Piccola morale/Parte quarta/VI. Gli stampi
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VI.
GLI STAMPI.
Confessiamo che il pensiero fondamentale di questo articolo lo abbiamo tratto dai discorsi di un bell’ingegno, anzichè dal nostro cervello; e in premio di questa ingenua confessione preghiamo i nostri lettori a non voler prendere con troppo rigore le nostre parole, molte delle quali sono da noi dette non altrimenti che da scherzo. Diceva adunque quel bell’ingegno, che madre natura ha certi suoi stampi, rispondenti alle varie professioni che si possono esercitare dagli uomini a questo mondo. Ce ne sono di lunghi e di corti, di rotondi e di quadri, altri lisci altri a scanalature e risalti; quale in somma a questo, quale a quel modo. La pasta di ogni uomo esce per conseguenza figurata per varie guise, quando di chi porta toga, quando di chi porta spada: chi con fronte alta e rasa da uomo che dice il fatto suo con sincerità, senza riguardo a persona; chi con certi occhi torti che guardano in terra, mentre sembrano tutti assorti nel cielo. Vi sono mani leste e flessibili che direbbonsi nate fatte per un giocoliere; e pancie badiali perpetue amiche dell’indigestione e del sonno. Non vi siete mai abbattuti in certe bocche sguaiate cui scappano fuori le parole senza essere mandate, o in certi nasi che sembrano andar sempre in cerca di alcun che dove ficcarsi? Secondo queste regole l’ingegnoso Lavater, e prima di lui il napoletano Della Porta, posero i fondamenti alla scienza fisiognomonica, che, contenuta entro certi limiti di discrezione, non manca di qualche probabilità nelle sue congetture.
Ma ciò che rende assai volte disperato il lavoro congetturale dei due sapienti testè ricordati, e dei loro seguaci, si è la stravagante direzione che prendono gl’ingegni, come prima incominciano a mettere in opera la volontà loro, direzione assai spesso contraria al disegno della buona madre natura. Si mette a palpare velluto chi nacque con raffi opportuni a scardassare la lana; e chi ha dita con polpastrelli poco meno che di bambagia fa prova di nettare quadri ammuffiti da più d’un secolo. Spicca capriuole chi ha gambe gonfie e bernoccolute peggio che da gottoso; e s’incarica di balle pesanti fra quante ne ha la dogana chi è smilzo di fianchi e colle spalle a punteruolo, tanto che direbbesi potesse passar fuori per qualunque fessura. Che ne avviene? Che al vedere Tizio si fa giudizio che le opere sue sieno tali quando in fatti sono altre; che si creda usuraio lo sprecatore, il gentiluomo facchino, cinico il bellimbusto. Ma non si deve per questo dubitare della verità dell’osservazioni e delle dottrine de’ maestri: bisogna spinger innanzi l’esame, e sì che l’esperienza suggellerà la primitiva opinione. Che importa se Alfredo, con ceffo da birro, si trasferì tutto lindo e muschiato a fare il cascamorto per le gentili brigate? Al primo levare di una qualche contesa vedrete corrispondenza d’azioni collo stampo onde fu da natura improntato: mentre altri gli parla allunga le mani, o se i tuoi argomenti sono tali ch’ei non ti possa o sappia rispondere, aspettati di portarne i lividi sulle braccia. Cortese Roberto? La sua cortesia ha sempre alcun che di convulso e di affaccendato. Lo stampo onde lo aveva impresso natura era d’uomo sgarbato e villano: coglilo fuori di scena quando meno ei se l’aspetta. Non lo vedi stringersi nelle spalle? Risponderti con un torcimento di labbra? Poco meno che ruttarti in faccia? Le abitudini di moltissimi sono vesti che piangono loro addosso, o che gli strozzano: tanto le sono sproporzionate! Si gonfino pure e soffino, se le sono soverchiamente larghe, non giugneranno mai a rendersele attillate alle membra; si assottiglino, e tengano il fiato, se loro sono troppo assettate, mai non arriveranno a fare si che non ci si vegga lo stirato in una parte o nell’altra. Sfoggia pure Tiburzio; ma quel tuo bel palazzo, insigne d’architettura e di antichi capi d’opera d’arte, fulgido di alabastri e di specchi, abitato da te, che fatto eri per una casipola, sembrerà sempre vuoto e solitario. Si smarrisce l’anima tua gretta e piccina per quelle ampie sale, per quelle balaustrate, per que’cortili tanto pomposi. Fatti piccino, se sai, o Fulgenzio, per capire nel tuo ritiro, la tua modestia, come finta, non si attaglia a cosi angusta periferia. Stringi di qua e di là rigonfi; rientri da un lato e dal lato opposto riesci. Chi ti passa davanti si accorge subito del travaglio in cui vivi. Gran che sono gli stampi, chi voglia badarvi senza far caso delle forzate alterazioni che si veggono pure ad ogni ora!
V’ebbe un pazzo, la cui infermità singolare può farsi lezione di molti savi. Tutti gli uomini erangli veduti sotto sembiante di bestie, e, vedi caso, imbroccava presso che sempre nelle inclinazioni proprie della persona che gli si presentava! Licinia? Appena aveala veduta ob la bella gatta sclamava. Tutti sanno essere costume de’ gatti, com’ei hanno fatto alcuna sconcezza, menar in fretta le zampe a coprirla. E i conoscenti di Licinia l’avevano per una ipocrita delle matricolate. Vittorio? Oh il camaleonte! Vittorio era la delizia di tutte le conversazioni, perche sapeva esser rosso o giallo, verde o celeste, secondo i casi. Taluno che credevasi cigno, oh! la meraviglia che prese di sè, vedendosi salutare dal pazzo per: la bell’oca! Un tale, che dimenava il collo da dritta a sinistra con sentimento d’ineffabile compiacenza, e scompigliavasi in capo le chiome, come fossero i crini di ginnetto bene strebbiato, recatosi a visitare il pazzo, e dette alcune parole, fu da quello pregato che volesse grugnire un po’ meglio. Grugnire? soggiugneva l’altro. E alcuni de’ circostanti, cui erano note molte occulte pratiche del preteso ginnetto, conchiusero che il pazzo erasi apposto al vero prendendolo per uno sporco maiale. Dicesi che l’autore degli Animali parlanti ricavasse da questo pazzo il principale concetto del suo poema. Su di che veggano i suoi biografi.