Pietro Ceretti
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Pietro Ceretti 1.
L’opera filosofica di Pietro Ceretti, anche dopo la parziale pubblicazione delle sue opere postume, non è stata ancora nè profondamente studiata, nè adeguatamente apprezzata. Nei manuali di storia della filosofia egli è ancora genericamente classificato, accanto a Spaventa, Vera, Fiorentino, Tari, D’Ercole, come un puro ripetitore di teorie hegeliane: ma questo non è vero che del primo periodo della sua speculazione ed anche per questo non è vero che in parte. Certo l’educazione sua filosofica si è fatta per mezzo di Hegel e le traccie di quest’influenza sono rimaste visibili: ma l’indirizzo essenziale del suo pensiero non è hegeliano, e ciò che esso contiene di reminiscenze hegeliane è troppo poco perchè noi possiamo classificarlo tra gli hegeliani. Del resto chi conosce la sua indole indipendente, quasi ribelle, e il liberissimo modo con cui conquistò a sè, fuori d’ogni vincolo tradizionale la sua personalità, come può supporre che a questa indipendenza avesse rinunziato nella parte più gelosa ed intima della sua vita, nel pensiero?
È noto che Ceretti, dopo i primi studi nel Seminario di Arona e presso i gesuiti di Novara, formò a sè stesso liberissimamente, attraverso letture, viaggi e studi svariati, la propria coltura. Un elemento importante della sua coltura furono i viaggi: che egli intraprese dall’età di ventun anni per tutta l’Europa, errando, come i saggi antichi, senza meta, col solo fine di vedere la varietà degli uomini e dei loro costumi. Egli viaggiava a piedi, con la massima semplicità, andando sempre
...come capita, col pieno
Meriggio, col sereno,
Colla piova,
Col baio, con la luna,
Con la varia fortuna,
Con li vari linguaggi,
Per monti e piani, per città, villaggi,
Con la natura,
Con la spensierata anima sicura.
Viaggiava fingendosi operaio o bracciante, riposando negli abituri dei contadini, accompagnandosi a frotte di zingari o di vagabondi, sì che
...il galantuomo un po’ sovente
Scontrandolo per via, molto prudente
Si tenne al largo e anco talvolta alcuna
Equivoca congrega
Lo salutò collega.
E in realtà l’aspetto suo non doveva esser molto tranquillante, se una volta che entrò in un’aula della Sorbona per sentirvi una lezione, fece arrestare stupefatti discepoli e docente. Ma queste peregrinazioni, così bizzarre nell’apparenza, furono per lui una ricca sorgente di osservazioni e di esperienze profonde sugli uomini e sulle cose anche nell’età più matura.
I primi amori del Ceretti furono per la poesia. Dal 1843, anno in cui abbandonò la casa paterna per recarsi a Firenze, fin verso il 1860 si occupa di storia, di scienze, di letteratura, ma piuttosto di poesia: i principali scritti di questo periodo sono le ultime lettere d’un profugo (1847), romanzo in prosa sul genere del Jacopo Ortis e due poemetti, il Prometeo e il Pellegrino in Italia.
Però anche queste opere letterarie hanno già un contenuto filosofico: esse sono ispirate ad un sentimento di romantica tristezza, ad un atteggiamento pessimistico che qua e là, di fronte al problema delle cose, si risolve in un’invocazione alla pace del pensiero. «O Natura, Natura, a che ne sproni sì crudelmente e di progenie in progenie ne affatichi, predatori o preda, sempre i più miserabili fra gli animali? A che, operosa, rinnovelli, trasfigurando, le menzogne della speranza? Questa Dea, tanto fallace sulla terra, sarà veritiera oltre il sepolcro? Esistenza migliore o riposo di sonno ineccitabile sarà meta di sì doloroso pellegrinaggio? O forsennato! Atomo perduto nello spazio, stilla d’un’intelligenza immensurabile, presumi abbracciare e intendere i dominii della suprema governatrice? Chiuditi nel tuo nulla, dolora in silenzio e dal dolore cogli la sapienza, che sola forse genera la potenza redentrice».
Il periodo più propriamente filosofico, che si inizia verso il 1860, non è in fondo, per lo spirito e per l’indirizzo, che uno svolgimento del periodo poetico: perchè la poesia fu nel Ceretti il germe e l’infanzia della filosofia (D’Ercole, p. 72). Al 1860 risale la prima delle sue opere filosofiche — l’Idea circa la genesi e la natura della forza; nel 1864 comincia la stampa del suo Paselogices specimen, un’opera colossale in latino, di 11.000 pagine, di cui solo i primi tre volumi vennero stampati (in cinquanta esemplari) dal 1860 al 1867. D’allora in poi nella filosofia Ceretti trovò il compito della sua vita: la sua curiosità inquieta e vagabonda, gli studi svariatissimi, i viaggi, le meditazioni poetiche erano state soltanto i tentativi d’uno spirito, che ignorava ancora se stesso e che adesso nel pensiero e nella contemplazione filosofica trova il suo appagamento definitivo.
L’Italia filosofica (specialmente al nord) era divisa allora dalla controversia fra rosminiani e giobertiani: ma nel regno di Napoli si era già iniziato quel movimento hegeliano, che era destinato ad avere più tardi tanta fortuna. Come si spiega la preferenza che Ceretti ebbe per Hegel? Che Ceretti non abbia piegato verso lo spiritualismo di Rosmini e di Gioberti si capisce: questi erano filosofi più o meno asserviti alla teologia e Ceretti era uno spirito troppo libero da ogni catena tradizionale per poter entrare in tale ordine d’idee. L’hegelianismo dovette apparirgli invece come la verità più alta, la quale nel tempo stesso che elevava lo spirito in una sfera superiore a queste filosofie teologiche e volgari, lo liberava dagli assalti del materialismo e dello scetticismo: come l’interpretazione idealistica per eccellenza, che dava veste e forma di pensiero alla sua visione della realtà. Per Ceretti Hegel è anzitutto il grande sistematone dell’idealismo: la realtà è per lui, come per Hegel, un grande pensiero vivente: le cose, gli astri, le piante, gli animali sono come i geroglifici in cui è scritta la storia di quel Dio vivente che è il Pensiero. E di Hegel accoglie anche un altro punto: il carattere logico, razionale di questa realtà ideale in cui viviamo: il carattere dialettico del divenire di questa realtà, in cui ogni momento richiama il momento contrario e con esso si completa per rendere possibile il passaggio ad un grado superiore, in cui il processo eternamente si rinnova. In tutto questo Ceretti riconosce di essere stato discepolo di Hegel e di dovere a lui lo svolgimento delle idee fondamentali della sua mentalità: «l’hegelianismo giovò grandemente a corroborare il mio pensiero e mi portò in un campo che fruttò l’ulteriore svolgimento delle mie idee».
Ma Ceretti non era un filosofo della scuola: la sua mente liberissima si era formata, più che nel contatto coi libri, nel contatto con le cose. Le grandi visioni della natura, le meditazioni solitarie, la contemplazione disinteressata dell’uomo e delle società umane furono veramente le sorgenti del suo pensiero. Egli aveva d’altra parte subito anche altre profonde influenze: quella del Leopardi, della cui poesia filosofica Ceretti sentì presto il fascino; forse anche quella dello Schopenhauer, che chiama suo «intrinseco amico», e delle grandi dottrine pessimistiche dell’antico Oriente. Quindi si capisce come, pure tenendo Hegel per maestro, egli non sia affatto rimasto hegeliano e non abbia soltanto ripetuto Hegel: ma in un primo tempo abbia cercato di rifare Hegel a modo suo ed in un secondo tempo sia da questo punto di partenza giunto ad una concezione filosofica, che, nel suo indirizzo fondamentale, non è più affatto hegeliana. Infatti anche in quella specie di rifacimento del sistema hegeliano, che è il suo sistema di panlogica, Ceretti si era scostato da Hegel in varii punti essenziali: punti che preludono già a quel sistema contemplativo, nel quale dobbiamo vedere la sua vera filosofia personale ed originale. E ciò tanto è vero che Ceretti non condusse nemmeno a termine questo rifacimento delle dottrine hegeliane: mentre egli stava rifondendola, l’aveva superata e abbandonata. Il suo ultimo periodo fu, come egli stesso dice, un periodo di «totale indipendenza d’idee». Questa filosofia personale occupa l’attività di Ceretti negli ultimi quattordici anni della sua vita, dal 1871, anno in cui abbandona la redazione della Panlogica, al 1884, anno della sua morte. Le sue idee di questo periodo, oltre che in alcune brevi operette filosofiche, come la Sinossi dell’enciclopedia speculativa (1876), le Considerazioni sul sistema della natura e dello spirito (1878) ed altre minori, sono contenute specialmente nei suoi romanzi e nelle Massime e dialoghi, delle cui cinquemila pagine il suo benemerito biografo V. Alemanni ha pubblicato una parte negli «Scritti scelti inediti». Però in nessuna di queste opere egli ci ha lasciato un’esposizione chiara e sistematica delle sue idee fondamentali: generalmente queste ci sono date soltanto indirettamente nella loro applicazione alla infinita varietà di condizioni e di aspetti che offre la vita.
⁂
La divergenza da Hegel si delinea già nella stessa posizione del primo principio. Per Hegel la realtà ultima ed assoluta è lo Spirito: una ragione universale ed eterna, che è anche vita e movimento, che si rivela nella natura ed ha nel mondo umano della società e della storia la sua più alta manifestazione. Ora già nel secondo volume della Panlogica Ceretti enunzia questo concetto: che il mondo della manifestazione dello Spirito è soltanto una delle infinite forme possibili della realtà ed ha il suo fondamento in un principio superiore, che Ceretti chiama la Coscienza — un principio assolutamente indeterminato, che potrebbe con egual diritto dirsi l’assoluta Incoscienza o l’assoluto Nulla. Quale sia il preciso concetto che Ceretti si è fatto di questo principio universale dell’esistenza non è facile vedere: sembra che in questo punto il suo pensiero abbia avuto più d’una variazione successiva. Genericamente possiamo dire che è una specie di Io assoluto, la cui vita si svolge in una infinita molteplicità di mondi e di esseri e che tuttavia non si esaurisce in alcuno di essi: un’unità, la cui natura non può da noi venir definita in nessun modo e tuttavia si esprime nelle leggi generalissime a cui tutti gli esseri obbediscono. Ceretti stesso riconosce l’affinità della sua dottrina con quella dei mistici di tutti i tempi: solo mette in rilievo che questo impenetrabile Assoluto è per lui una Coscienza, che, come l’Io di Fichte, svolge da sè il mondo, anzi un’infinità di mondi. Non ci dobbiamo perciò meravigliare se qualche volta, come i mistici, chiama questa Coscienza l’infinito nulla e prende per simbolo della sua filosofia lo zero, che è l’indeterminazione assoluta e significa tutto perchè non significa niente.
Questa Coscienza infinita si svolge in un’infinità di mondi e di esseri, in ciascuno dei quali la sua unità si scinde necessariamente in una dualità interiore: per il fatto che ogni realtà non è l’Unità assoluta, essa la oppone a sè, la rende a sè straniera e la giudica: di qui il vero e il falso, il bene ed il male e tutte le altre opposizioni dell’esistenza finita. Ogni grado di esseri costituisce una realtà a sè, un mondo, che a ciascuno degli esseri in esso inclusi appare come il vero ed unico mondo: mentre non è che uno degli infiniti mondi che sono nel seno della Coscienza assoluta. Ogni grado passa nell’altro, ogni mondo si converte in un altro: in questo passaggio il grado futuro si rivela nella coscienza individuale come il presentimento ideale d’un mondo superiore che è vagamente atteso, ma non conosciuto, nè possibile a conoscersi.
Tutta questa varietà infinita di mondi e di esseri non è ancora tuttavia per sè, nella sua totalità, un’imperfezione ed un male: perchè nella totalità il bene e il male si equilibrano e si annullano in un’indifferenza costante e sempre uguale. Di fronte a Dio ed allo spirito contemplativo, che vede le cose nella loro unità, non esistono più nè il bene, nè il male: d’altronde ogni esistenza, anche quella dell’umanità e del suo mondo, non è che un brevissimo ed insignificante episodio nel dramma infinito. L’origine del male sta in noi, nella limitazione soggettiva della nostra coscienza, per cui non vediamo noi stessi come ciò che veramente siamo, cioè come semplici momenti d’un’unica vita infinita che è superiore alle determinazioni ed alla morte: sta nel crederci legati irremissibilmente ad una forma particolare ed alle sue vicissitudini. Se il male nostro è in questa impotenza intellettuale, il bene nostro risiede nella conoscenza della verità e nell’indifferenza: la filosofia di Ceretti sbocca in una morale ascetica e contemplativa:
«Paradiso non voglio, ma riposo».
Il bene più alto sulla terra è il pensiero, che vive sopra tutti i piaceri e i dolori del mondo: quel pensiero, che dà la quiete dalle passioni, la serenità senza gioia nè dolore: la suprema sapienza è anche assoluta indifferenza.
Ceretti applica questa morale quietistica anche alla società: le vicende politiche e le brighe civili non sono per lui in fondo che meschinissime cose: il solo progresso dell’umanità è il progresso nella razionalità e nell’apatia. Se l’ideale della vita umana sta nel giungere alla contemplazione di Dio ed alla liberazione dalle passioni, tutta la vita esteriore deve esservi indirizzata. L’umanità percorre sotto questo rapporto tre epoche: la prima è l’età della religione, caratterizzata dall’ignoranza e dal dispotismo: la seconda è l’età della scienza, caratterizzata dal fiorire della tecnica utilitaria e della democrazia; la terza è l’età contemplativa, età di cultura speculativa e filosofica, nella quale gli uomini meditativi realizzeranno una più razionale costituzione della società. Ceretti ha dedicato molte pagine dei suoi scritti alla critica delle condizioni sociali presenti, in cui l’umanità, sotto le parvenze della cultura, è guidata ancora dalle passioni più cieche e più brutali; ma si è anche preoccupato di stendere il disegno generale di ciò che dovrà essere il futuro ordinamento razionale della società. Esso è riassunto nella Proposta di riforma sociale, stesa nel 1878 e pubblicata nel 1885; e nel romanzo «Gregorio», scritto nel 1879, dove è tracciata la società futura secondo il sistema contemplativo. Questa società, che Ceretti considerava non come un’utopia, ma come un necessario risultato della penetrazione della coltura filosofica e religiosa, è una specie di repubblica platonica, caratterizzata da una riforma socialista della proprietà, della famiglia e dell’educazione: riforma che però, occorre appena dirlo, non ha nulla di comune con il comunismo politico attuale. «Il comunismo, che correva per le stampe (fa dire Ceretti ad un felice cittadino della sua Utopia dell’avvenire) e qualche volta scese nelle piazze, era idiotico, vandalico, terrorista, avversario non dell’ordine costituito, ma di qualsivoglia ordine sociale. Era una specie di brigantaggio teoricamente e praticamente guidato da soggetti poco addottrinati, poco morali, molto avidi di arricchire, molto ambiziosi di popolarità. La gente, alla quale si predicava e che si spronava all’azione, era una moltitudine di operai, di braccianti e di proletari, che ambivano sostituirsi ai ricchi... Gli scienziati e letterati vedevano nel comunismo un’utopistica aspirazione demagogica, la quale, se si potesse realizzare, condurrebbe all’anarchia o al dispotismo della plebe, il peggiore dei dispotismi; in ogni modo all’estremo deperimento delle lettere e delle scienze, che non possono avere la simpatia della plebe. Dunque il comunismo di quel tempo, non contenendo un briciolo di quella profonda razionalità, che lo ha reso necessario, non ha nulla, tranne il nome, di comune col nostro» (Op. scelte ined. I, 177-178).
Da tutto questo risulta con chiarezza anche la posizione di Ceretti rispetto alla religione. La riforma dell’umanità deve anche essere riforma razionale e filosofica della religione: i frequenti accenni ostili, che troviamo in lui, contro «la plebe mascherata di stole e di piviali», sono dirette solo contro l’elemento volgare e superstizioso, che offusca la religiosità vera. In fondo la concezione di Ceretti è religiosa; egli crede p. es. nel valore della preghiera, quando essa sia formulata senza alcun desiderio egoistico, nel puro interesse della ragione. Soltanto egli vuole che dalla religione siano eliminati l’autorità cieca esteriore, l’ignoranza, l’ipocrisia; che essa cessi di parlare il linguaggio della favola e del miracolo per apprendere quello della filosofia. Noi siamo oggi dinanzi ad un bivio terribile. Se l’uomo si è propagato sulla faccia della terra, deve ciò alle istituzioni religiose, che con i terrori del soprannaturale, dice Ceretti, hanno legato questa fiera sanguinaria, che si chiama, forse ironicamente, l’uomo sapiente. Ora è vano sperare che la fede del passato possa venir ricostruita: d’altra parte se questo freno verrà meno nella coscienza umana, vedremo l’uomo scatenarsi con tutta la ferocia della sua ragione. La sola speranza per l’umanità può trovarsi soltanto, secondo Ceretti, nello svolgimento della ragione e della religione razionale. Che alla ragione appartenga l’avvenire del mondo, è una delle convinzioni sue più profonde. Anche gli interessi, gli istinti, le passioni che muovono gli uomini e sembrano i veri attori del mondo, sono in realtà dei meccanismi, in cui vive ed agisce un pensiero comune, ignoto a quelli stessi in cui agisce: «il mondo è governato dalla mente ignota al mondo». A dare agli uomini piena coscienza di questa ragione è appunto intenta l’opera della filosofia: che preannunzia l’avvento della fase contemplativa, anzi è già un iniziale realizzamento di questa forma ideale della vita. «L’idealità intima logicamente vera è idea profetica di quanto verrà secoli o millenni più tardi istituzionalmente ed esteriormente realizzato».
Ma di qui anche il doloroso dissidio, dal Ceretti stesso dolorosamente sperimentato, fra il pensiero dei filosofi e quello degli altri uomini, che vivono immersi nelle illusioni e nelle passioni del presente e sono ciechi per gli interessi generali della ragione e della vita spirituale. Sopra nessun punto Ceretti torna così spesso e con tanta compiacenza come sopra questo necessario sacrificio degli spiriti migliori all’eterna vita dello spirito: mai egli è così eloquente come quando, descrivendo se stesso, descrive il necessario e doloroso isolamento del filosofo, che vive già con la mente in una sfera ideale superiore, mentre il suo corpo è ancora in questo mondo inferióre. «Così progressivamente, dice Ceretti di se stesso, dal frastuono mondano migrai al silenzio della solitudine: la mia anima appassionata progressivamente si spassionò per riflettere nella serenità speculativa. Rinunciando al mondo, alla carne, al fumo, alla vanità delle cose mondane, mi trovai spiritualmente in Josaphat (così Ceretti chiama il mondo spirituale superiore), quando la mia individualità corporea vegeta tuttavia nel suo mondo. Così vivo fra gli uomini come straniero fra stranieri: e confabulo quotidianamente con gli uomini, ascoltando e recitando il loro gergo convenzionale. Il mio spirito è altrove: vive la vita della propria idea speculativa e non può più chiaramente rivelarsi ai suoi fratelli, perocchè i suoi fratelli abitano spiritualmente il mondo della storia, egli quello di Josaphat».
L’ideale supremo della vita terrena, che è la contemplazione indifferente dell’infinita realtà, in cui i contrari si elidono e perciò non vi è più nè gioia nè dolore, ma solo una specie di serenità triste, non è quindi, secondo Ceretti, che la preparazione d’una condizione più alta di vita. Ogni spirito finito, anche lo spirito dell’umanità, è perituro: soltanto la Coscienza assoluta non muore. Ma questo non vuol dire che l’individuo debba perire interamente: vi è una parte della nostra coscienza che non perisce, quella per cui ci identifichiamo con la Coscienza assoluta. Nell’atto stesso che noi eleviamo l’anima verso la contemplazione, noi eleviamo verso l’eternità. Non sembra però, secondo Ceretti, che l’uomo, nelle sue condizioni attuali, possa pretendere ad un così alto destino: egli crede che l’uomo, come ogni creatura, non ritorni a Dio, deposto il suo oscuro involucro mortale, se non attraverso un lungo cammino, retto da una legge di retribuzione mistica, che nessuna mente umana può concepire. Vi sono quindi gradi di vita e di realtà, forme superiori di esistenza spirituale, che noi non possiamo nemmeno immaginare: nelle sue Massime e Dialoghi Ceretti introduce qualche volta come interlocutore e maestro uno di questi spiriti superiori, che egli chiama Lucifero; spirito che già era stato uomo ed è giunto a questo eccelso grado attraverso innumerevoli dolori e metamorfosi corporee e spirituali. Nel suo svolgersi dall’uno all’altro grado la coscienza abbandona progressivamente le determinazioni del grado, dal quale si svolge, ed assume quelle del sistema, verso il quale tende: l’abbandono, dice Ceretti, è una progressiva dissoggettivazione del sistema morente e l’acquisto una progressiva soggettivazione del sistema nascente. Così l’io individuale non perisce, ma si conserva in ciò che ha di essenziale anche attraverso la morte: sebbene esso consideri, ogni volta che rinasce, il suo mondo come il vero ed unico mondo. Così appunto crediamo anche noi qui, nascendo, d’essere nati per la prima volta, sebbene anche qui non facciamo che ritrovare in una nuova sfera determinazioni, stati e rapporti già vissuti ed ora trasferiti e come trasfigurati nella sfera dell’esistenza umana. Quale sarà questo stato finale, verso cui l’anima così sale attraverso innumerevoli esistenze ed innumerevoli dolori? Naturalmente Ceretti, come i mistici, non pretende poterlo dire: a noi esso non può apparire che come una specie di nirvana, di riposo e di benefico sonno, verso il quale aspirano tutte le creature viventi.
* * *
Tale è nelle sue linee sommarie la visione della vita, che il Ceretti svolse nell’ultimo periodo della sua vita, il suo cosidetto sistema contemplativo. Come si spiega che una dottrina così originale, che mette a buon diritto il suo autore al fianco dei più grandi nostri filosofi del secolo XIX, passò quasi totalmente inosservata? Le cause risalgono in parte all’autore stesso: al fatto che la sua prima grande opera, edita, la Panlogica, è scritta in uno stile oscurissimo ed in un latino poco accessibile: al difetto, anche negli altri scritti, di concisione e di chiarezza sistematica: al suo distacco dal pubblico e dal mondo della filosofia ufficiale ed erudita, che lo distolse, dopo il disgraziato successo del Sistema di panlogica, dalla pubblicazione dei suoi scritti.
Ma se nell’opera del Ceretti vi sono innegabili deficienze di forma, che gli tolsero, vivente, di godere di quella fama, a cui aveva diritto, e che anche oggi possono essere d’ostacolo alla diffusione del suo pensiero, vi è nella sua personalità un aspetto, che è nel più alto grado degno di rilievo e che pone il Ceretti al livello dei veri, dei più grandi filosofi: e questo è la nobiltà e la purezza della sua vita, per cui ci ricorda un altro grande e glorioso solitario della filosofia, Benedetto Spinoza. La vita di Ceretti non è soltanto la vita d’un erudito o d’uno studioso: ma d’un animo alto, che accordò perfettamente la sua personalità con la sua dottrina. I suoi biografi ci hanno tramandato con accento commosso la bellezza e la purezza della sua vita famigliare: il nobilissimo amore che nutrì per la moglie, presto perduta, la cui morte sparse su tutta la sua vita un’ombra di tristezza e volse il suo spirito a cercare un conforto alla felicità perduta nella contemplazione delle cose eterne; la tenerezza per l’unica figlia, a cui dedicò tutta la vita e che cantò con versi di soavissimo affetto. Quando conobbe che il suo vero compito era la meditazione filosofica, ad essa rivolse anche tutto se stesso: lasciò da una parte le esigenze e le condizioni della vita comune, abbandonò i viaggi e gli svaghi, si impose un orario rigoroso, informò la sua vita esteriore alla più nuda semplicità, considerò la ricerca ed il culto più scrupoloso della verità come l’unico fine della sua vita. Io non posso anche oggi rileggere senza una commozione profonda il racconto degli ultimi anni della sua vita, sacri alla meditazione e al dolore; quando in mezzo alle gravi e continue sofferenze della malattia, che lo trasse alla tomba, continuò con stoica serenità a meditare ed a scrivere. Chi può dire che cosa passava nella sua mente quando la sera sull’imbrunire si faceva portare accanto alla finestra e là con una mano dinanzi agli occhi si abbandonava e si assorbiva nella quotidiana meditazione, che era l’alta, la muta preghiera d’un filosofo? Anche la morte, lungamente preveduta ed attesa, fu morte degna d’un saggio. Egli attese la fine con mente sicura e viso calmo, senza tradire con un gesto od un lamento l’interna sofferenza: e quando la grande liberatrice fu vicina, raccolse senza paura e senza rimpianto, come un trapasso naturale, confortando ed esortando i suoi famigliari ad essere fermi e tranquilli.
Ma forse più che nell’affrontare la morte egli aveva mostrato la grandezza e la forza dell’animo suo nell’affrontare l’oscurità ed il silenzio, che furono, in vita, il compenso dell’opera sua. Egli svolse e fissò il suo pensiero nella più assoluta solitudine: amaramente conscio che questa era per lui un inevitabile destino. Egli aveva bene fermamente veduto che la moltitudine è sempre incapace di accogliere i più alti insegnamenti della ragione: e che quelli, i quali sembrano accostarsi o dedicarsi alla vita dello spirito, lo fanno generalmente per interesse, ambizione od altri motivi dell’ordine inferiore: quindi comprese che in nessun modo egli poteva conquistare una qualche celebrità senza rinunziare almeno in parte a quello che era il solo e l’alto compito della sua vita. Egli accolse perciò l’oscurità con indifferenza e con una specie di rassegnazione ironica: «nel rapporto con gli uomini (scrive nel suo libro «La mia celebrità», il cui titolo è già un’ironia) fui un perfettissimo zero per tutti gli altri viventi, ma celeberrimo a me stesso e legittimo compagno della notte e del silenzio». Anzi egli seppe apprezzarla come un mezzo per conservare la calma e l’indipendenza del suo spirito, come una condizione essenziale della libertà interiore, che può svolgersi senza essere turbata dal giudizio degli altri uomini. L’eccellenza dell’ingegno e della dottrina (scrive Ceretti in un dialogo pubblicato dal D’Ercole, dove esamina le ragioni della sua oscurità) contano poco per entrare nel regno della gloria. La celebrità è il salario che il pubblico paga a quelli che ne seguono e ne accarezzano le tendenze. Anche i grandi scrittori ed i grandi filosofi, degni della gloria e benemeriti dell’umanità, non sono mai gloriosi per la vera ed essenziale dignità del loro spirito, ma sono stati illustrati dalla fortuna o dal fatto che i loro principii hanno servito o servono a qualche interesse dominante. Chi serve la pura causa dello spirito non ha perciò alcun diritto alla celebrità: che del resto non sarebbe per lui se non una vanità ed una molestia. Anzi anche un pericolo: perchè chi si lascia lusingare dalla celebrità deve necessariamente prestare attenzione agli irrazionali capricci dell’opinione ed in questo culto disimparare il culto della verità e della coscienza. Per illustrarsi nella pubblica opinione bisogna sempre un poco degradarsi davanti a se stesso. Ma perchè allora scrivere se il filosofo deve, come vuole Ceretti, essere indifferente non solo al biasimo ed alla lode, ma anche alla pubblicazione dei suoi scritti? Il filosofo scrive solo per sè, per fissare a sè la storia della sua coscienza, per tenere a sè presente tutta la ricchezza del suo svolgimento e trovare nella sua genesi il fondamento del suo ulteriore progresso.
Cifro le carte in bruno,
Carte che guarderà sguardo nessuno:
Ma io penso e ’l pensier scrivo
E ’l pensier, vita della vita, vivo.
L’oscurità immeritata che avvolse il nome del Ceretti anche dopo la morte sembrò dare ragione alle sue ironiche riflessioni e previsioni circa il destino dei filosofi. Tanto più grati dobbiamo essere perciò alla figlia del filosofo, che con pietà illuminata volse ogni suo pensiero a togliere dall’ingiusto oblio la fama paterna curando la pubblicazione della Panlogica in veste italiana ed assicurando la conservazione delle reliquie manoscritte: e con eguale riconoscenza salutare l’opera dei suoi concittadini, che gli hanno eretto un monumento ed un altro assai più solido monumento gli hanno consacrato nella fondazione dedicata al suo nome ed all’opera sua. Ma se è vano attendersi che la filosofia del Ceretti possa mai diventare, anche nel miglior senso della parola, una filosofia popolare, non è certamente illegittimo augurare che la sua nobile figura di uomo e di filosofo diventi più famigliare ai pochi spiriti migliori, nei quali anch’egli senza dubbio sperava, quando, nonostante la sua apparente rassegnazione all’amaro destino, si applicava con tanta costanza ad assicurare all’umanità i risultati del suo pensiero. Al quale fine certo servirebbe indirettamente anche la fondazione, che da lui prende il nome, quando venisse determinatamente rivolta a fini più consentanei con la personalità cui è consacrata. I suoi concittadini, assicurandone con gelosa cura la conservazione, hanno obbedito al presentimento della grandezza del filosofo ed al nobile sentimento, per cui già nell’antichità pagana ogni città conservava il nome e la tomba dei suoi eroi e consacrava loro altari e templi per tramandarne nei secoli la fama. Ma il grande cittadino d’Intra è un eroe d’una natura particolare: egli è un filosofo, non un guerriero, un santo od un uomo politico. Meglio avrebbero quindi provveduto alla celebrazione del suo nome i cittadini di Intra, se invece di convertire la fondazione Ceretti in un istituto comune di coltura popolare, avessero dato in Italia il primo esempio d’un’istituzione dedicata al progresso degli studi e della coltura filosofica: questo sarebbe stato il più degno e più vero omaggio che essi avrebbero potuto rendere al grande filosofo, che fu loro concittadino.
Note
- ↑ Discorso commemorativo in occasione del primo centenario dalla nascita (1923). Da consultarsi, oltre la notizia del D’Ercole (Torino 1886), l’eccellente biografia dell’Alemanni (Milano 1904) e specialmente gli Scritti scelti inediti di varia filosofia e letteratura a cura di V. Alemanni, I-II, Roma, 1915-20.