitolazione. Perchè Mentana non fu presa nè si arresero gli ultimi Garibaldini rimastivi; ma venne ceduta capitolando!