Il raccontafiabe/Piuma d'oro
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PIUMA-D'-ORO
era una volta un Re e una Regina che avevano una figlia bella quanto la luna e quanto il sole; tanto frugola però, che facendo il chiasso, metteva sossopra tutto il palazzo reale; capricciosa e bizzosa poi quanto può essere una bambina che i genitori non sgridavano mai. Più grosse le faceva e più questi ne ridevano:
— Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina! —
Ma un giorno piansero, e come! della loro eccessiva benevolenza.
Il Re stava per andare a caccia; al portone del palazzo trovò una vecchierella cenciosa, ricurva, che si appoggiava a un bastone per reggersi.
— Che volete, buona donna?
— Cerco del Re.
— Il Re sono io. —
La vecchia gli fece una bella riverenza e gli porse una lettera:
— È del Re di Spagna. —
Il Re di Spagna pregava d’alloggiarla per una notte nel palazzo reale, come se fosse stata la sua stessa persona:
— Non le domandate nè donde venga nè dove vada; non vi pentirete d’averle usata cortesia. —
Il Re credette che fosse uno scherzo, e diè ordine che le preparassero una stanzina in soffitta e la mettessero a tavola coi servitori.
— Grazie, Maestà, — disse la vecchia.
E andò a rannicchiarsi in soffitta.
A tavola, coi servitori, mangiava zitta zitta in un canto, quand’ecco quella frugolina della Reginotta che le versa la saliera e la pepaiuola nella minestra:
— Sentirete che sapore! —
E tutti i servitori a ridere:
— Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina! —
La vecchia non fiatò, e mangiò la minestra come se niente fosse stato.
Il Re e la Regina saputa la cosa, si messero a ridere anche loro:
— Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina! —
La vecchia, levatasi da tavola, cercava il bastone e non lo trovava. Guarda nel camino e vede che il bastone era già mezzo arso dal fuoco; e la Reginotta, contorcendosi dalle risa, le diceva:
— È ben caldo; vi servirà meglio. —
E tutti i servitori a ridere:
— Ah, ah, che frugolina! Ah, ah, che frugolina! —
La vecchia trasse il bastone dal fuoco, e uscì di cucina appoggiandosi, come se niente fosse stato.
Il Re e la Regina, saputa la cosa, si messero a ridere anche loro.
La mattina dopo, nel punto d’andar via, la vecchia trovò sul pianerottolo la Reginotta che l’aspettava:
— Vecchina, donde venite e dove andate? Vecchina, che ricordo mi lasciate?
E colei rispose brontolando:
— Dove vado e donde vengo,
C’è la pioggia e soffia il vento.
Tu col vento ci verrai,
Con la pioggia te n’andrai. —
La toccò col bastone, scese le scale e sparì.
Da quel giorno, la Reginotta cominciò a scemare di peso. Non dimagrava, non diventava brutta, aveva la giusta crescenza, ma da un mese all’altro si sentiva sempre più leggiera. Arrivata a diciotto anni, all’apparenza era una ragazza bella, bianca di carnagione, con un mucchio di capelli d’oro, ma pesava meno d’una piuma e il più lieve soffio la portava via.
Figuratevi la disperazione del Re e della Regina.
Bisognava tener chiuse tutte le finestre del palazzo reale; non potevano condurla fuori per paura che il vento non la trasportasse chi sa dove. E siccome la poverina a star rinchiusa s’annoiava, e il Re e la Regina non volevano che la gente sapesse la disgrazia della loro figliuola, così per svagarla passavano le giornate a soffiarle attorno e a farla volare pei corridoi e per gli stanzoni del palazzo.
Ella si divertiva immensamente a sentirsi sballottare per aria, e gridava:
— Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! —
Il Re e la Regina ci rimettevano i polmoni per farla andare in alto. Ma più alto ella saliva, e più forte gridava:
— Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! —
Re e Regina non potevano mica stare tutto il santo giorno a fare da soffietto; e la Reginotta s’imbronciava e piangeva. Vedendola piangere, i poveri genitori tornavano subito a soffiare, il Re da una parte e la Regina dall’altra; e lei, riprendendo subito il buon umore, batteva le mani:
— Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! —
La facevano montare fino al soffitto, le correvano dietro per i corridoi, soffiando, soffiando, soffiando per farla stare allegra, poichè quella povera figliuola non poteva avere altro svago; e quando si riposavano, ansimanti dall’aver soffiato troppo, Re e Regina si lamentavano:
— Figlia disgraziata, chi ti ha fatto questa malìa? —
Una volta, a tali parole, la Reginotta si rammentò della risposta della vecchia, e disse:
— È stata quella vecchia! —
— Come mai? —
— Mi rispose:
— Dove vado e donde vengo,
C’è la pioggia e soffia il vento.
Tu col vento ci verrai,
Con la pioggia te n’andrai. —
Se avesse potuto rintracciare la vecchia, il Re le avrebbe dato un tesoro per disfare la malìa. Ma chi sa dove lucevano gli occhi di quella Strega?
E Re e Regina continuarono a soffiare e a spingere in alto Piuma‐d’— oro, come chiamavano la figliuola perchè era bionda e i suoi capelli parevano d’oro filato. Piuma‐d’— oro oramai pensava soltanto a divertirsi a quel modo. Man giava di buon appetito, cresceva di corporatura, diventava anche più bella; il suo peso però era talmente scemato, che una piuma vera sarebbe parsa di piombo al paragone. Bastava quasi un alito per farla salire in alto; pure non si contentava mai, se il Re e la Regina non soffiavano forte:
— Soffiate, Maestà! Ancora, Maestà! —
Re e Regina non reggevano più. Dopo due anni di questo lavoro, s’accorsero che, a furia di soffiare, cominciava ad allungarglisi il muso; e Piuma‐d’— oro intanto diventava più esigente, voleva spassarsela sempre per aria. Non aveva altro svago, in verità; ma i genitori potevano stare eternamente a soffiare? E quand’essi sarebbero morti, chi avrebbe avuto la pazienza di continuare? Non si davano pace.
Intanto si era sparsa pel mondo la fama della bellezza della Reginotta; il Re di Portogallo mandò a richiederla pel Reuccio che doveva prendere moglie.
Grande imbarazzo. Se rispondevano no, il Re di Portogallo poteva offendersi e dichiarare una guerra.
Re e Regina stettero un giorno e una notte a consultarsi, e all’ultimo decisero di prendere un anno di tempo per fare le nozze.
Il guaio peggiore fu allorchè il Reuccio scrisse che sarebbe andato a fare una visita alla promessa sposa per conoscerla di presenza. Bisognava palesare l’infermità della Reginotta, e questo ai genitori coceva.
Vedendoli così afflitti che non avevano più animo e forza di soffiare e farla volare per aria, la Reginotta disse:
— Maestà, giacchè la vecchia brontolò:— Tu col vento ci verrai, —lasciatemi andare; la mia sorte vuole così. —
Pianti, grida disperate:
— Non sarà mai, figliuola mia! Non sarà mai! —
Ma la Reginotta s’ostinò:
— Lasciatemi andare. Il cuore mi predice che me ne verrà buona fortuna. —
Il Re e la Regina alla fine si rassegnarono; e un giorno che tirava un furioso maestrale, condussero in lettiga la figliuola sopra un monte; l’abbracciarono, la benedissero e l’abbandonarono in balìa del vento.
In un batter d’occhio fu sollevata in alto e spinta così lontano che, dopo pochi minuti, la perdettero di vista.
Lasciamo costoro a piangere, e seguitiamo la Reginotta.
Quantunque afflitta anche lei, dopo alcune ore di viaggio, vedendosi trasportata a tanta altezza e così rapidamente come non aveva mai provato, si rasserenò e si mise a guardare in giù, torno torno. Che spettacolo! Città, montagne, pianure, fiumi, boschi, tutto le passava via sotto di sè, quasi lei stesse ferma e le cose fuggissero precipitosamente per l’opposta direzione.
Se il vento talvolta soffiava meno forte, ella scendeva, girando, poi tornava a essere sollevata e sbalzata fino alle nuvole, andando sempre avanti, sempre avanti, sorpassando nuove città, nuove montagne, nuove pianure, boschi più fitti, fiumi più larghi. Tutt’a un tratto s’accorse che la terra era sparita. Acqua, acqua, acqua, non si vedeva altro, acqua che si agitava in cavalloni spumeggianti, e poi acquai acqua ancora... Era il mare.
Quando il vento la faceva scendere giù, Piuma‐d’—oro aveva paura. Una volta gli spruzzi dei cavalloni le arrivarono proprio alla faccia, e si credette perduta. Ma ecco una folata che la fa risalire, e la spinge a riprendere la corsa precipitosa... E ancora acqua, acqua, acqua!...
Poi le parve che il sole si spegnesse nel mare, e che un velo vi si stendesse sopra, mentre in alto, nel cielo buio, apparivano le stelle. Il cuore le diventò piccino piccino, e si mise a piangere, e a gridare:
— Ah, mamma mia! Ah, mamma mia! —
Il vento però la cullava così dolcemente, che a poco a poco le si aggravarono gli occhi; senza accorgersene, si addormentò quasi si fosse trovata nel proprio letto.
Quante miglia aveva fatte durante il sonno? Chi poteva saperlo?
All’alba, riaprendo gli occhi, si sentì slargare il petto, rivedendo di nuovo pianure verdeggianti. Piuma‐d’—oro volava così basso, che distingueva benissimo le case di campagna, gli alberi, le vie, i rigagnoli, fra la gente; le persone sembravano tante formiche. E scendendo ancora più giù, s’accorse che i contadini la guardavano, levando le mani in alto per accennarla agli altri; e sentiva le loro voci:
— Che sarà mai? È un uccellaccio? —
Il sole era già alto. Il vento, diminuito, pareva che proprio si divertisse a cullarla per aria.
I capelli si erano sciolti e le svolazzavano attorno al collo, le vesti si gonfiavano e sbattevano, quasi ali che la reggessero su.
Stava per arrivare, finalmente, dove la sua sorte, buona o trista, voleva portarla?...
Intanto lo stomaco cominciò a farsi sentire. Da un giorno e una notte ella non ci aveva messo più niente, neppure una stilla d’acqua. Come trovar da mangiare lassù per aria?
Passava uno stormo di uccelli,
— Uccellini, uccellini, datemi qualcosa di quel che portate in becco; muoio di fame.
— I figlioletti ci attendono nei nidi; questo cibo è per loro. —
Gli uccelli continuarono il loro cammino. Il vento la spinse più alto. Passava una fila di nuvole.
— Nuvole, nuvole belle, datemi una stilla d’acqua; muoio di sete.
— Quest’acqua è pei seminati; abbiamo fretta. —
E le nuvole continuarono il loro cammino.
Verso il tramonto, ecco laggiù, lontano, una montagna rocciosa, con in cima un palazzo che pareva di marmo bianco e nero, grande quanto una città, meraviglioso. Piuma~d’~oro si fece animo e pensò:
— Mi fermassi almeno colà! Ah, mamma mia, mi sento morire! —
Infatti, dalla debolezza, le venne una mancanza; non vide nè sentì più niente; e quando rinvenne, si trovò stesa su la terrazza del palazzo veduto da lontano.
Scese per la scaletta che conduceva all’interno, sperando d’incontrare qualcuno; non si scorgeva anima viva.
Le pareti delle stanze erano di marmo bianco, le cornici, gli stipiti degli usci e le colonne, di marmo grigiastro. Tavolini, seggiole, letti, mobili, di marmo bianco o grigiastro. E dappertutto uno strano odore di sale e di pepe.
Aperse un armadio; piatti con pietanze svariate, e panini e frutta e dolci; ogni cosa però scolpita in marmo bianco o grigiastro, e con un odore così forte, che la faceva starnutire.
Spinta dalla fame, accostò alla bocca una di quelle finte vivande. Stupì; erano proprio di sale e di pepe. Allora si convinse che l’intero palazzo era fabbricato con massi di sale ben levigati e con pepe tanto sodamente impastato, da eguagliare il marmo.
Si rammentò della saliera e della pepaiola da lei versata, quand’era bambina, nella minestra della vecchia, e disse:
— Questo è il suo palazzo. Mi castiga così. —
E si mise a gridare, piangendo:
— Vecchina, o vecchina! Dammi da mangiare, vecchina! —
Una voce fioca fioca rispose da lontano:
— C’è tanta roba costì; sentirai che sapore! —
Costretta dalla necessità, Piuma‐d’‐oro prese un panino e una mela e cominciò a sbocconcellarli. Sapevano proprio di pane e di mela, ma salati e pepati!
E Piuma-d’Piuma‐d’‐oro a gridare, piangendo:
— Vecchina, o vecchina! Dammi da bere, vecchina! —
La voce fioca fioca rispose da lontano:
— C’è tanta roba costì; sentirai che sapore! —
Prese una bottiglia e un bicchiere; l’acqua versata era torbida. Pure, costretta dalla necessità, Piuma-d’-oro bevve tutto d’un fiato. Oh Dio! Anche l’acqua era salata e pepata.
E così tutti i giorni, senza veder mai viso di cristiano per quell’immenso palazzo. Fino gli alberi del giardino e i fiori e l’erbe erano di sale e pepe. E Piuma-d’-oro starnutiva starnutiva, versando goccioloni di lagrime.
Veniamo, ora al Reuccio di Portogallo, arrivato per visitare la Reginotta.
Il Re e la Regina gli dissero, piangendo dirottamente:
— La Reginotta se la portò via il vento! —
Da prima si credette canzonato; poi, udita la storia di Piuma-d’-oro, disse:
— Vado a cercarla.
— Dove mai?
— In capo al mondo. Voglio trovarla a ogni costo. —
Montò a cavallo e via, solo solo, domandando dappertutto:
— In grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento? —
Molti lo presero per matto, e non gli risposero neppure.
— In grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento?
— L’abbiamo vista. Volava, volava; pareva un uccellaccio.
— E per dove?
— Dritto, avanti, avanti. —
Il Reuccio spronò il cavallo. Incontrò altra gente:
— Di grazia, avete visto passare per aria una bella ragazza trasportata dal vento?
— L’abbiamo vista. Volava, volava; pareva un uccellaccio. Poi il vento la spinse in alto, e sparì fra le nuvole. —
A questa notizia il Reuccio si perdè di coraggio; e stava per tornarsene addietro, quando fra le macchie scorse un vecchio con la barba bianca, lunga fino ai ginocchi, e con una zappa in mano.
— Bel cavaliere, Che cercate da queste parti?
— Cerco la reginotta Piuma-d’-oro che fu portata via dal vento. In grazia, l’avete vista passare?
— Chiedeva da mangiare agli uccelli e da bere alle nuvole: ma nuvole e uccelli non le diedero niente, e continuarono il loro cammino. Chi va, arriva; chi cerca trova. Coraggio, bel cavaliere!
— E voi chi siete?
— Un povero vecchio. Dovrei scavare una radica qui, ma non ho forza.
— Datemi la zappa; scaverò io per voi. —
Il Reuccio smontò da cavallo e si mise a scavare.
Scava, scava, scava, la radica non veniva fuori.
— Coraggio, bel cavaliere! Chi cerca trova. —
Il vecchio aveva un bel dire; la radica non veniva fuori.
Il Reuccio grondava di sudore, si sentiva rotte le braccia.
— Coraggio, bel cavaliere! Chi cerca trova.... Grazie! Eccola qui! —
E il vecchio stese la mano alla radica terrosa.
— Vi do questo fischietto, — poi disse. — Se avete bisogno di qualche cosa, sonate e vedrete. Badate però di non perderlo; non ne trovereste un altro simile per tutti i tesori del mondo. —
Il Reuccio ringraziò, si mise in tasca il fischietto, rimontò a cavallo e proseguì il viaggio. Pensava alla Reginotta:
— Se avessi chi potesse scovarla! —
E tratto di tasca il fischietto, mezzo incredulo, gridò:
— Aquila, aquila messaggiera, ai miei comandi! —
Fischia, ed ecco l’aquila che scende dall’alto con le grandi ali tese.
— Aquila messaggiera, va’ attorno e recami notizie della mia Reginotta; t’attendo qui. —
L’aquila ripartì subito, e per due giorni non si fece vedere.
Al terzo giorno, ricomparve con una lettera al becco.
La Reginotta scriveva:
— Sono prigioniera nel palazzo di sale e pepe d’una Fata, dove non può entrare anima viva. —
Il Reuccio rammentò allora le parole della vecchia che gli erano state riferite:
— Tu col vento ci verrai, |
— Va bene — pensò. —
E cavato di tasca il fischietto:
— Nuvole, nuvole, ai miei comandi! —
Fischia, ed ecco da ogni parte del cielo montagne di nuvole, che accorrono premurose, gravide di pioggia.
— Aquila, aquila messaggiera, ai miei comandi. —
Al fischio, anche l’aquila ricomparve e scese a posarglisi ai piedi.
— Su su, aquila mia! Portami al palazzo di sale e pepe della Fata; e voi, nuvole, dietro a me! —
Inforcò l’aquila, quasi fosse stata un cavallo; e l’aquila, aperte le ali, lo trasportò in alto, via pel cielo; essa col Reuccio avanti, e le nuvole dense, gravide di pioggia, montagne smisurate che oscuravano il sole, dietro a loro, via, via!
La Fata visto dalla terrazza del suo palazzo quel temporale che si avvicinava, s’accorse del pericolo; e scatenò il libeccio che teneva chiuso in una stanza.
Il vento incontrò l’aquila e le nuvole a mezza strada, e col suo gran soffio non li faceva avanzare. La lotta durava da più ore, senza che l’aquila e le nuvole avessero potuto guadagnare un palmo di spazio. Il libeccio, invece di stancarsi a soffiare, prendeva anzi maggior forza.
— Aspetta un po’, — disse il Reuccio.
Cavò di tasca il fischietto:
— Tramontana, tramontana, ai miei ordini! —
Fischiò; e subito si levò una tramontana furiosa, che soffiando di dietro, spinse in avanti aquila e nuvole con violenza. In pochi istanti, tutti furono sul palazzo di sale e pepe della Fata, e si fermarono.
— Vento, chétati. Nuvole scioglietevi in pioggia! —
Il Reuccio tornò a fischiare.
Parve si aprissero a un tratto le cateratte del cielo; e intanto che la pioggia veniva giù a torrenti, il palazzo di sale e pepe si andava squagliando; e giù per le gole della montagna precipitavano torbidi fiumi di sale e pepe liquefatti, che correvano verso il mare.
Piovve così sette giorni e sette notti, finchè del palazzo della Fata non rimase vestigio. La Fata era sparita lasciando la Reginotta aggrappata a un masso, dopo averle ripetuto all’orecchio:
— Tu col vento ci verrai, |
Il Reuccio, montato sull’aquila, voleva prendere con sè Piuma‐d’‐oro. Ma che! A furia di mangiare sale e pepe, ella aveva riacquistato il suo peso, e l’aquila non poteva reggerli addosso tutti e due.
— Grazie, aquila forte. —
Scese a terra, e lasciò l’aquila in libertà.
La Reginotta, dall’allegrezza, non riusciva a dire neppure una parola. Il Reuccio intanto, cavato di tasca il fischietto:
— Cavalli, cavalli bardati, ai miei comandi! —
Fischia, e due magnifici cavalli bardati sbucano di sottoterra davanti a loro, scalpitanti.
Egli stava per rimettersi il fischietto in tasca; ma rieccoti il vecchio dalla barba bianca, lunga fino alle ginocchia, che gli aveva fatto quel regalo:
— Reuccio, il fischietto non vi serve più; rendetemelo, e Dio vi accompagni fino a casa. —
Il Reuccio veramente voleva trattenerselo; era così comodo!
— Provate — soggiunse il vecchio; — in mano vostra non fischia più. —
Infatti non fischiava più. E il Reuccio glielo rese:
— Grazie di nuovo, buon vecchio. —
Dopo un mese di viaggio, Reuccio e Reginotta arrivarono sani e salvi al palazzo reale.
Si sposarono con grandi feste e vissero felici e contenti. La Reginotta però, a ricordo della sua cattiveria di bambina, fece voto di non mangiare mai più nè pepe nè sale in vita sua.
E così finisce la storia di Piuma‐d’‐oro.