Poesie milanesi (1891)/Cenni intorno a Carlo Porta e Tomaso Grossi
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CENNI
INTORNO A
Carlo Porta e Tommaso Grossi
Nacque il Porta in Milano il 15 agosto del 17761 dalla signora Violante Guttieri, e dal signor Giuseppe Porta.
Attese a’ primi studî nel collegio de’ Gesuiti di Monza, quindi passò a studiare filosofia nel Seminario di Milano.
Dopo varî anni d’ozio giovanile intraprese la carriera degli impieghi, che fu sempre percorsa da lui con intelligenza somma, e somma illibatezza: negli ultimi anni della sua vita sostenne la carica di Cassiere generale del Monte dello Stato.
Fu ammogliato colla signora Vincenza Prevosti, vedova del signor Raffaele Aranco, dalla quale ebbe tre figli.
Nella sua gioventù fu membro della Società del teatro detto in allora Patriotica, società di dilettanti istituita per far fiorire in Italia il vero gusto del teatro.
All’epoca in cui i Francesi occuparono la Lombardia, fu mandato dal padre a Venezia, dove fece la conoscenza di alcuni coltivatori di quel dialetto, ed ebbe occasione frequente di ascoltare varie poesie vernacole. Ivi fu che per la prima volta sentissi bollire fortemente in seno il desiderio di far versi; ne scrisse di fatto alcuni in veneziano sopra argomenti festevoli, ma non furono da lui conservati; egli soleva dire che non valevano la pena di esserlo. Restituitosi in patria, la lettura del Balestrieri lo determinò a darsi al dialetto proprio. I primi suoi tentativi in questo genere furono due almanacchi, ch’egli pubblicò colle stampe; ma essendo stato fieramente e scurrilmente satirizzato in un altro almanacco scritto pure in dialetto, e credo da un parrucchiere — almanacco il quale, quantunque privo affatto d’ogni merito, godeva però a quei tempi qualche favore a motivo dello sfacciato e plateale ardimento con cui era scritto, — il Porta si indispettì talmente, che depose il pensiero d’esser poeta, e stette molti anni fermo nel proponimento che aveva fatto di non prendere mai più la penna per scrivere un verso; ed ecco come le goffe e petulanti contumelie d’un ciarlatano pervengono qualche volta a soffocare il genio e a stornarlo dalla sua via. Ma il Porta, dopo un lungo silenzio, non potè più resistere all’impulso della sua natura, e si lasciò andare di nuovo a scrivere di quando in quando alcuni componimenti burleschi sopra argomenti vari, per lo più offerti dai casi della giornata; componimenti che venivano letti avidamente fra le brigate, e mostravano già in lui un grandissimo talento comico, una ricchezza non ordinaria d’invenzione, e sarebbero anche al giorno d’oggi reputati bellissimi, se il loro stesso autore non ci avesse resi troppo esigenti con quelli che ci regalò negli ultimi dieci o dodici anni della sua vita, mostrandoci egli medesimo quanta strada gli restasse ancora a percorrere per giungere a quell’altezza alla quale in seguito pervenne.
Il primo lavoro che gli abbia acquistata celebrità durevole, levando rumore grandissimo nonchè in Milano, ma in ogni luogo ove il vernacolo milanese è inteso, fu quello intitolato: Desgrazi de Giovannin Bongee. Ove si possa far tacere quel senso morale doloroso che nasce in veder fatto soggetto di riso un connazionale insultato e vilipeso a torto dallo straniero prepotente, questo lavoro è tale per la eleganza dello stile, per pittura fedelissima del vero, per la ricchezza del comico da cui è dominato da capo a fondo, che merita certamente il favore di cui ha goduto, e gli elogi coi quali viene anche oggidì rammentato.
Molte altre poesie, crescenti quasi sempre in merito, cosicchè l’ultima per lo più superava le altre per la facilità della dizione, e per l’importanza massimamente dell’argomento trattato, il Porta venne scrivendo fino agli ultimi giorni della sua vita. Non dissimuleremo che fra queste se ne incontrano alcune nelle quali è certamente riprovevole il sacrificio d’una urbana e morale decenza fatta dall’Autore alla prepotenza del suo genio, che correva in traccia del comico in ogni situazione della vita, in ogni classe di persone; e tanto più di buon grado c’induciamo a fare questa confessione, in quanto che ci vien così dato di poter rendere testimonianza del sincero cordoglio che provò lo stesso Autore, di questo che egli chiamava suo traviamento,e del desiderio più volte da lui manifestato ai suoi amici di distruggere, ove gli fosse stato possibile, ogni suo componimento riprovato dal decoro.
Non però ci porremo dal lato di quegli schizzinosi, siano essi di buona o di mala fede, che sono tanto facili a gridare alla bestemmia, e vorrebbero proscrivere come scandalose tutte le poesie del Porta, nelle quali si rivelano e si presentano all’indignazione ed alle risa del pubblico i vizi, e i ridicoli usi, e le sciocche opinioni di alcune classi, quantunque distinte nella società.
Non facendo parola che dei preti, sui quali il Porta esercitò spesse volte la possente arma del ridicolo, noi protestando il massimo rispetto alla dignità del ministero sacerdotale, come pure allo zelo, alla purità, ai lumi di molti fra quelli che in esso s’adoperano, domanderemo ad ogni amico della religione, se sia vero, o no, che molti fra i preti giustificano colla loro condotta le più veementi imputazioni; se la bassezza del cuore, l’ignoranza, l’avarizia pretesca; se la scandalosa e turpe indecenza nell’adempiere alle più auguste cerimonie, ai riti venerandi della Chiesa, siano esagerate invenzioni del Porta, o fatti sgraziatamente manifesti. E dove gli abusi e i vizi esistono, non è egli ufficio nobile, santo, quello di screditarli, di farli segno alla pubblica abbominazione? E colui che opera per tal modo non serve egli a menomare, se non a togliere del tutto, i vizî che dipinge? Sono satire, si dice: e che per ciò? Quando la satira non è della persona, ma del vizio, è ella forse cattiva? Badate che verreste a condannare come autori di satire i più rispettabili moralisti, che le satire le più eloquenti e le più ardite in questo genere sono state fatte da dotti uomini, dagli stessi Padri della Chiesa.
Non ci tratterremo a discorrere del merito poetico di questo scrittore: la perfezione quasi continua dello stile, la ricchezza inesauribile delle immagini sempre variate, sempre nuove, la coppia e la vivacità dei quadri, quell’acume d’osservazione, quella finezza di satira, quella natura viva, moventesi e parlante ch’ei pone continuamente sotto gli occhi del lettore; quella semplicità nella invenzione, quella chiarezza nello sviluppo, quell’importanza dello verità luminose recate al livello del popolo, sono pur meriti eminentissimi. Nè dubitiamo asserire, che la fama di cui egli godette vivendo, quantunque grande ed estesa molto, per uno scrittore che si valse d’un dialetto difficilmente inteso fuor di Lombardia, è stata ciò nullameno inferiore d’assai al suo vero merito. Perocchè la maggior parte dei lettori suol essere troppo proclive a negare a lavori, i quali non pajon fatti che per eccitare le risa, quel grado d’importanza reale, di assoluta bellezza poetica, che pure hanno in sì gran copia le poesie del Porta.
Tutti coloro i quali, non avendo conosciuto il nostro poeta personalmente, leggeranno i suoi componimenti, e dall’indole di quelli, come è solito farsi, trarranno argomento per giudicare del morale complesso delle qualità dell’animo dell’Autore, correranno sicuramente rischio di portare un giudizio non corrispondente al vero.
Domina in tutti gli scritti del Porta un carattere festivo e brillante, una vivacità, un’allegria che scoppia, per dir così, da ogni parte; scorgi in essi una cert’aria di sicurezza avventata, un certo che di sprezzante, una non so qual tendenza mordace a veder tutto dal lato ridicolo, che ti farebbe quasi temere la sua presenza, come quella d’un acuto e rigoroso scrutatore, come quella d’un uomo che ti osservi per afferrare rapidamente tutti i punti che possano in te dar presa al ridicolo, per fare uno studio dal vero, ed arricchire d’un nuovo ritratto la sua galleria.
Quanta però fosse la bontà non solo, ma la candidezza mirabile, e la semplicità dell’animo del Porta, e quanto fosse egli lontano dall’avere quel carattere d’alterigia, di scherno, che i suoi scritti ponno far sospettare, tutti quelli che l’hanno conosciuto nelle sociali relazioni, e più di tutti gli amici intimi del suo cuore, lo ponno testificare. Che anzi un’eccessiva modestia gli faceva spesso stimare oltre il giusto il merito altrui. Facile lodatore delle cose non sue anche mediocri, facilmente entusiasta, se le trovava qualche poco più che mediocri, era poi ingiustamente severo colle proprie. Non potendo dissimulare a sè stesso la sua bravura nel far versi milanesi (il pubblico glielo avea detto e replicato tante volte), giudicava così basso questo merito, che facilmente inchinava a credere superiori a lui molti mediocri Autori di prose e di versi italiani.
Quello che v’ha di più osservabile in uno scrittore tanto ameno e lepido, si è ch’egli era per abitudine propenso, nella conversazione intima, alle idee gravi e malinconiche2. Portato per impeto di natura alla compassione, assaporava le più segrete delizie di questo divino sentimento anche nelle finzioni dell’arte, e togliendosi spesso cogli occhi bagnati di lagrime dalla lettura dell’Eloisa di Rousseau, o della Delfina di madama di Staël, metteva mano ad una strofa del Marchionn e della Nomina del Cappellân.
La breve vita di questo nostro poeta fu travagliata da dolori di podagra. Ne ebbe un primo insulto a diciassette anni, e continuò almeno una volta ogni anno ad esserne tormentato fieramente sino agli ultimi tempi del viver suo.
«Dopo una dolorosa malattia, che si credette prodotta dall’umore gottoso ch’erasi gettato sugli intestini, morì rassegnato e confidente in Dio la mattina del 5 gennajo 1821. Una folla di dolenti assistette alle sue esequie, e lo accompagnò al sepolcro.»
Così Tomaso Grossi scriveva di colui che ei soleva chiamare il suo migliore amico, di cui fu ammiratore ed emulo, sì che talvolta le sue poesie andarono confuse con quelle del sommo poeta, e alcune forse che vengono attribuite al Porta, debbonsi infatti alla feconda vena del Grossi.
Anche il Grossi trovò un degno encomiatore nell’Azeglio, e noi riferiremo le parole di quel grande a cui nessuno senza ridicola presunzione potrebbe sostituire le proprie.
«Due parole del Grossi, amico raro e della cui perdita nessuno de’ suoi ha potuto mai darsi pace, ed io meno degli altri. Delle sue opere, del suo merito letterario non parlo. Le prime sono conosciute, il secondo è classificato come merita e nulla ormai lo può oscurare. Ma dell’uomo parlerò, che valeva assai più de’ suoi versi, per quanto eccellenti. Tomaso Grossi era di Bellano, bello e grosso borgo in riva al Lario, allo sbocco della Valsassina. Nasceva di gente onesta ma povera il 30 gennajo 1791.
«Un suo zio curato di Treviglio, giansenista della scuola del Tamburini, prese pensiero di lui, lo mantenne a Milano alle scuole, poi a Padova.
«All’Università cominciò ad aprirsegli la vena poetica, ma nel modo come s’apre ai valent’uomini anco nell’adolescenza.
«Non so a quale età precisamente fu messo nel collegio degli Oblati vicino a Lecco. Educazione rozza, quasi brutale, di poco latino e meno pietanze, non senza picchiate come codice disciplinare; tanto che il carattere di Grossi, ardito ed irruente, s’era inasprito ed era sempre ad azzuffarsi coi compagni. Ma siccome era mingherlino, ed aveva più cuore che polso, non si può credere quante ne prese. Il suo cranio era una cosa incredibile! Le cicatrici e le tacche una toccava l’altra. Alla fine, non potendo più soffrire questi Oblati, che per tutta la vita non potè più ammettere all’amnistia, un giorno scappò calandosi da un muro d’accordo con un compagno, e non si seppe più nuove di loro per un pezzo, finchè li ripescarono a Magenta.»
Chiuderemo i pochi cenni d’Azeglio, che la morte rese incompiuti, con quanto espone il Cantù.
«Noi soli potremmo dire quanto al Grossi convenisse quel titolo che sempre più si rende raro, il titolo di buono. Buono nelle cure di padre e di marito; buono cogli amici, che, tali divenuti una volta, il furono sempre; buono coi contadini, che ripetevano: «Non troveremo più un tal padrone;» fino i concittadini, ultimi a riconoscerne il merito, parevano dimenticare il bello scrittore, per dire com’egli neppur dagli amici si lasciò trascinare in brighe e consorterie.
«Allegro, compagnevole e all’occorrenza riflessivo e confortante, sereno in quelle procelle che abbuiano lo sguardo di molti, semplice di gusti, con eguale interesse s’applicava ad una partita di caccia, o a correggere il dovere dei suoi bambini, o alla cura dei bachi da seta, alla lunga conversazione de’ suoi amici, all’assiduità della casa, dalla quale se si staccava un giorno parevagli un secolo, tanti erano gli addio, tanto il bisogno di tornar presto a quelle ineffabili dolcezze, che nella famiglia Iddio concede a’ suoi eletti. Povero Tomaso! la vista della patria tua (Bellano) mi richiama quella fronte equabilmente aperta e serena; quella sapienza velata da tanta modestia, quella soavità inseparabile anche dai momenti più solenni; ma la tua memoria vive con venerazione nei nostri cuori, o buon Tomaso, e possa servirci di esempio, di conforto ove sì pochi se n’hanno e di tanti si avrebbe bisogno!»
Alla gloria ed anche alle tribolazioni del poeta e del letterato, Grossi, come buon padre di famiglia, pensò di sostituire gli utili del notariato.
Nel 1848 rogò l’atto di fusione colla Lombardia.
Le sue occupazioni notarili noi rapirono però totalmente alle lettere, e lo provò il suo Marco Visconti, romanzo celebratissimo.
Il Grossi morì in Milano il 10 dicembre 1853.
Nel 1862, in Milano, si è alzata una statua in mezzo ai nuovi Giardini Pubblici al Porta, e nel 1866 una nuova via fu dedicata al suo nome, al più grande e popolare poeta!
Una statua colossale fu pure innalzata alla memoria del Grossi nel cortile di Brera ed una nuova via in Milano gli fu dedicata. A Bellano gli fa eretto un monumento.
Note
- ↑ Egli ne fa menzione in un sonetto, di cui non abbiamo trovato che due quadernali, che sono questi:
Sont nassun sott a Sant Bartolamee
In del mila sett cent settanta ses,
A mezz dì del dì quindes de quell més
Ch’el só el riva a quell punt ch’el volta indree:
Per quell che soo de Isepp el carroccee,
Ch’el gavarà i sò settant’ann bon pés
Fina el Pà del Messee del mè Messee
L’eva anch lù come mì bon Milanes. - ↑ Ho trovato ne’ suoi manoscritti i quattro versi che riporto in questa nota, i quali mi sembrano di una bellezza squisita, e servono a rendere testimonianza della tendenza ch’egli aveva nella vita a rivolgersi sopra sè medesimo, ed a considerare nell’uomo il lato serio ed importante. In alcuno dei frammenti, che pubblichiamo, si scorgerà meglio la verità di questa nostra asserzione.
Ecco i quattro versi:Religïon santa di mee vicc de cà.
Che in mezz ai tribuleri di passion
No te fet olter che tiratt in là
In fond del cœur, scrusciada in d’on canton...Che verità, che delicatezza in questi ultimi due versi!