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Vivamente insistei sul gran rischio che correvamo, marciando in prossimità di Roma, di essere aggirati e tagliati fuori dai confini del Regno. Aggiunsi che il peggior nemico dell’Italia non era in quel momento a Roma, ma a Firenze. Conclusi con veemenza che, per non scemar le nostre forze in combattimenti di assai dubbio esito, dovevamo muover con tutta la nostra gente la notte stessa od alle prime luci dell’alba, prendere la montagna ed andar nel Regno a liberar l’Italia dal Governo dei Consorti, che l’avea disonorata l’anno prima ed ora l’avea tradita, come tradiva il Re.
A questa mia commossa invocazione, Garibaldi non rispose. Mi ficcò gli occhi negli occhi e ve li tenne a lungo. Dovetti averlo scosso. Perchè, poi, tacque per molto, assorto nei suoi pensieri.
Quanti hanno accostato Garibaldi, in quei giorni, possono attestare come egli giammai sia apparso più preoccupato, più vecchio quanto in questa campagna.
L’eroe non poteva esser sicuro dei suoi uomini. Non eran più gli uomini di Roma, di Sicilia, del Volturno. Nemmeno erano quali avea avuto l’anno prima nel Trentino. Frequenti eran le defezioni, molto il malcontento e l’indisciplina. Ho sentito dire, in seguito, che Garibaldi abbia attribuito le tante defezioni di quei tristi giorni a Mazzini. Ma la verità è che le fila dei Garibaldini, in quella campagna per Roma, erano composte di pugni di eroi frammisti a gentaglia, tra cui per numero primeggiava la schiuma toscana, massime fiorentina, che vi aveano addensata emissari della Consorteria. E, caduto Rattazzi, si trovava Garibaldi con simil gente, del tutto abbandonato dal Governo Nazionale. Quanti di quelle migliaia di uomini eran capaci dell’estremo sacrificio?
Ben pochi!...
Finalmente il Generale levò la bella testa e dolcemente mi disse:
— Vi sono grato.... io son più vecchio di voi.... poi i miei uomini mancano di tutto. Non son nemmeno calzati. Si devono distribuire scarpe...