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lo mi volsi, allora, a Menotti che era sopraggiunto, insistendo che non andassimo incontro ad una sconfitta; che all’Italia non potevamo, ormai, dar Roma, ma liberar essa della funesta genia che la dominava ben lo potevamo!... Questo assai sorrideva a Menotti. Ma, anche con l’appoggio di questo ai miei disegni, il Generale non si rimosse.

Venne stabilito che le colonne si sarebbero messe in marcia la mattina seguente alle undici. Io, con un dei Carabinieri Genovesi del quale non ricordo il nome, di buon’ora le avrei precedute a Tivoli in carrozza a disporvi per viveri ed accantonamenti.

Dandomi la buona notte, Garibaldi mi disse di raggiungerlo, ai primi albori del domani, sulla cima della torre del palazzo. Io che le conoscevo, prima di partire per Tivoli, lo avrei informato circa le strade e le posizioni.


Passata, alla meglio, la notte in casa Salvatori fui preciso al ritrovo. Garibaldi, però, mi avea preceduto. Appena giunto sull’alta torre coperta, prima ancora che egli mi scorgesse, mi fermai colpito dalla bellezza del quadro che avevo dinanzi. Due magnifici, alti, butteri avvolti nel loro ampio pastrano nero, mi stavano davanti con le spalle volte al parapetto della torre appoggiati al loro «pungolo». Le lor solenni figure immobili parevano di bronzo e tagliavano sul cielo di color verdognolo striato d’oro, come è ad oriente alla primissima alba. Più in basso, tra grigiastri vapori, apparivano intensamente violacei i monti.

Garibaldi, col suo cappellino in capo, avvolto nel suo «poncio» argentino grigio chiaro, appoggiato ad un bastone si era fermato dinanzi ai due butteri. E, in quell’alba di un giorno di battaglia, io udii questo curioso dialogo. Diceva a quei butteri il Generale:

— O voi dalle lunghe barbe, sapete chi furono e che fecero i vostri antichi padri?

— No, Signoria!...