Piccoli eroi/Una passeggiata
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UNA PASSEGGIATA.
Il professore Damiati, la mattina dopo, mentre un bel sole di autunno indorava la cima delle colline e le goccie di rugiada tremolavano sull’erba dei prati, chiamò, passando da casa Morandi, i ragazzi per condurli a passeggiare sulla collina. Voleva indurre a seguirli anche Maria colle fanciulle, ma ella si scusò dicendo di dover accudire ad alcune faccende domestiche e promise di andare ad incontrarli più tardi, verso l’ora del tramonto.
Il professore aveva intenzione di condurre i ragazzi ad un Santuario che si vedeva biancheggiare sulla cima d’una collina in mezzo alle piante verdi, dove un tempo c’era un chiostro. Di lassù si godeva una bella vista e nei mesi d’autunno era il pellegrinaggio favorito delle comitive di villeggianti; vi andavano a far colazione, per passare tutta la giornata all’ombra delle piante e visitare nel medesimo tempo il Santuario.
Si avviarono, allegri, col paniere pieno di viveri in mano, e Vittorio si offerse di portare anche quello del professore. Mario aveva, oltre al paniere, l’album, che portava sempre con sè per disegnare gli avvenimenti della giornata.
Damiati cercò di star vicino a Carlo e incominciò subito ad interrogarlo dei suoi studii e volle sapere perchè non cercasse di essere più attento alla scuola e di contentare la sorella.
Gli rispose quello che diceva sempre:
— Non sono nato per studiare, voglio fare il soldato.
— E credi che i soldati non abbiano bisogno di studiare? Naturalmente tu non ti contenteresti di esser soldato semplice.
— Il mio sogno è di diventar generale, vorrei fare come Garibaldi.
— Probabilmente se tu avessi il coraggio e l’abilità di Garibaldi, ti mancherebbe l’occasione per metterli alla prova e per farli conoscere. Non capisci che ora i tempi sono cambiati, e colle armi perfezionate anche le battaglie si vincono al tavolino e la guerra è diventata una scienza? Poi le guerre di conquista non sono più conformi alla nostra civiltà, e l’Italia libera e indipendente non ha più gran bisogno che i suoi figli le consacrino il loro coraggio e il loro sangue, bensì le occorrono ingegni educati a forti studii, che la facciano ricca e potente.
— Se non potrò fare il soldato, diventerò marinaio, — disse Carlo.
— E avresti poi la forza di sopportare una vita dura e piena di pericoli? Non sai quanti ragazzi attratti dalla poesia del mare, dopo aver provato quella vita di privazioni e di paure, vi hanno rinunciato spossati e spoetizzati. Prima di esporsi alle grandi fatiche, bisogna aver coraggio di affrontare le piccole, prima di essere grandi, bisogna esser piccoli eroi, come dice bene tua sorella; perciò, se vuoi darmi retta, incomincerai a vincere la tua pigrizia ed a metterti a studiare sul serio; quando avrai superate le difficoltà che ti si presentano, quando avrai fatto degli sforzi per fare non quello che ti piace, ma quello che è tuo dovere, sarai già incamminato a diventare qualche cosa e forse anche un eroe se te ne capita l’occasione; ma dà ascolto a me, principia col riportare qualche piccola vittoria sopra te stesso, le altre verranno da sè.
Lo lasciò poi andare dicendo che non voleva annoiare tutta la compagnia a furia di prediche e incominciò ad ammirare il paesaggio, a cogliere dei fiori lungo il sentiero della collina, e fu una gara fra quei ragazzi per arrampicarsi sui declivi onde scoprire i ciclamini che si vedevano spuntare in mezzo al verde. Quel sentiero girava intorno al monte, incurvandosi e salendo sempre, mentre da un lato c’era la valle profonda che in certi punti faceva l’effetto d’un baratro.
Il professore raccomandò ai ragazzi di tenersi dalla parte del monte, perchè dall’altra, c’era pericolo di cadere nel vuoto. Proseguivano il loro cammino, arrampicandosi e cogliendo fiori, quando tutt’a un tratto, ad una svolta della strada, videro avanzarsi verso di loro una mandria di buoi, che occupava tutto il sentiero e sbarrava la via. I ragazzi si fermarono esitanti.
— Avanti, Carlo — disse il professore, — tu che vuoi fare il soldato dovresti essere il più coraggioso, passa per il primo in mezzo a quei buoi.
— Non c’è posto — disse tutto tremante il ragazzo.
— Avvicinati! coraggio!
Carlo s’arrampicò sul monte per evitare quegli animali, ma lo fece così in fretta e con tanta paura che un vitello ch’era sul pendio lo rincorse, ed egli gridando, tutto pauroso, rifece i suoi passi e si nascose dietro il professore.
Tutti si misero a ridere e il professore disse a Vittorio:
— Prova tu, vediamo se hai più coraggio.
Vittorio si fece innanzi ubbidiente e passò in mezzo a quelle bestie come se nulla fosse, seguito dagli altri, che dopo il suo esempio non vollero esser da meno di lui.
— Vedete, — disse Damiati, — che non c’è da temere, quelle sono le bestie più docili che ci siano, basta non spaventarle. Osservate, le conduce un ragazzo.
Infatti il mandriano era un ragazzo di forse quindici anni.
— Io non ho mai capito come bestie così grosse, — disse Mario, — si lascino condurre da un ragazzo così piccolo; io al loro posto scapperei.
— Sì, ma ai loro occhioni, come si suol dire, un ragazzo è un gigante, e poi non conoscono la forza che possiedono e non si ribellano che quando sono infuriati — disse il professore; — vi assicuro che le bestie sono buone, basta non molestarle.
— Sì, ma i leoni?
— Se hanno fame s’ingegnano come possono e se incontrano per istrada una buona preda l’ammazzano; io invece conosco dei ragazzi che tormentano, inutilmente, delle povere bestioline che non fanno nulla di male. Chi è più crudele?
Mario aperse la mano tutto confuso e lasciò fuggire una farfalla che ci teneva chiusa.
— L’avevo presa per copiarla, — disse; — del resto sono bestie stupide che non sentono nulla.
— Speriamo sia così, in ogni modo questi animali hanno la vita di un giorno e non bisogna esagerare nemmeno nella compassione; anche gli scienziati li tormentano, ma con uno scopo utile, solo non mi piace che si faccia per crudeltà.
Intanto s’avvicinarono alla meta. In mezzo alle piante secolari si vedeva sorgere una chiesetta circondata da cappelle, poi, accanto, una casa e un cortile con un gran porticato che pareva un convento.
— Ci sono i frati? — chiese Vittorio.
— No, — rispose Damiati, — c’è soltanto un custode che si fa chiamare col nome di eremita, ed è infatti un eremita dei nostri tempi.
— Che gioia! — disse Mario; — sono proprio contento di far conoscenza con un eremita.
— È un uomo come gli altri.
— Come! io che me lo figuravo con una tonaca e una barba lunga; allora non c’è nessuna novità.
— Un vero eremita dovrebbe essere quasi un selvaggio, una persona che vive soltanto colla natura e mangia solo i frutti della terra; ora è cambiato anche questo, ci sono degli uomini che vivono solitari, ma a patto di scendere ogni tanto al villaggio quando sono stanchi della solitudine, e forse stanno soli perchè sono d’un carattere così bisbetico che non vanno d’accordo col loro simili, — disse Damiati; — ma ecco l’eremita.
Infatti un uomo veniva incontro a loro e chiedeva se volessero vedere la chiesa.
I ragazzi lo guardavano con curiosità e gli chiesero se non s’annoiasse di star sempre lassù solo. Egli disse che non aveva bisogno di nessuno; gli domandarono la sua età e la ragione per cui si fosse ritirato in quella solitudine, ma non volle dir nulla, e visto ch’essi avevano levato le provviste dai loro involti, s’offerse di portare dei sedili e dei piatti perchè potessero mangiare comodamente all’ombra delle piante.
Prima di tutto si misero a mangiare, perchè l’aria fresca della mattina aveva aguzzato il loro appetito, e divoravano la carne, le uova sode e le altre provviste che avevano recato, come se fossero bestie affamate.
— Bisogna lasciar qualche cosa per l’eremita, — disse Mario.
— Ma io ho fame, — rispose Carlo.
— Non ci pensate, — disse Damiati, — al caso gli lasceremo qualche moneta; — poi fece loro ammirare il bellissimo paesaggio che si vedeva da quel posto: di faccia una fila di colline verdeggianti intersecato da strade che formavano delle righe bianche, poi giù una valle sparsa di paeselli con un torrente che scendendo dallo montagne l’attraversava e sul quale stavano in certi punti sospesi dei ponticelli pittoreschi.
— Bello! — diceva Mario, — come mi piacerebbe dipingere questo quadro, ma quando sarò più grande lo farò. Senta, professore, dica al babbo ed a Maria che mi facciano studiare la pittura.
— Se avrai una vera inclinazione, lo faranno certo, ma intanto devi cercare da te stesso di esercitare l’occhio a cogliere il vero; prova a ritrarre quel paesaggio e ne vedrai la difficoltà. Si fa presto a dire voglio essere un artista, o voglio essere un eroe, come dice tuo fratello, anzi a questo mondo tutti vorrebbero essere qualche gran cosa, tutti hanno grandi aspirazioni, ma pochissimi riescono ad uscire dalla mediocrità. Sentite, ragazzi, ora siete giovani e dovete pensare a faticare e a lavorare molto, e forse dopo potrete avere il premio che sperate.
Mario s’era posto a disegnare colla matita in mano e l’album aperto, ma dopo due o tre tentativi inutili per copiare il paesaggio si contentò di fare la caricatura di Carlo che fuggiva inseguito da un vitello perdendo lungo la via il paniere della colazione, e disse:
— È inutile, io non sarò altro che un pittore caricaturista.
— Chi sa che cosa diverrai! — disse Damiati. — È troppo presto per saperlo, intanto pensa a studiare.
Visitarono la chiesa e poi scesero saltellanti dalla collina, contenti della loro passeggiata. Ai piedi del monte trovarono Maria, Elisa, Angiolina e Giannina e tutti assieme s’avviarono verso casa narrandosi gl’incidenti della giornata.
Ad un certo punto videro un gruppo di ragazze guardare attentamente per terra; Elisa, che era molto curiosa, si avvicinò a quel gruppo composto della signorina Guerini, l’istitutrice, e di una loro amica, ma appena si accostò, le altre se n’andarono senza salutarla, ed essa si trovò davanti ad una biscia morta che faceva ribrezzo. Corse subito a raggiungere la sorella, dicendo tutta imbronciata:
— Hai visto la signorina Guerini? che superbia!
— Perchè? S’è fermata un momento, ma non metteva conto che si fermasse di più per quella bella vista.
— È stato per non salutarci; domanda anche a Carlo come questa mattina sono passati davanti a noi in carrozza senza nemmeno degnarsi di guardarci.
— Non vi conoscono e non si saranno accorti di voi, che non siete poi dei personaggi illustri.
— Ma Alberto è stato alla scuola elementare con me? — disse Carlo.
— Non se ne ricorderà; ma perchè volete occuparvi degli altri? Pensiamo a godere piuttosto della nostra passeggiata.
Ma Elisa che sperava di far amicizia colla signorina Guerini era imbronciata, Giannina ed Angiola correvano avanti per fermarsi a coglier fiori e Mario raccontava a Vittorio che voleva fare la caricatura di Alberto Guerini quando passa tutto superbo sul suo velocipede, senza degnarsi di guardare i miseri mortali che camminano lungo la via.
— Vedi, — diceva, — voglio disegnarlo in tre tempi: prima nell’atto che passa superbo lungo la strada, poi quando scende impetuosamente da un declivio, e finalmente nel punto che cade in un fosso colle gambe all’aria e il cappello un miglio distante.
Maria parlava invece col professore Damiati domandandogli consigli sul modo d’educare i ragazzi, sempre preoccupata dal pensiero dei cinque figliuoli, e quando la salutò sull’uscio di casa essa gli raccomandò di venire spesso la sera a trovarli insieme a don Vincenzo.
— La loro conversazione sarà tanto utile ai miei figliuoli, — disse Maria; — mi raccomando, non mi abbandonino.