Piccola morale/Parte quarta/V. Le vocazioni

Parte quarta - V. Le vocazioni.

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V.

LE VOCAZIONI.

Tutti l’hanno la propria vocazione, e quando le circostanze sembrano ritardarla, la irritano invece e la secondano maggiormente. Pochi o nessuno saprebbero indovinarla a principio. Non voglio parlare di persone o di fatti la cui solennità solleverebbe la modesta mia prosa didascalica alla pompa del fraseggiamento oratorio: mi contento di additarvi fatti e persone che ci cadono sotto gli occhi ad ogni ora. Ecco due giovanotti che, scambiato il mestiere colle modiste e colle crestaie, vanno su e giù per la strada, con dietro via chi porta loro il cofano, la cesta, od altro invoglio, con entro il cappellino, la cuffia, la pellegrina, od altro tale arnese della femminile galanteria, cui si affrettano di recare alle amabili committeuti. Vedete per altra parte un pezzente, su cui uon possono le stagioni, se non in quanto al fioccar [p. 227 modifica]della neve in maggiore abbondanza si getta alle spalle una sciatta stiavina, che meglio direbbesi stuoia, a coprire un bamboccio che gli miagola sotto pietosamente come fosse un gattino. E da costui v’ha chi compera non una polizza di lotteria, o qualche empiastro di cerretano, come parrebbe dovesse farsi da un tale che ha sembianza e riputazione e soprannome di matto, ma niente meno che libri d’ogni dottrina e d’ogni gusto, a cominciare da un trattato di metafisica giù sino agli apologhi di Francesco Gritti. Ho conosciuto un tale, e prego lunghissima vita e costanza di buon umore a quel tale, cui seccavano i clienti che affollatissimi si presentavano alla porta del suo studio di avvocatura (nella qual professione per acume e onestà avea pochi pari) e sbrigavasene, allegando di aver tutte l’orc contrassegnate nel portafogli, indovinate perchè? per potersi a tutto bell’agio fiaccare sotto cocentissimi soli a dissodare il terreno di uu orticello che avea preso a pigione da lato la casa. E chi avessegli detto di scegliere tra un cavolo prosperoso nelle sue aiuole e una lite dichiaratagli vinta dal tribunale, avrebbe senza più preferito il cavolo alla vittoria. Cosi va a questo mondo! E, per certo rispetto, non c’è più trita, e diremo anche più ingiusta, opinione di quella che tuttodi si vocifera, e da tutti, e in tutti i luoghi: nessuno essere assestato convenientemente a questo mondo. [p. 228 modifica]

Siccome mi accorgo che una tale opinione ha moltissimi partigiani che leverebbero un tafferuglio da spaventare, al leggerla così spiattellatamente contraddetta, credo opportuno dichiarare in qual senso sia giusto il dire che tutti siamo spostati a questo mondo, e in qual altro questa medesima sentenza sia ingiusta. Considerando i desiderii degli uomini, vasti, ardenti e sempre irrequieti, egli è certo che non sono, nè saranno, ne possono essere mai soddisfatti, e fino a qui tutto il mondo è vaso di troppo angusta capacità a contenere le voglie di un uomo solo. Ma quanto al seguire ciascun uomo la propria vocazione, vale a dire al dare ogni pianta quel frutto al quale era preventivamente ordinata fin d’allora che tutto l’albero comprendevasi in un po’ di nocciuolo, questo è indubitato che avvicne sempre ed in tutti, anche in onta di tutte le dure e apparentemente invincibili opposizioni della fortuna. Sicchè la differenza sta in questo, di germogliare piuttosto in un giardino di poca dimensione, che in campagna vastissima di cui l’occhio non arriva al confine. Oh! foss’io nato figlio di re, o per lo meno di gran signore, dice taluno; saresti, io rispondo, quel medesimo insolente e rissoso insultatore del prossimo che se’ adesso, quantunque si piccolo ometto, abile appena a dar briga a’ fanciulli che ti vengono tra i piedi lungo la strada. E tu devi contentarti di mostrare la tua nobile inclinazio[p. 229 modifica]ne alla beneficenza e alla mansuetudine nelle parole e in qualche picciolo fatto, poichè non puoi meglio. E chi non te ne avrà l’obbligazione stessa che al ricco, cui basta una svolta di chiave piuttosto a sinistra che a dritta per far scorrere le monete sulla consunta mendicità, sarà un tristo o un balordo.

È giusto a chi trovasi imprigionato entro angusti confini il desiderare che gli sian allargati a far miglior prova delle proprie virtù; ma c’è anche un proverbio di molto vecchia prudenza che dice: l’acqua che più si comprime più schizzar alta. E potrebbe tradursi, che la stessa angustia delle condizioni è stimolo bene spesso a maggiore dimostrazione della virtù; e coutinuare amplificandola: tal essere buono lavoratore che sarebbe cattivo possidente, e di bravo soldato riuscirne pessimo comandante. Quante risse, quanti soprusi sarebbero risparmiati tra gli uomini, ov’essi si persuadessero che l’occupare il posto assegnato ad un altro, non è presso che mai con vero vantaggio! Chi anelava smanioso al secondo gradino tanto che poggiava i piedi nel primo, porterà con sè la sua smania ad agonizzare pel terzo, quando pure gli avvenga di salire al secondo; e adoprerà mani e piedi ad aggrapparsi sul quarto e sul quinto, e via via con infinito tormento per tutti i gradini della scala, di cui non c’è occhio umano che vegga la sommità, perchè ravvolta dalle te[p. 230 modifica]nebre della morte. Strenua inertia, diceva Orazio, in altro significato; ma potrebbe dirsi anche in questo; dacchè ella è pure una grandissima possessione il riposarsi nel posseduto. Voglio conchiudere per questo che i maggiori filosofi siano i poltroni? Al contrario sostengo, che più e più gagliardamente opererà chi si studia di coltivare per quel meglio che sa il campo che gli fu dato, di chi perde il tempo a misurare l’altrui, e dove potrebbe gustare le frutta del primo, bada a nutrirsi della vista dell’altro.

Non si veggono dunque persone spostate a questo mondo? Siamo anzi, come diceva a principio, tutti spostati: ma che farne? Forse che ci porremo tutti a luogo col roderci inconsolabilmente la vita? E crediamo che sapremmo nemmeno assegnare agli altri, e specialmente a noi stessi, il luogo che ci sarebbe meglio appropriato? Avevano un bel dire i pastori a quel dabben uomoi cui versi furono pagati tant’oro: tu sei poeta per eccellenza. Il dabben uomo faceva l’incredulo ed il sordo. Era egli poi veramente poeta? Che serve questo? Dico che non si dava affanno, e non montava in galloria per quelle zolfe de suoi colleghi che gl’intronavano l’orecchie. Egli è questo che fa al nostro caso. Avessi tu avuto un più lungo avviamento di studii! Il grand’uomo che saresti diventato! Verissimo; ma dacchè il campo che mi fu assegnato non è che di quei tanti palmi, metterò nell’allevare bene i miei fi[p. 231 modifica]gli quella diligenza che non mi fu conceduto di usare nel compor libri. Non potrò scolpire quel la Minerva, o colorire quella prospettiva, per cui mi sentiva tutto l’animo invasato e disposto? Pazienza; ricopierò nel mio contegno decoroso e virile l’immagine di quella dea, cui per mancanza di commissioni non mi fu possibile di dar forma sensibile nella pietra; farò che chi avrà d’innanzi il corso intero della mia vita creda di vagheggiare il ridente e ben disegnato paesaggio che indarno ho desiderato di por sulla tela. Mi resterà compagno tutta la vita il dolore di non aver attuato le fantasie; ma forse è egli questo il solo dolore inevitabile a chi viene a mutar passi per questa terra d’esilio? E in questo stesso dolore nobile e assiduo, non avrò il testimonio della mia dignità, e dell’altezza della unia anima? E se mai fossi tauto stolto a prendermela con quelli che tengono il posto che io credo sarebbe il mio, mi sovverrò della scala e dei suoi gradini testè ricordati, avendo compassione anziché abborrimento a chi, trovandosi più alto di me, non mi oltrepassa di un dito riguardo alla pace dei desiderii, se già forse non mi sta sotto parecchie braccia.

Voi giornalista? mi disse non so chi, giorni sono. Perchè non piuttosto scrittore di poemi, di storie, in somma di grossi volumi, anzichè di fogli volanti? Le sono cose che si dicono per cortesia anche a chi non andrebbero dette, e [p. 232 modifica]per conseguenza mi presi il mio bel complimento con un sorriso e un inchino di gratitudine. Ma avrei potuto soggiungere: e non è un derivare inchiostro dal calamaio tanto lo scriver storie, che il dettar articoli di giornale? Così mi accadesse che nelle mie ciancie di giornale sapessi infondere quell’utilità, che, secondo proporzioni diverse, potrebbero dare le storie dettate con sapore e coscienza! E poi, quel medesimo che mi vorrebbe autore di poemi, di storie, di grossi volumi, me ne crede veramente capace? E mi creda; è egli tale da sapere indovinare giustamente chi sia atto a tale, e chi a tal altro lavoro? Se mi avverrà di scriver storie, o poemi, o grossi volumi, forse che mi si dica, parte con giustizia, parte per semplice disamore del prossimo; no, quel tuo ingegno non è da si grandi cose; non ti fu profitto l’uscire dalle novelle, dalle relazioni dei libri nuovi, e da qualche sciarada. Fo questo discorso in persona propria per non dar d’urto nelle particolari ambizioni di chicchessia. E protesto che non mi affanno punto di spendere molto del mio giorno a compilare un giornale, quantunque non mi sembri che questo fosse il campo appropriato alla mia vocazione, se pure la mia vocazione era di far ballare la penna quando gli occhi hanno cessato di leggere, per poi tornare a metter gli occhi in faccenda quando il lavoro della penna è ccssato.