Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXXIX

Capitolo XXXIX
Con Garibaldi verso Firenze

../Capitolo XXXVIII ../Capitolo XL IncludiIntestazione 25 febbraio 2021 75% Da definire

Capitolo XXXVIII Capitolo XL

[p. 212 modifica]

XXXIX.

CON GARIBALDI VERSO FIRENZE.


Da Mentana, tornando sui nostri passi, fummo a Monterotondo; e da qui, in breve scendemmo a Passo Corese, stazione di confine, in territorio del Regno, della strada ferrata.

Lungo la strada attraversammo torme di volontari, non più come al mattino rumorosi e allegri; quali bene ordinati sotto il comando dei lor ufficiali con il fucile al braccio; quali sbandati e fuggiaschi senza armi. A centinaia vedemmo, lungo la strada, fucili buttati via da coloro che la paura avea resi forsennati.

Tutti i volontari si dirigevano a Passo Corese, dove era un forte distaccamento di soldati italiani regolari, fra cui mi pare dei Granatieri. Quivi giunti i volontari dormirono all’adiaccio su per i prati. Il giorno di poi, deposte le armi, venner disciolti ed avviati in treno su Terni.

Prima di giungere a Passo Corese raggiungemmo Garibaldi ed il suo Stato Maggiore. Io credetti dovere di riprendere in [p. 213 modifica]questo il mio posto, di non lasciare il Generale, non potendo saper quel che sarebbe accaduto.

A Passo Corese venne Crispi, inviato dal «Centro di Emigrazione» con l’incarico di adoprarsi presso Garibaldi per indurlo a desistere da ogni ulteriore tentativo. Egli non fu certo da tutti, tra noi, bene accolto. Troppi di noi sentivamo per i deputati che facean parte del «Centro di Emigrazione», un invincibile rancore; sembrandoci che essi, per quanto provenienti dal nostro campo rivoluzionario, di questo entrando in Parlamento avesser perduto ogni spirito; e, così, non avessero dato alla nostra impresa tutto quanto il concorso che avrebber, volendo, potuto darle.

Formato un minuscolo treno di una locomotiva e due carri vi prendemmo posto, con Garibaldi, noi dello Stato Maggiore e Crispi. Lento il treno procedette verso Firenze. Lungo la linea, occupata militarmente, i soldati italiani apparivano ingiuriosa minaccia all’eroe nazionale, all’Uomo che più di ogni altro aveva operato per ricostituire l’Italia a libera nazione. È ben vero che alle stazioni, dietro le linee dei soldati che circondavano il piccolo treno, v’era sempre folla di cittadini acclamanti. Ciò non valeva a scuotere il Generale. Esso da quando, a Mentana, avea dovuto decidersi ad ordinar la ritirata si era chiuso in un assoluto, tetro silenzio, a tutti noi estremamente penoso, pensando a quanta amarezza dovesse pienare quel grandissimo cuore. Nessuno dei più intimi suoi mai lo aveva veduto così.


Quando giungemmo alla stazione di Figline, un grosso distaccamento di Bersaglieri circondò il nostro piccolo treno. Si accostò al compartimento in cui eravamo col Generale il colonnello Camozzi e gli comunicò ch’egli avea dal Governo ordine di arrestarlo.

A questo, quanti eravamo con Garibaldi mettemmo mano alle armi. Ma Garibaldi, con un gesto e più col suo sguardo magnetico, ci fermò, aggiungendo che non si dovea versare [p. 214 modifica]sangue italiano; e che il valoroso colonnello eseguiva un ordine.

Voltosi, poi, al Camozzi, che pallido gli stava dinanzi, vigorosamente protestò che non intendeva riconoscer l’ordine di arresto che egli qualificava illegale, avendo egli agito fuori del territorio del Regno; e perchè, non appena oltrepassati i confini di questo, aveva fatto deporre le armi ai suoi volontari.

Anche Crispi aggiunse una sua vana protesta.

E Garibaldi sempre ricusando di muoversi di sua propria volontà, dichiarando che avrebbe ceduto solo alla violenza, venne preso su di una sedia da quattro Carabinieri e, separato da noi, messo in altra carrozza prigioniero.

Crispi dettò una specie di verbale di quanto era accaduto, che noi tutti firmammo. Pochi giorni dopo questo documento veniva pubblicato nel giornale «La Riforma».


Così ebbe termine l’insurrezione e la campagna che Italiani aveano impresa per restituire all’Italia la sua Roma. Misera fine di un luminoso sogno. Non vani, però, i sacrifici ed il sangue.

Se nel ’49 il fior della gioventù italiana, venuta da ogni parte della penisola, a combattere e morire alle mura di Roma, avea sacrata l’unità d’Italia; il sangue versato nel’67 a Roma, a Villa Glori, a Monterotondo, a Mentana ineluttabilmente consacrava l’Eterna Città Capitale della risorta Italia.

«Il gran problema è risoluto!...» furono l’estreme parole di Enrico Cairoli morente sotto il mandorlo di Villa Glori. Senza questo sangue, nel 1870, coloro che reggevano allora i destini d’Italia avrebbero mandato l’Esercito, invece che a liberar Roma, a difender la Francia di Napoleone III.