Piccoli eroi/La figlia del cantoniere
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LA FIGLIA DEL CANTONIERE.
Pierina era la figlia, del guardiano della casa cantoniera numero 6, posta presso ad un modesto villaggio, sulla via del Gottardo.
Fra i primi ricordi dell’infanzia, al primo risvegliarsi della sua intelligenza intorpidita, essa rammentava che parecchie volte al giorno, suo padre usciva con qualche cosa arrotolata oppure con un lanternino in mano, e pochi momenti dopo, si sentiva uno strepito, che pareva il terremoto e faceva scuotere fino dalle fondamenta la piccola casa, poi il rumore si affievoliva, finchè si dileguava in lontananza. Non sapeva che cosa fosse, ma quando usciva il padre, essa stava attenta, aspettando il solito rumore.
Una sera che il babbo era assente, ed essa un po’ irrequieta, la mamma accese il lanternino, la prese fra le braccia e uscì sulla strada.
L’impressione che provò quella volta non la dimenticò più.
Vide lontano una massa scura, grande, gigantesca, con due occhi rossi infocati, che sbuffava e mandava lampi di fuoco, come un mostro fantastico, e quella massa nera veniva precipitosamente verso di loro come se volesse ingoiarle, stritolarle. Nascose la testa sulla spalla della mamma, chiuse gli occhi e si mise a gridare.
La mamma non si mosse: stette ferma al suo posto finchè il mostro fu passato e si sentì il rumore diminuire in lontananza e ad un certo punto cessare.
Pierina continuava a piangere e a tremare.
— Bisognerà bene che ti abitui al passaggio del treno, mia piccola paurosa, — le disse la madre riconducendola in casa.
E infatti s’abituò in breve a quel rumore, anzi quando cominciò a camminare e sentiva lo strepito della macchina, voleva correr fuori a veder il vapore, e avrebbe voluto toccarlo, e colle manine tese faceva festa al luccicore dell’ottone intorno alla locomotiva, seguiva cogli occhi la colonna di fumo, ed esclamava guardando in alto: bello! bello! In poco tempo, quell’oggetto che l’aveva tanto sgomentata era divenuto il suo divertimento, anzi, quando lo sentiva in distanza, correva sulla strada ferrata in mezzo alle rotaie, ballando e saltando dalla gioia.
E allora la sua mamma, tutta agitata, usciva a prenderla fra le braccia e le dava tante busse da farla strillare.
— Non devi andar sulla strada quando viene il treno, hai capito? — le diceva.
Ma Pierina non capiva nulla, soltanto sapeva che quando andava sulla strada per far festa al vapore, prendeva le busse che le facevano male, e un po’ alla volta perdette l’abitudine d’andarci, e si contentò di salutare il treno dalla finestra o dalla corte, davanti alla casa.
Fattasi più grandicella, incominciò a frequentare la scuola del villaggio, e tutte le mattine quando vi si recava, sentiva nelle orecchie la voce della mamma che le diceva:
— Ricordati, prendi il sentiero della montagna, non passare lungo le rotaie.
— Oh mamma, non sono più una bimba, — rispondeva, — e non c’è pericolo che vada sotto al treno.
— In ogni modo sono più tranquilla se prendi l’altra strada; qualche volta ritornando colle amiche, chiacchierando, non si sa mai, una disgrazia è presto venuta, e noi siamo tanto abituati al rumore del treno che ci può venir addosso senza che ce ne accorgiamo.
Ormai Pierina era una cantoniera perfetta, e spesso quando i suoi genitori erano occupati, andava lei stessa, all’ora che passava il treno, a fare i segnali.
Il padre l’aveva istruita bene, perchè potesse far le sue veci e lo aiutasse, tanto più che la mamma doveva occuparsi d’un altro bimbo ancora in fasce e non poteva muoversi di casa. Il cantoniere prima che passassero i treni, percorreva la strada affidata alla sua custodia, poi dava un’occhiata ad un ponte sospeso sopra un precipizio, per vedere se non ci fosse alcun guasto, specialmente dopo qualche temporale, e quando aveva veduto che tutto era in ordine si metteva al suo posto, e tenendo in mano la bandieruola verde indicava al treno che poteva proseguire; se la via era ingombra prendeva invece la bandiera rossa e lo faceva arrestare.
Pierina lo aveva accompagnato spesso, era stata attenta e aveva subito imparato ogni cosa, tanto che tutta felice di poter rendersi utile, diceva spesso al babbo:
— Se hai da fare, va pure, penserò io al passaggio dei treni.
— E posso fidarmi? — le diceva, — non dimenticherai l’orario?
— Non c’è pericolo, poi la mamma me lo rammenterebbe.
Pierina era tanto attenta e diligente che di lei potevano proprio fidarsi, anzi essa era al suo posto sempre dieci minuti prima del passaggio del treno col segnale in mano, colla sua faccia sorridente e i riccioli biondi agitati dal vento e indorati dal sole.
I conduttori e i macchinisti dei treni che percorrevano quella via, conoscevano già la Pierina, e quando s’avvicinavano alla casa cantoniera numero 6, pensavano che forse avrebbero veduto la biondina che faceva loro l’effetto d’una bella apparizione. Qualche volta la salutavano con un cenno, ma essa era sempre là ferma e seria, tutta compresa del suo ufficio.
E vi fu un periodo di tempo che vedevano sempre la biondina e di giorno e di sera, là in vista col segnale in mano, e si potea dire che la guardia della strada era unicamente affidata a lei.
Ciò avvenne perchè suo padre, una notte avendo dovuto aspettare il treno in ritardo, mentre nevicava, s’era presa una polmonite, e avea dovuto starsene a letto, mentre la mamma dovea stare ad assisterlo.
Il male avea fatto progressi, e il medico diceva che non c’era più speranza.
La Pierina non sorrideva più, avea il cuore grosso e le lagrime agli occhi, ma non dimenticava l’ora del passaggio dei treni, sapeva che i suoi genitori non avevano più testa, e doveva pensarci lei.
Ed anche il giorno che il babbo morì, e la sua mamma piangeva, essa non dimenticò d’andare alle ore consuete al suo posto.
Il babbo glielo avea detto tante volte in quei giorni che era ammalato, di non dimenticare l’orario; ed ora ch’egli non era più là, essa stava ancor più attenta.
Passarono alcuni giorni, e la sua mamma piangeva sempre.
— Perchè piangi? — le diceva Pierina, — ormai non c’è rimedio, se ti ammali, che cosa facciamo io e Luigino?
— Penso, — le rispondeva, — che ora che non c’è più lui, ci manderanno via dalla nostra casetta, e vedi, io voglio bene a questa casa dove sono venuta col mio uomo, dove vi ho veduti nascere.
— Anch’io voglio bene alla mia casetta, ai miei fiori, alle montagne e al vapore che passa, — disse Pierina. — Vedi, non potrei vivere nemmeno senza di lui, ma come abbiamo potuto fare questi giorni che il babbo era ammalato, potremo fare ancora; io sono grande e posso pensare alla strada.
— Sì, ma vedrai che ci manderanno via, — e a quel pensiero non poteva darsi pace.
Quando venne un ispettore, mandato dalla direzione della ferrovia, per vedere come fosse composta la famiglia, la povera donna lo supplicò in ginocchio che le lasciasse la casa cantoniera.
— È un mese che ce ne occupiamo noi, e, vede, non è mai accaduto nulla; è questione di qualche anno, poi mio figlio crescerà, e allora saremo tre come prima.
— Ma si tratta di una grande responsabilità, — diceva l’ispettore, — e non possiamo lasciare la guardia a due donne, ed una di queste ancora bambina.
— La mia Pierina è come un uomo, attenta, coraggiosa, intelligente; vedrà, vedrà che saranno contenti di noi, ma ci lasci al nostro posto.
L’ispettore era commosso dalle lagrime di quella donna, ma non poteva decidersi a cedere alle sue preghiere.
— Basta, vedremo, — disse, — io farò il possibile, ma senza un uomo è difficile, quello che posso fare per voi è di lasciare per il momento le cose come stanno; tutti gl’impiegati dei treni m’hanno detto bene di voi e della bambina; fingerò di ignorare che vostro figlio è un bimbo, e per qualche tempo procureremo di tirare innanzi, ma attente che non succeda nulla, e non dimenticate d’esser sempre al vostro posto.
La povera donna dovette contentarsi di quelle parole, ma viveva sempre con quella paura nel cuore e col pensiero di dover da un giorno all’altro abbandonare la sua casetta ed andare raminga coi figli a guadagnarsi il pane.
Pierina faceva miracoli: fra un treno e l’altro trovava il tempo di andare alla scuola, ma quando il treno dovea passare essa era sempre là, immobile al suo posto, e si divertiva a seguire collo sguardo quella lunga striscia nera che s’incurvava come una serpe, sul dorso dei monti, entrava nelle viscere della terra, e usciva trionfante, divorando la strada; che le passava innanzi, soffermandosi come per salutarla, per poi riprendere il suo cammino con maggior forza di prima.
Le pareva di veder passare un amico, e diceva che non avrebbe potuto vivere in un luogo dove non avesse veduto passarle davanti cinque o sei volte al giorno il vapore.
Se prima l’avea guardato con paura, poi con ammirazione, dopo che la maestra le ebbe spiegato come la forza che fa muovere tutto quell’ammasso di carri, carrozze, di gente e di roba, non è che un po’ di vapore, formato dall’acqua in ebollizione, e sapientemente compresso, cercava di studiare il movimento di tutti quei congegni, combinati tanto bene, e come mossi da una volontà sola, da un potere misterioso.
Un giorno che una macchina s’era fermata davanti alla sua casa, essa potè salirvi e vide il focolare come una bolgia infocata, entro la quale continuamente un operaio getta enormi pezzi di carbone che bruciano in poco tempo, e la caldaia, dove bolle l’acqua continuamente, e i motori, e le valvole di sicurezza, e il fumaiuolo donde esce il vapore dopo che in quella complicazione di congegni ha dato l’impulso che muove tutta quell’immensa massa; ma essa avrebbe voluto comprendere il mistero di quei congegni e scoprirne la forza arcana, e ci pensava sopra tutte le volte che lo vedeva passare.
Era una giornata burrascosa sul finir di novembre. Tutto il giorno avea nevicato in montagna, e raffiche di vento scuotevano le cime degli alberi, ruggivano nelle gole dei monti.
Luigino era ammalato, e la mamma non lo poteva lasciare un minuto.
Pierina, come al solito, dava un’occhiata alla strada, ed era al suo posto al passaggio dei treni, senza curarsi dell’infuriar della bufera e della pioggia che cadeva a torrenti.
Tutt’a un tratto verso l’ora del tramonto, mentre stava colla mamma ed il fratellino, che si lagnava nel suo letto, soffrendo più del solito, s’udì uno scroscio, un rombo terribile che fece tremare la casa come se crollasse.
— Mio Dio! che cosa succede? è la fine del mondo? — disse la donna.
— Vado a vedere, — disse Pierina.
— Con questo tempo? aspetta almeno che sia cessato, prenderai un malanno.
— Bisogna vedere, non sai che deve passare il treno delle cinque?
— È il diretto, non rallenta.
— Ma se fosse accaduta qualche disgrazia?
— Alle due è passato il treno, e tutto era in ordine, — disse la madre.
— Ma questo rumore? vado per stare tranquilla, non ho paura, sai, ci sono avvezza.
Si coperse bene con un mantello impermeabile, e uscì.
Tornò dopo cinque minuti tutta agitata, accese in fretta la lanterna rossa che attaccò ad un bastone. Prese il corno che stava quasi sempre inoperoso attaccato al muro e se lo mise a tracolla.
— Che fai? — le disse la madre.
— È venuta una frana, è caduto il ponte, che orrore!
— Che cosa intendi di fare?
— Bisogna fermare il treno.
— Sei pazza?
— Lascia fare a me, non t’inquietare, vedi, preparo i segnali.
— Se non li vedono con questo tempo, con questa nebbia?
— Suonerò il corno.
— Se non lo sentono?
— Speriamo che possano vedere o sentire. Vado, mamma, è l’ora.
Incappucciata nel suo mantello nero con un lampione rosso in una mano e la bandiera nell’altra, uscì, mentre il vento era più impetuoso che mai, e una pioggia gelata tagliava la faccia.
Pierina non si sgomenta per il tempo, il solo pensiero che la preoccupa è che quelli del treno vedano oppure odano i segnali. Il dubbio che le fa battere il cuore, è che con quel tempo non stiano in vedetta, tanto più essendo il treno diretto che non rallenta quasi mai. Sente il fischio in distanza della vaporiera, il suo cuore batte più forte, l’idea che quel lungo treno possa sfracellarsi nel precipizio le mette i brividi, è già in vista, ed essa soffia nel corno con quanto fiato ha in corpo, comincia disperatamente ad agitare la lanterna e la bandiera, ma il treno non rallenta, Pierina grida, si smania, suona più forte, ma il rumore delle carrozze e del vento rende indistinto il suono del corno, e il vapore s’avanza, sempre imperterrito, ed è già a pochi passi dalla fanciulla.
Essa non pensa più al proprio pericolo, s’avvicina, è quasi davanti alla macchina, sta per toccarla, soffia nel corno con tutta la forza dei suoi polmoni, non vede più nulla, le par di sentire come un gran frastuono nelle orecchie, e cade esausta per terra.
Si trovò sollevata dalla madre, la quale non potendo resistere dall’inquietudine, era uscita quando aveva sentito avvicinarsi il treno, e vedendo il pericolo a cui s’era esposta la figlia, sfogava la sua nervosità battendola come quando era bambina.
— Un bel spavento m’hai fatto prendere, — diceva, — non vedi che è stato un miracolo se non sei stata stritolata; che imprudenza!
Pierina nel vedere il treno fermo, immobile come una gran massa inerte, rideva e piangeva nello stesso tempo.
Non era dunque caduto nel precipizio! O quale miracolo! essa che avea creduto d’esser precipitata anche lei, era invece caduta affranta dalla fatica: le parea di sognare trovandosi ancora viva.
Ma intanto, mentre i conduttori chiedevano e volevano vedere la causa di quella brusca fermata, i forestieri strepitavano e si lagnavano d’essere stati disturbati e fermati così tutt’a un tratto, là in mezzo alla strada, con quel tempo, e furibondi, aprivano gli sportelli e scendevano per saperne la ragione.
— Eccola la ragione, — disse il macchinista, conducendo tutti quei curiosi al ponte, — possiamo ringraziare il Signore se non siamo tutti sfracellati laggiù.
— Ma come ve ne siete accorto?
— È stata questa bambina, — disse andando a prendere per un braccio Pierina, — e possiamo ringraziar lei prima di tutti, essa ci ha salvati, — e raccontò come proprio all’ultimo momento vedendo quell’ombra nera avvicinarsi alla macchina, e come un oggetto rosso agitarsi davanti ai suoi occhi, non avea pensato che a stringere i freni e a fermarsi; era stata una gran scossa, egli era caduto quasi giù dalla macchina, anche tutti i viaggiatori avevano dovuto rimaner tramortiti dal colpo, ma erano vivi e lo dovevano alla biondina.
Mentre il capo conduttore dava ordini affinchè alcuni uomini andassero al villaggio a cercare mezzi di trasporto, per il trasbordo dei viaggiatori e della roba, e telegrafava alle stazioni vicine che la strada era ingombra, e che mandassero dei soccorsi, i viaggiatori curiosi vollero scendere per vedere il luogo del disastro.
C’erano uomini e donne di tutte le età e di tutte le condizioni, alcuni ben vestiti e imbacuccati in ricche pellicce, altri con scialletti di lana avvolti intorno al capo, e ruvidi mantelli intorno alla persona.
Molte signore al vedere quella voragine, dove avrebbero potuto esser precipitate, svenivano; altri scherzavano dicendo: — Sarebbe stato un bel salto! — ma tutti ammiravano il coraggio della fanciulla che li aveva salvati.
La sua mamma invece continuava a sgridarla e a dirle:
— Un filo soltanto mancava che andassi sotto alla macchina; che cosa avrei fatto senza di te? Perchè sei stata così imprudente?
— Ho pensato a tutta quella gente che sarebbe morta, a tante mamme, a tante bambine che avrebbero pianto, a me non ho pensato, — rispose.
Una signorina inglese era in ammirazione davanti a Pierina, e tutta sorpresa che sua mamma la sgridasse.
— Come è brutale quella donna! — disse scambiando alcune parole in inglese colla signora che l’accompagnava, poi rivoltasi alla Pierina soggiunse:
— Vuoi venire con me? sono ricca, ti terrò come una sorella, ho una bella casa; starai tanto bene, nessuno ti sgriderà, vuoi venire?
Alla donna chiese:
— Me la lasciate? vi darò in cambio dei denari.
La donna non capiva e la guardava in faccia come trasognata; ma Pierina aveva capito bene, e gettando le braccia al collo della sua mamma, esclamò:
— Resto colla mia mamma, nella mia casetta, sono tanto contenta!
Un signore, ad imitazione della signorina inglese, volea fare qualche cosa per la fanciulla che li aveva salvati quasi miracolosamente, e disse:
— Piuttosto, per mostrare la nostra gratitudine, facciamo una sottoscrizione per questa povera gente, — e incominciò a dare l’esempio levando fuori del borsellino cento lire e tutti gli altri concorsero secondo le loro forze.
Ma Pierina non voleva accettare.
— Non ho fatto che quello che dovevo, — disse, — siamo qui apposta per guardare la strada; ma se volete proprio esserci utili, dovete dire alla Direzione della ferrovia che abbiamo fatto il nostro dovere, che nemmeno un uomo poteva fare di più; raccomandate loro che ci lascino la nostra casa cantoniera, il nostro cantuccio dove viviamo tanto felici.
— Lasciate fare a me, — disse il signore ch’era un ingegnere addetto alla direzione della ferrovia. — Lo faremo certo, e dopo un fatto simile credo non vi manderanno via, ma in ogni modo accettate questo denaro, vi servirà a pagarvi la casa nel caso non volessero lasciarvi la guardia d’un posto tanto pericoloso, e la Direzione della ferrovia, vi assicuro, ne fabbricherà un’altra vicino al ponte.
Intanto erano venuti i muli e i carri per caricare la roba, e passare al di là del precipizio, sul sentiero della montagna.
Molti viaggiatori lasciarono un ricordo alla Pierina, e l’abbracciarono, ed essa, quando tutto fu ritornato tranquillo, disse alla mamma che ancora non poteva rimettersi dallo spavento passato:
— Sono contenta; almeno non ci porteranno più via la nostra casa.
— Quanto sei buona! — le disse la madre, — ed io che t’ho sgridata, ma, sai, non ho pensato che al tuo pericolo; avevo perduta la testa.
— Non ti crucciare, mamma, lo so che mi vuoi bene, e pensare che quella signora voleva che andassi con lei! Doveva esser pazza.
Tutti quei ragazzi avevano seguito attentamente il racconto senza fiatare.
— Bello, bello, — esclamarono, — peccato che sia finito! ma ce ne racconterai un altro, è vero? — disse Giannina.
— Un’altra sera, ora sono stanca.
— Brava! — esclamò don Vincenzo.
— È bello davvero, — disse il professore.
— È una storia vera, — disse Maria, — non ho fatto che trascriverla.
— E aggiungervi un po’ della vostra grazia e del vostro sentimento, — soggiunse il Damiati.
— È bellissima la sua idea, e spero non mancherà di avvertirmi quando ne leggerà qualche altro.
— Si figuri, ne sono tutta orgogliosa, e non mi sarei mai aspettata che queste storie per i ragazzi, potessero interessare un professore come lei; ma ella è tanto buono!
Poi per cambiar discorso guardò quello che stava scarabocchiando Mario in silenzio.
— È proprio incorreggibile, — disse mostrando al professore i disegni del fratello.
Era una carta che rappresentava un treno dal quale scendevano dei tipi veramente buffi d’inglesi impalati, di forestieri camuffati con mantelli ridicoli; c’erano teste che guardavano fuori dai finestrini coi capelli irti e le facce spaventate, oppure con dei berretti dalle fogge più strane. Davanti a tutti poi, una bimba, con una cappa nera, con una bacchetta in mano, in atto di fermare il treno.
Il professore osservò quei scarabocchi e disse:
— Non c’è male, ha dell’attitudine a cogliere il lato ridicolo delle cose, e una certa facilità di disegnarle.
Poi rivoltosi a Mario, soggiunse:
— Però oltre che cercare di perfezionarti nell’arte del disegno, devi tenerti in mente una cosa: che se è bello qualche volta far spuntare il sorriso sulle labbra, e far risaltare anche il lato umoristico di un fatto o d’una persona, ci sono certi fatti, certe virtù che non si possono mettere in ridicolo, senza mostrare poco criterio o poco cuore. Non bisogna lasciarsi trascinare dalla smania di faro lo spiritoso a qualunque costo; vedi, per esempio, in questo tuo disegno tutti possono ridere al vedere quelle facce spaventate, quelle persone vestite in modo bizzarro, perchè sono persone immaginarie, e possono anche esser ridicole; ma hai avuto un bel camuffare la povera Pierina con quella cappa nera, hai potuto ben farla piccina, tutti quelli che ne conoscono la storia, rispetteranno quella veste, come si rispetta il cappotto del soldato crivellato di palle sul campo di battaglia, e più l’hai fatta piccina, più grande appare il suo eroismo. Impara dunque a distinguere quello che può essere colto impunemente, o anche con vantaggio, da quello che deve esser sacro ad una persona di cuore.
— Come parla bene, professore! — disse Maria. — Vede, tutte queste cose le ho pensate tante volte, ma non sapevo dirle come le ha dette lei: se mi volesse aiutare ad educare questi ragazzi!
— Volentieri, — rispose, — sono a sua disposizione per quello che posso.
Intanto era venuta a don Vincenzo la voglia di fare anche lui la sua predica, e disse che appunto l’arma di satirizzare, adoperata bene, può recare dei vantaggi, e citò il Giusti, che colle sue poesie satiriche, gettando il ridicolo sopra i principotti che opprimevano da tiranni l’Italia, diede loro il colpo di grazia, tanto che col suo spirito fu uno dei principali autori dell’indipendenza del nostro paese.
Damiati, al vedere che don Vincenzo incominciava il suo discorso favorito, e non avrebbe terminato tanto presto, s’alzò dicendo:
— È tardi, un’altra sera io farò la lezione a Carlo, e don Vincenzo vi potrà raccontare tutte le sue avventure del quarant’otto; se domani intanto i ragazzi vogliono venire a fare una passeggiata con me sulla collina, potrò continuar loro la mia predica, se non si annoiano.
Essi accettarono con gioia, e Maria ringraziò con un sorriso il professore che la sollevava un po’ dal pensiero di quei ragazzi vivaci.
Mario stava ancora disegnando.
Il professore gli disse salutandolo:
— Ti raccomando, se fai la mia caricatura, non farmi troppo brutto; però te lo permetto, ma certe cose, no.
Quando fu uscito assieme a don Vincenzo i ragazzi si misero a ridere forte.
Il professore doveva essere un mago, aveva proprio indovinato: Mario faceva il ritratto del Damiati in piedi su un pulpito, in atto di predicare.